Continua a far discutere il tema giustizia, o per meglio dire quello della magistratura che pare poco abbia a che fare con la parola “giustizia”.
Dopo il caso Palamara, la scandalosa vicenda della nomina del procuratore di Roma che ha visto silurato – inspiegabilmente e immotivatamente l’allora procuratore generale di Firenze Marcello Viola – tutti avevamo creduto, e sperato, in un cambio di rotta che portasse il cittadino a poter nuovamente avere fiducia nella giustizia.
:Nulla di fatto!
Le nomine di magistrati – anche quelle che per ragioni di opportunità sarebbe stato meglio evitare – continuano ad avvenire secondo il collaudato Sistema descritto da Palamara.
A tornare sull’argomento, il quotidiano La Verità che ieri ha pubblicato un articolo a firma di Giacomo Amadori dal titolo “Riscontri e nuove accuse sul patto tra le toghe e il Nazareno”.
Un’inchiesta giornalistica che ripercorre “i risvolti politici-giudiziari dell’inchiesta sulla presunta talpa della Procura di Perugia, che fa seguito all’articolo pubblicato dal quotidiano a Ferragosto, nel quale venivano narrate le relazioni tra la magistratura e i vertici del Pd ai tempi della segreteria di Nicola Zingaretti, il quale avrebbe ottenuto informazioni su inchieste in corso e, dopo quelle soffiate, sarebbe corso ai ripari spingendo alle dimissioni esponenti del partito a rischio arresto”.
Ma non solo di questo si tratta, poiché il giornale riporta anche una vicenda accaduta il 9 maggio 2019, quando “il procuratore di Messina Maurizio De Lucia, ex pm della Direzione nazionale antimafia, era indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento personale. Ai tempi in cui si trovava in via Giulia aveva incontrato un emissario di Antonello Montante, l’ex paladino dell’Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere”.
Il caso Montante, ex presidente della Confindustria siciliana condannato per associazione mafiosa e per aver organizzato un’attività di dossieraggio, ha finito con il coinvolgere diversi magistrati, tra i quali anche Roberto Scarpinato, fino a poco tempo fa capo della procura generale di Palermo, oggi candidato alle prossime elezioni nazionali nel listino bloccato di Conte.
Una vicenda riportata nel libro intervista “Lobby e Logge”, nel quale Palamara rivela il perché scattò l’operazione “salviamo il soldato Scarpinato”, del quale dagli appunti sarebbe emerso che Montante ebbe rapporti molto intensi con Scarpinato, a tal punto che compaiono diverse richieste di raccomandazione da parte di quest’ultimo.
In particolare, dall’appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna».
Una richiesta che sa di raccomandazione, rivolta ad un soggetto esterno alla magistratura senza che si possa comprendere in che maniera e perché Montante avrebbe avuto il potere di interferire nelle nomine che il Csm si apprestava ad effettuare.
Nulla di illecito, per carità, ma appare quantomeno discutibile che qualche decina di magistrati si rivolgesse a quello che poi si scoprirà essere il capo di una potente lobby, inquinata anche dall’ingombrante vicinanza di soggetti mafiosi, per chiedere favori a fini carrieristici o per la sistemazione lavorativa di amici e parenti.
Secondo quanto pubblicato da La Verità, “le intercettazioni dell’«ambasciatore» (un ex poliziotto della Squadra mobile di Palermo) con Montante rivelavano come De Lucia fosse stato compulsato per ottenere notizie sul procedimento, ma rivelavano anche che il futuro procuratore di Palermo aveva offerto informazioni del tutto generiche su un fascicolo a cui non era applicato.
Il fascicolo era stato iscritto sul registro nel luglio 2018 dopo che la Procura di Caltanissetta aveva trasmesso gli atti in Umbria. Certo per un pm stimato come De Lucia rimanere appeso a una simile accusa poteva essere motivo di imbarazzo. Ma ecco il cortocircuito.
Tra fine aprile e inizio maggio 2019 la Procura di Perugia ha necessità di interpellare De Lucia non tanto come indagato, ma nella sua veste di prezioso collaboratore nelle indagini sul giro di presunte mazzette versate dai faccendieri Piero Amara, Giuseppe Calafiore e dal già citato Centofanti per corrompere toghe come Luca Palamara e Giancarlo Longo.
