21 Luglio 2022
Dopo trent’anni il Csm ha reso pubbliche le audizioni dei magistrati applicati, nel 1992, alla Procura di Palermo. Non si tratta, come molti hanno erroneamente scritto, di una desecretazione, poiché le audizioni non furono mai secretate. Lo dimostra il fatto che, nel tempo, tali audizioni furono acquisite in un procedimento della fine degli anni ‘90 che culminò con una ordinanza di archiviazione nel marzo 2000, il 5 ottobre 2020 tutti i verbali che vanno dal 28 al 31 luglio 1992 furono acquisiti anche nel processo di appello “Bagarella e altri” e ancora furono acquisiti ad Avezzano nel corso del procedimento contro Sansonetti e Aliprandi. Di fatto, e questa è una responsabilità del Csm, non furono mai, come ha ricordato l’avvocato Fabio Trizzino lo scorso 18 luglio nel chiostro della biblioteca di Casa Professa a Palermo, consegnati alla famiglia.
Cosa nascondevano, quindi queste audizioni? In realtà nulla che non fosse noto, almeno agli addetti ai lavori, ma erano lo specchio fedele di quello che lo stesso Paolo Borsellino definì “nido di vipere”, la Procura di Palermo con i suoi asti, le sue invidie, le sue menzogne, i suoi segreti, le sue scelte scellerate e soprattutto la loro non pubblicazione ha permesso ai soliti noti e famosi di manipolare la realtà, di costruire attraverso menzogne credibilità, opportunismi e carriere arrivando, spesso, a mentire sapendo di mentire.
In questi giorni, ad esempio, sui social è apparso il post di un noto magistrato che ha parlato della oramai famosa lettera che otto magistrati indirizzarono al Csm in opposizione al Procuratore Pietro Giammanco. Anche in questo travisandone il contenuto perché, nonostante la pilotata vulgata abbia fatto intendere che si trattò di un J’accuse nei confronti di Giammanco, in realtà conteneva ed esprimeva innanzitutto il timore per le scarse misure di sicurezza riservate ai magistrati e, marginalmente, una critica organizzativa nei confronti del Procuratore. Nessun atto di accusa e, sempre in riferimento al post sopra citato, non è vero che gli otto firmatari hanno incontrato difficoltà di carriera perché, proprio tra questi otto ne compaiono almeno tre che, di carriera, consenso e pubblicità personale, ne hanno ottenuta molta.
Ma, tornando alle audizioni del luglio 1992, oltre al Procuratore Giammanco, il Csm sentì il procuratore generale Bruno Siclari, gli aggiunti Vittorio Aliquò e Elio Spallitta, i sostituti procuratori Alfredo Morvillo, Ambrogio Cartosio, Claudio Corselli, Maurizio Conte, Lorenzo Matassa, Francesco Lo Voi, Ignazio De Francisci, RobertoScarpinato, Egidio La Neve, Giovanni Ilarda, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Giuseppe Pignatone, Teresa Principato, Gioacchino Natoli, Guido Lo Forte, Antonella Consiglio, Annamaria Palma, Antonio Napoli, Vincenza Sabatino, Salvatore Pilato, Maria Vittoria Randazzo, Agata Consoli, Luigi Patronaggio, Maurizio De Lucia, Salvatore De Luca e Vittorio Teresi. I magistrati risposero alle domande dei consiglieri del Csm presentando un quadro di scontri e di contrapposizioni, come già emerso nei processi relativi alle due stragi.
Dalla lettura delle oltre 1000 pagine, appare evidente di come quel Palazzo non fosse semplicemente “il Palazzo dei veleni”, di come la famosa “circolarità d’informazioni” fosse una menzogna e, soprattutto, che l’interesse investigativo di Paolo Borsellino era focalizzato, più che mai in quei maledetti giorni che separano la morte di Falcone dalla sua, sullo scarsamente considerato, proprio dai suoi colleghi, dossier “mafia-appalti”.
