Certamente era possibile svelare e disinnescare, quantomeno sul piano strettamente processuale, il depistaggio ben prima e indipendentemente dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza, nel 2008.
Se ciò non è accaduto è per la conduzione supponente e superficiale delle indagini da parte dei pm di Caltanissetta e la scelta di assecondare acriticamente in alcune sentenze quella ricostruzione fallace e sommaria.
Nella precedente inchiesta erano state sottolineate alcune gravi aporie processuali riguardanti taluni dei giudizi aventi ad oggetto la strage di via D’Amelio, per l’esattezza soltanto tre rispetto ai rimanenti undici giudizi che si sono occupati direttamente della vicenda.
Sennonché, paradossalmente e stranamente, i suddetti tre giudizi hanno prevalso sugli altri, suggellando, apparentemente in modo irreversibile, l’attendibilità oggettiva e soggettiva di Scarantino, Andriotta e degli altri collaboratori a questi due collegati, riconosciuti, invece, successivamente e questa volta veramente in modo definitivo come falsi.
Oggi, dunque, per una esauriente – almeno dal punto di vista dello sviluppo processuale – comprensione dei fatti, diventa ancor più stringente distinguere nettamente il piano extraprocessuale (riguardante le complessive iniziative ed attività investigative scandite nei vari passaggi da molte ombre, buchi neri, deviazioni, depistaggi, forzature e interventi contra legem dei servizi segreti) da quello strettamente processuale, intendendo con ciò esclusivamente richiamare i molteplici processi celebrati e i loro esiti. In tale ultimo contesto, come è noto, è confluito il feticcio Scarantino, costruito ad arte, con il suo seguito (Andriotta, Candura eccetera).
Tale feticcio è stato servito costantemente come un monolito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta dell’epoca alle Corti di Assise di primo e secondo grado che hanno trattato i processi relativi alla strage, indicandolo come fattore probatorio imprescindibile per la ricostruzione dei fatti e la individuazione dei colpevoli.
Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni.
Diventa allora inevitabile, oltre che doveroso, chiedersi e cercare di approfondire come sia stato possibile che il giudizio di secondo grado del Borsellino bis si sia concluso con la sentenza del 18 marzo 2002 che, in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, condannava Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano per il delitto di strage sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, di Andriotta e degli altri, confermando per il resto la condanna nei confronti di Scotto Gaetano.
Sentenza che a sua volta, circostanza questa difficilmente spiegabile e si vedrà il perché, veniva confermata dalla Cassazione con decisione del 3 luglio 2003 e, pertanto, passava in giudicato, sancendo la condanna definitiva degli imputati, chiamati in correità da Scarantino, dichiarati colpevoli di strage.
Sentenze, quella di merito e quella di legittimità, entrambe travolte dal giudizio di revisione conclusosi come si è anticipato con sentenza del 13 luglio 2017 che proscioglieva definitivamente dal reato di strage gli stessi imputati chiamati in correità da Scarantino.
In tutti i processi celebrati anteriormente alla richiamata decisione del 2002 effettivamente, allora, non erano mai emersi circostanze o elementi idonei a sconfessare e smascherare i falsi collaboratori?
La risposta, drammatica, deve essere di segno negativo. Si vuol dire, cioè, che in verità fin dalla sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), se non addirittura dal dibattimento di primo grado (’95-’96), furono acquisiti tutta una serie di dati inconfutabili, adeguatamente valorizzati, i quali molto tempo prima della citata pronuncia del 2002 avevano messo in seria discussione le propalazioni di Scarantino, arditamente versate nei processi.
Segnatamente, in tale stesso arco temporale, e cioè antecedentemente al 3 luglio del 2003, data della decisione della Cassazione che segna il passaggio in giudicato della più volte richiamata sentenza di secondo grado del Borsellino bis del 18 marzo 2002, confermativa della ricostruzione della strage come escogitata attraverso l’irruzione nel processo del falso pentito Scarantino, erano intervenute ben due sentenze della stessa Cassazione e quattro di merito di segno decisamente opposto.
Decisioni tutte che, appunto, avevano espressamente e radicalmente stigmatizzato le dichiarazioni del picciotto della Guadagna come inattendibili.
Così la sentenza di secondo grado del Borsellino1 (23 gennaio 1999), confermata pienamente dalla Cassazione con sentenza del 19 gennaio 2001, stabilisce che le propalazioni di Scarantino, tranne il residuo segmento relativo al furto, sono inattendibili. Tant’è che viene confermata l’assoluzione degli imputati Giuseppe Orofino e Pietro Scotto dal delitto di strage.
Parimenti, con sentenza del 13 febbraio 1999, la Corte di Assise di Caltanissetta, nel processo c.d. “Borsellino bis” assolve gli imputati chiamati in correità da Scarantino (Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo e Murana Gaetano) dal delitto di strage asseverando la inattendibilità delle dichiarazioni rese dallo stesso e degli altri collaboratori sul loro conto perché prive di riscontri.
