Ho preso parte anch’io alla trasmissione di Costanzo e Santoro in memoria di Libero Grassi. Ho discusso (e sono stato al centro di discussioni) per cinque ore. Confesso che non mi aspettavo tanta attenzione, un ascolto così elevato, la forte partecipazione della gente, testimoniata dalle luci accese nelle case. Ne è uscita un’interessante mappa italiana in cui la mafia sembra essere un problema più avvertito al Nord che al Sud. Ed è venuto fuori il primo timido tentativo di superare, sia pure dialetticamente, le lacerazioni del fronte antimafia. Sì, nonostante i contrasti fra il pubblico del teatro Biondo, nonostante taluni accenni ripetuti a episodi ormai obsoleti e di scarso significato, mi pare che s’è cercato di ragionare partendo da fatti e non da tesi precostituite. Eppure, a mio parere, la lezione che si ricava da questa esperienza invita a un uso molto accorto, per il futuro, del potente mezzo televisivo. Non bisogna lasciar prevalere la tentazione di fare spettacolo: perché dietro l’angolo c’è sempre il pericolo che accada ciò che è già accaduto per la guerra del Golfo: quando tutti stavamo attaccati al video perdendo la percezione della realtà e della morte che ogni guerra porta con sé. Se la confusione prevale sulla discussione, c’è il rischio che si faccia un polverone in cui ciascuno possa trasformarsi da accusatore a imputato, da condannato a perseguitato, da sospettato a colpevole e così via. Un gran pasticcio in cui tutto, appunto, diventa mafia. Certo, era molto diverso fino a qualche tempo fa. Quando ero alla mia prima indagine antimafia, ricordo ancora che un collega più anziano mi avvicinò con tono scettico chiedendomi: credi davvero che esista la mafia? Ma oggi prevale il rischio opposto: se tutto assume i colori della mafia, non si capisce da dove cominciare per fare una seria antimafia. Rosario Spatola, un condannato per associazione mafiosa che col pentito intervistato mercoledì sera in tv ha in comune solo un’omonimia, nella sua cella alcuni anni fa custodiva un biglietto con su scritto: la vera mafia non è in Sicilia. È a Roma, è una forma di potere che i governi usano contro i più deboli. Ecco l’esempio di un ragionamento squisitamente mafioso che può essere usato indistintamente in chiave antimafia. Lo dico non per polemica, ma per sottolineare che la mafia è un fatto troppo serio per essere trattata in modo poco serio. E un’esortazione del genere, credo debba valere per le istituzioni, i politici e la società. Perché sensibilizzare bene l’opinione pubblica e la società civile sul problema mafia è un fatto essenziale ed è il presupposto per mettere in mora le istituzioni e costringerle a intervenire seriamente. Per farlo, però, occorre non lasciarsi abbindolare o fuorviare; al contrario, è necessario distinguere e analizzare. Non è possibile, né utile, fare di tutta l’erba un fascio e appioppare l’etichetta mafia a tutto ciò che non va in questo Paese. Le generalizzazioni creano facili alibi: per anni s’è detto che la mafia era difficile da combattere perché connaturata al tessuto economico-sociale sottosviluppato del Sud; salvo ad accorgersi poi sul campo che la mafia si annida in tutti gli ingranaggi e le storture dello sviluppo. Allora, mi domando: che senso ha identificare la mafia con le malversazioni di pubbliche amministrazioni o lo scarso funzionamento della burocrazia? E la mafia con le clientele? E per quale ragione indagini giudiziarie debbono essere utilizzate strumentalmente per fini di parte? Qualche anno fa un famoso regista mi chiese collaborazione per preparare un film sulla mafia. Parlammo a lungo, ma alla fine mi comunicò che rinunciava perché temeva di fare un’opera agiografica. Una riserva del genere dovrebbe valere anche per la televisione. Certe trasmissioni possono diventare importanti per indurre la pubblica opinione alla coscienza critica di un problema del quale, fino a non molti anni fa, si preferiva perfino negare l’esistenza. Ma appunto, occorre distinguere la cultura del diritto da quella del sospetto, la criminalità comune o la cattiva amministrazione dalla mafia vera e propria. Della quale, in tv, con tutto il rispetto, non si dovrà mai discutere come se fosse il Processo del lunedì. La Stampa 28.9.1991