Giancarlo Caselli è un simbolo autentico di un’Italia che è sempre stata dalla parte giusta. Quella della difesa della legalità, della democrazia, della Costituzione. Lo ha fatto a Torino, negli anni della lotta al terrorismo. Lo ha fatto a Palermo, dove scelse coraggiosamente di andare a guidare la Procura dopo che  le mafie, lo stragismo avevano colpito uomini politici, donne e uomini dello Stato, della polizia, dei carabinieri. Magistrati, fino a Falcone e Borsellino con le loro scorte. E vittime innocenti.
Per questo martedì, quando l’ex-magistrato (ora Presidente onorario di Libera) è tornato fisicamente a Roma, a palazzo San Macuto, per proseguire la sua audizione in Commissione Antimafia sulle stragi di quegli anni,  partendo da Via d’Amelio, il rispetto nei confronti di quest’uomo, della sua vita, del suo percorso di servitore
dello Stato, si toccava con mano. Si respirava.
Non è nelle migliori condizioni fisiche, Caselli, ma insieme alla moglie Laura, forte e dolce scorta di una vita, è voluto tornare. Avrebbe potuto collegarsi da remoto, dalla sua casa di Torino. Ma ha deciso di tornare. Per rispetto, certamente, della Commissione parlamentare Antimafia (che nonostante tanti “acciacchi” e pesanti limiti rispetto istituzionale ancora lo merita). Ma anche per guardare negli occhi i Commissari, mentre leggeva e illustrava le pagine che – come nella prima parte dell’audizione – hanno ricostruito con precisione quadro, scenari, contesti nei quali avvennero le stragi di Capaci e subito dopo Via D’Amelio.
 
La sua ricostruzione è stata rigorosa, credibile, in grado di smontare ogni tentativo di riscrivere la storia di quegli anni , tentativo in atto da molto tempo e accelerato da quando questa Commissione Antimafia ha preso il via in questa legislatura.
L’esposizione di Caselli ha sgomberato il campo dal recinto stretto in cui si voleva e si vuole collocare la strage di Via D’Amelio: la sola pista della questione mafia-appalti. Che non è stata negata. C’era, esisteva, ma pensare e sostenere che sia stata quella ad accelerare la strage di Via D’Amelio, “tantomeno a scatenarla”, beh, può significare solo una cosa: cercare di occultare gli stretti rapporti di quella fase ( in concomitanza con il dominio della mafia corleonese di Riina ) tra mafie e politica, mafie e certi apparati dello Stato, mafie ed estremismo nero. Soggetti tutti uniti dalla volontà politica di cambiare il corso della storia, dopo la cosiddetta “fine della Prima Repubblica” e assecondare magari i nuovi soggetti politici che si candidavano al “cambio”.
 
Per questo Caselli ha allargato lo sguardo, ricostruendo il quadro, le responsabilità. Individuando in un colloquio avvenuto a Casa Professa, Palermo, tra Borsellino e gli ufficiali dei ROS Mori e De Donno. Nel colloquio il magistrato fece capire di voler riferire a Caltanissetta sue “convinzioni” sulla strage di Capaci. Non fece in tempo, come è noto.
Ma la puntuale ricostruzione ha anche evidenziato come quella volontà di Borsellino di riferire notizie alla competente Procura nissena fosse per la mafia “una bomba pronta a scoppiare, da disinnescare”. E in quella fase Borsellino, nei colloqui con la moglie Agnese, con gli amici più stretti e fidati mai – ha ricordato Caselli – fece cenno al solo filone mafia e appalti. Come è noto, ci sono magistrati e inchieste che hanno individuato negli anni in “piste nere”, in oscuri patti scellerati in depistaggi (come quello del falso pentito Scarantino, “mai usato dalla procura di Palermo”) le cause reali delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Certo, nelle precedenti audizioni il generale Mori e il colonnello De Donno, ex-Ufficiali dei carabinieri (Arma con la quale – ha ricordato Caselli – i rapporti sono stati sempre di straordinaria collaborazione, a partire da quelli con il generale Dalla Chiesa)  hanno fatto di tutto, senza convincere nessuno, per limitare a “mafia e appalti” la ragione di Via D’Amelio, ignorando tutto il resto. Che c’era e che non può essere consentito a nessuno di riscrivere o cancellare.
Sono state, quelle di Mori e de Donno, audizioni che hanno avuto aspetti sconcertanti. Ne ricordiamo uno. Fu quando noi stessi leggemmo loro le intercettazioni di due telefonate, agli atti del processo di Firenze. La prima era di De Donno a Dell’Utri. Era la sera in cui la Cassazione aveva “rinviato” la sentenza della Corte d’Appello che condannava in secondo grado Dell’Utri per associazione mafiosa. Rinviato, tanto che la sentenza fu poi emessa con condanna definitiva poi scontata in carcere dall’ex braccio destro di Silvio Berlusconi. Quella sera, De Donno telefonò a Dell’Utri per felicitarsi della decisione della Cassazione. Il giorno dopo, lo stesso De Donno informò Mori della telefonata, ricevendo convinto assenso per il gesto. Rivolto, non dimentichiamolo,  a un condannato per associazione mafiosa già in due grandi di giudizio.  Alla nostra domanda che chiedeva ad entrambi conto di quelle telefonate, De Donno rispose: “Stimavo e stimo Dell’Utri”. Mentre Mori aggiunse di suo, invece, di “non stimare la Procura di Palermo”.  Punto. Senza specificare – per dire – “quella di Giammanco”… No, la Procura, mentre il suo collaboratore più stretto esprimeva “stima” ad un condannato definitivo per associazione mafiosa.
Ecco, l’audizione di Giancarlo Caselli, con rigore, sobrietà istituzionale, senso profondo della legalità, è stata ossigeno per la Commissione Parlamentare Antimafia.
ARTICOLO 21