Ma non basta. Nel processo Borsellino cosiddetto ter primo grado, benché tra gli imputati non figurassero quelli chiamati in correità da Scarantino, venivano comunque analizzate e valutate le dichiarazioni accusatorie dello stesso e in ordine ad esse la Corte di Assise, con sentenza del 9 dicembre 1999, depositata il 9 marzo 2000, le riteneva espressamente “inutilizzabili” per la ricostruzione dei fatti e la individuazione delle responsabilità in ordine alla strage, in quanto “inattendibili intrinsecamente ed estrinsecamente”. L’impianto di detta sentenza, ivi compreso, quindi, il giudizio distruttivo sulle dichiarazioni di Scarantino veniva definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2003, dunque anteriore rispetto alla sentenza della stessa Cassazione del 3 luglio 2003 che, al contrario, come si è visto, aveva valutato totalmente attendibili le propalazioni di Scarantino e degli altri collaboratori a lui legati.
In realtà, e in disparte, altri due fattori, il primo addirittura del 1994 (giugno-settembre), il secondo di poco successivo del gennaio 1995, avevano proiettato consistenti ombre sulla credibilità di Scarantino, sia quanto al profilo criminale, sia con riferimento al contenuto delle sue dichiarazioni.
MANNOIA AVEVA GIÀ CAPITO CHI FOSSE SCARANTINO Per l’appunto, l’avvocato Luigi Ligotti, uno dei primi difensori di Scarantino, sentito il 6 marzo 2019 dalla Procura della Repubblica di Messina nell’ambito del procedimento nei confronti del dottor Petralia e della dottoressa Palma, ha dichiarato di aver manifestato nel ’94 – ossia dopo l’avvio della collaborazione di Scarantino – i suoi forti dubbi circa la credibilità del suo assistito ai pubblici ministeri che avevano partecipato ai primi interrogatori (Tinebra, Boccassini, Palma e Petralia e forse anche il questore La Barbera).
Ligotti soprattutto ha raccontato un evento verificatosi in sua presenza presso gli uffici romani della DIA nell’ambito di uno degli interrogatori dello Scarantino. L’avvocato, più precisamente, ha riferito che in tale occasione era presente anche il collaboratore Marino Mannoia e i pubblici ministeri decisero di effettuare un confronto fra i due. Secondo la narrazione di Ligotti, Mannoia avrebbe immediatamente smascherato Scarantino sostenendo che quest’ultimo non fosse un uomo d’onore:
- LIGOTTI. Mannoia ci mise trenta secondi, gli bastò un minuto di colloquio appartato con Scarantino e disse che non era uomo d’onore… Mannoia mise subito a fuoco Scarantino.
Assumeva ancora l’avvocato Ligotti che Marino Mannoia aveva comunicato l’esito del suo giudizio sia ai magistrati presenti, sia a lui stesso.
- LIGOTTI. Marino Mannoia disse ai magistrati quello che aveva appurato, c’ero anch’io presente.
Sennonché, va subito detto, per correttezza, che le dichiarazioni dell’avvocato Ligotti non sono state confermate dal Mannoia, così come emerge dalle motivazioni dell’ordinanza di archiviazione del gip di Messina relativo al procedimento sopra richiamato.
Assai meno discutibile, è il secondo fattore. Il 13 gennaio 1995 i pubblici ministeri di Caltanissetta decisero di effettuare un confronto – peraltro irrituale, essendo in corso il dibattimento del Borsellino1 primo grado – tenutosi a Roma tra Scarantino ed i collaboratori Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Il confronto si rivelò devastante per il primo, giacché i tre collaboratori ne smentirono le propalazioni e, in particolare, esclusero di aver partecipato alla fantomatica riunione operativa tenutasi nella villa di Giuseppe Calascibetta, qualche giorno prima della strage, come sostenuto da Scarantino. L’esito di tale confronto avrebbe probabilmente potuto incidere sulla definizione in primo grado del Borsellino1.
In conclusione, dunque, va intanto fermamente smentita e rimossa la vulgata secondo la quale, le Corti di Assise di Caltanissetta, primo e secondo grado, che fino al 2002 si sono succedute nella trattazione dei processi Borsellino1, Borsellino-bis e Borsellino-ter, abbiano costantemente ritenuto affidabili Scarantino, Andriotta e gli altri falsi collaboratori.
Resta, inoltre, drammaticamente senza risposta l’interrogativo circa la tenace determinazione della Procura della Repubblica di Caltanissetta dell’epoca di insistere irriducibilmente, in tutti i dibattimenti celebrati sulla strage fino al 2002, sulla piena affidabilità di Scarantino, di Andriotta e degli altri falsi collaboratori, ancorché diversi dati e svariati elementi estraibili soprattutto dalle molteplici sentenze pronunciate fino ad allora deponessero decisamente per il contrario, anche al netto dei citati confronti.
In definitiva, per rispondere all’interrogativo iniziale, certamente era possibile svelare e disinnescare, quantomeno sul piano strettamente processuale, il depistaggio consistente nell’irruzione di Vincenzo Scarantino sullo scenario, ben prima e indipendentemente dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza avvenuta nel 2008. Se ciò non è accaduto è per il combinato disposto tra la conduzione supponente e superficiale delle indagini da parte dei pm di Caltanissetta e la scelta di assecondare acriticamente in alcune sentenze quella ricostruzione fallace e sommaria. DOMANI 19.11.2021