Pignatone: “Sciascia spietato con i magistrati traditori della giustizia”

 
di Giuseppe Pignatone
L’ex procuratore di Roma, attualmente presidente del Tribunale Vaticano, analizza la posizione di Leonardo Sciascia sul maxiprocesso di Palermo
“Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo.” Sono parole di Leonardo Sciascia che riflettono una concezione pressoché sacrale della giustizia e del compito di chi l’amministra. Penso al “piccolo giudice” che in ‘Porte aperte’, un romanzo tratto da una storia vera, si gioca con piena consapevolezza la carriera rifiutando di condannare alla pena di morte l’autore di tre efferati omicidi, nonostante le pressioni del regime fascista e anche dei suoi superiori.
Dall’altro lato, proprio per questa concezione quasi sacrale Sciascia è spietato verso quanti – magistrati in primo luogo – tradiscono quell’ideale o, peggio ancora, fanno della giustizia uno strumento del Potere, magari ammantando questo tradimento con il richiamo ad alti ideali o a ciò che sembra politicamente o socialmente utile.
La necessità di andare oltre le apparenze, anche le più convincenti, è ricorrente in Sciascia ed è un tema cruciale ancora oggi per ogni intellettuale e – forse a maggior ragione – per il magistrato che si deve sforzare di accertare prima, e valutare poi, ogni elemento e ogni circostanza legati a un fatto reato, rinunciando ai propri pre-giudizi e alle proprie convinzioni personali e ideologiche e resistendo altresì alle pressioni esterne.
Sciascia rimane ancora oggi colui che prima e meglio di ogni altro ha fatto conoscere con i suoi scritti (a cominciare da “II giorno della civetta”, del 1961), che cosa era la mafia, quale era la sua incidenza nella vita concreta e quotidiana della Sicilia, quali erano i suoi rapporti con le altre componenti della società isolana. Però non dobbiamo commettere, io credo, l’errore che per primo Sciascia condannerebbe: quello di considerare ogni singolo articolo, ogni singola frase da lui scritta come verità immutabili.
In queste settimane, nella ricorrenza del centenario della nascita (8 gennaio 1921), sono stati pubblicati alcuni suoi scritti che contengono severe critiche ai primi maxiprocessi celebrati contro le cosche e all’uso processuale dei cosiddetti “pentiti”, certamente ispirate dalla vicenda di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983, nonché dall’esito del maxi-processo alla camorra. Ugualmente critica era stata, almeno inizialmente, la sua posizione sul maxiprocesso di Palermo. Lo stesso Sciascia, però, in un articolo pubblicato il 27 dicembre 1987, subito dopo la sentenza di primo grado, aveva commentato positivamente la decisione in cui, scriveva, “si intravede anzi quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”. Un cambiamento di posizione notevole, su cui pesava non poco, come egli spiegava, l’assoluzione di Luciano Liggio, “decisione rassicurante per chi è ancora affezionato al diritto e (che) quasi assurge a segno del tabula rasa che i giudici hanno saputo fare dei pregiudizi esterni, piuttosto clamorosi e pressanti”.
Lo scrittore, tuttavia, aggiungeva di non recedere “dall’opinione che i maxiprocessi mettono in pericolo l’amministrare giustizia”, ribadendo poi di non aver mai creduto e di non credere “che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale”. Posizioni tutte ribadite da Sciascia nei due anni successivi, fino alla morte avvenuta il 20 novembre 1989, ma che meritano di essere rimeditate alla luce dell’esperienza maturata nell’arco di questi tre decenni. E alla luce, altresì, delle modifiche normative, anche molto significative ma sempre nel rispetto dei principi costituzionali, imposte dalle manifestazioni di eccezionale pericolosità della mafia e dalla accresciuta consapevolezza di tale pericolosità da parte della società civile.
Dopo quello di Palermo, che allora fu una soluzione obbligata per riuscire a dimostrare l’esistenza stessa, la struttura e le regole di Cosa nostra, ci sono stati altri maxiprocessi in varie parti d’Italia, certo non paragonabili per numero di imputati e complessità delle questioni da decidere e sempre meno frequenti anche per l’impostazione del nuovo codice di procedura. Anche in questi casi, evidentemente ritenuti inevitabili in relazione alla situazione concreta, l’esperienza ha dimostrato che, con le necessarie risorse organizzative e con un adeguato impegno dei giudici e delle parti, è possibile rendere sentenze che tengano conto di tutte le risultanze processuali e, in primo luogo, della diversità delle posizioni degli imputati.
Anche riguardo al ruolo processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, la situazione è ben diversa da quella degli anni ‘80. Non solo per le modifiche normative che sono intervenute, ma soprattutto perché ormai le conoscenze sulle mafie sono cresciute talmente che le dichiarazioni dei collaboratori, pur sempre utilissime, possono essere vagliate molto meglio nella loro attendibilità anche alla luce di altre fonti di prova completamente autonome, a cominciare dalle intercettazioni. Anzi, oggi molti processi di mafia prescindono completamente dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Infine, oggi nessuno, neanche coloro che trent’anni fa condividevano la posizione di Sciascia, pone più in dubbio, dopo centinaia di processi, il carattere unitario – quanto meno in questo periodo storico – della mafia siciliana.
Rimane invece sempre valido, al di là dell’evoluzione del fenomeno criminale e dei progressi delle tecniche investigative, il nucleo essenziale del pensiero di Sciascia sulla mafia e sui temi della giustizia: “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e camorra”. E ancora: “La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”.
Non credo che si possa dire altro, e meglio.
La Stampa 15.2.2021