A tal proposito è sufficiente leggere l’audizione del dottor Patronaggio che racconta quanto accadde nella riunione del 14 luglio e della rabbia di Paolo Borsellino che chiedeva notizie del dossier “mafia-appalti”: «Borsellino ha detto che i Carabinieri si aspettavano molto di più da questo rapporto. In assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati giudiziari di maggiore respiro (…) non solo nei confronti dei politici, anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell’imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date, ecco» e ancora, sempre Patronaggio nella sua audizione «Borsellino chiese spiegazioni su un procedimento riguardante Angelo Siino e altri (…) capisco che qualcosa non va evidentemente perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente con dei colleghi assegnatari dei processi». E ancora «Paolo Borsellino chiese spiegazioni su questo processo contro Siino perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o meno una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento. Chi c’era o chi non c’era, perché poi, in buona sostanza, la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente che comunque, insomma, ecco, allora la spiegazione di Borsellino fu che chiese spiegazione, fu di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché. Insomma, cose di questo genere, non erano singoli fatti, atti istruttori».
Sempre a proposito del dossier “mafia-appalti” e della riunione del 14 luglio, dall’audizione del dottor Gozzo emerge che «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perchè proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata, perché al momento aveva dei problemi, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate».
Per dover di cronaca è necessario ricordare che il giorno prima della sopra citata riunione, il dottor Scarpinato e il dottor Lo Forte firmarono la richiesta di archiviazione del dossier “mafia-appalti”, fatto del quale, proprio durante la riunione del 14 luglio, come ha ricordato l’avvocato Trizzino nella arringa al processo “Mario Bo e altri” sul depistaggio, Borsellino non fu informato.
L’impegno di Borsellino, in quei 57 giorni, fu altissimo. Cercava i motivi della morte del collega e amico Falcone ma, soprattutto, cercava i perché della minimizzazione delle indagini relative al dossier “mafia-appalti” e del forte contrasto che esisteva tra la Procura e il ROS, che quel dossier “mafia-appalti”, su input di Giovanni Falcone aveva realizzato.
Rivelatrice l’audizione della dottoressa Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone che, in ebbe a dichiarare: «Il giudice Borsellino, come tutti i magistrati e come mio fratello quando parlava con una non addetta ai lavori, non si fermava, penso, a dare parecchi particolari, ecco, per cui noi non abbiamo mai, io con Borsellino avevo parlato che volevo fare giustizia, ecco, questo è meglio precisare, della situazione di Giovanni, perché non volevo che restasse nel curriculum di Giovanni la macchia di avere abbandonato la trincea, ecco, volevo fare sa pere a tutti che Giovanni non era un traditore che era sempre stato coerente alla sua linea di vita e che quindi si doveva sapere, il mondo doveva sapere che se Giovanni se ne era andato da Palermo era per Giammanco, e quindi, queste erano state le mie parole al dott. Paolo Borsellino e lui quindi penso che facesse riferimento alla scoperta di qualche cosa che riguardava questo problema» e ancora «Borsellino sapeva che doveva competere con un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili, verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende».
Riecheggiano nella mia mente le parole di Agnese Borsellino quando disse: “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi COLLEGHI e altri a permettere che ciò potesse accadere”. Parlava di quei colleghi che vivevano e si alimentavano nel “nido di vipere”, quei colleghi che in questi trent’anni hanno, forse proprio per il loro comportamento, hanno percorso brillanti carriere, hanno scritto libri e sono stati suggeritori della falsa e faziosa narrazione relativa sia ai quei 57 giorni sia alla morte di Paolo Borsellino.
Sono passati trent’anni da quel 19 luglio 1992. Trent’anni di menzogne, omissioni e uso improprio delle parole. Trent’anni di apparizioni pubbliche, interviste, convegni, passerelle continuando a omettere e mentire per ottenere prestigio personale, tanto i morti non possono contraddire. Mai, ripeto mai, è stato reso onore all’insegnamento che Falcone e Borsellino ci lasciarono in eredità. Mai.
GLI STATI GENERALI – Roberto Greco