Quest’ultimo il 26 aprile 2019 aveva raccontato alla Miliani di essere stato informato della richiesta cautelare a suo carico da Calafiore. Il quale, a dire di Longo, avrebbe avuto come fonte niente meno che Roberto Pignatone, fratello dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe.
Per questo la Miliani aveva chiesto a De Lucia se davvero avesse trasmesso via mail una bozza della misura proposta nei confronti di Longo alla Procura di Roma. In una risposta «riservata» del 9 maggio De Lucia aveva smentito l’invio a Pignatone «da parte dello scrivente» di «alcuna bozza della richiesta cautelare in argomento» e, contemporaneamente, aveva spiegato ai colleghi che i sostituti del suo ufficio avevano, però, consegnato brevi manu, durante una riunione di coordinamento avvenuta a Roma, un cd con la bozza al procuratore aggiunto capitolino Paolo Ielo.
Questa smentita-non smentita deve aver tranquillizzato i pm di Perugia che non ci risulta abbiano compiuto altri approfondimenti investigativi.
Al contrario la Procura di Messina, dopo aver interrogato Calaiore che aveva smentito la ricostruzione di Longo, ha iscritto quest’ultimo, sino a quel momento ritenuto credibile, per calunnia. Salvo poi archiviarlo.
Dunque il 9 maggio, il giorno successivo al summit dello Champagne, partiva da Messina una comunicazione che, a giudizio degli inquirenti perugini, restituiva l’onore ai fratelli Pignatone e metteva in sicurezza tutta l’inchiesta Palamara (che paradossalmente scaturiva proprio dalle dichiarazioni di Longo, sospettato di calunnia da Messina).E che cosa succedeva lo stesso giorno? Il procuratore di Perugia De Ficchy (ritornato, grazie all’intermediazione di Palamara, in ottimi rapporti con Pignatone, dopo un po’ di maretta) chiedeva l’archiviazione per De Lucia, il quale, nel frattempo, aveva inviato a Perugia le dichiarazioni contro Palamara, Ferri e il pm romano Stefano Musolino, ma non quelle riguardanti Roberto Pignatone.
Si tratterà certamente solo di coincidenze cronologiche – riporta l’articolo -, ma certamente tra l’8 e il 10 maggio 2019 si sono incastrate una serie di situazioni che hanno indirizzato l’inchiesta contro Palamara nel senso a tutti noto, ma, in questa sorta di sliding door giudiziaria, in quelle stesse ore il fascicolo avrebbe potuto prendere tutt’altra strada.
Infatti se le Procure di Perugia, Roma e Messina, impegnate in procedimenti collegati, fossero entrate in conflitto la tanta auspicata pulizia a senso unico dentro alla magistratura non sarebbe potuta avvenire e probabilmente l’inchiesta Palamara non avrebbe affondato solo l’ex presidente dell’Anm e le toghe di opposizione che stavano cercando di entrare per la prima volta nella stanza dei bottoni del Sistema.
In sintesi, emerge chiaramente che solo se ci sono di mezzo alcuni magistrati, i fatti sono difficili da accertare. «E nessuno fiata», aggiunge Palamara”.
Nessuno fiata? Non proprio. Qualcuno torna a far prendere aria alla bocca o inchiostro alla penna.
Dopo la sentenza sulla cd Trattativa Stato-mafia, in merito alla quale ha scritto il giornalista Roberto Greco in un articolo pubblicato da “Il Riformista”, dal titolo “Il giudice chiude un occhio sul suo avvocato?”, ecco tornare a farsi avanti i giornalisti che per decenni ci hanno propinato le verità delle punte di diamante antimafia della Procura di Palermo.
Lo fa oggi Attilio Bolzoni sul giornale “Domani” con un articolo dal titolo “Quel dossier su mafia e appalti che non dà risposte sulle stragi”.
“Si fa un gran parlare – scrive Bolzoni – del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda. Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato”.
È una fortuna che in Italia i grandi giornalisti come Bolzoni non abbiano abboccato all’amo dei vari Massimo Ciancimino e Vincenzo Scarantino, oltre che alle onnipresenti veline di magistrati in passarella.
A Bolzoni ha risposto l’avvocato Fabio Trizzino, difensore legale dei figli di Paolo Borsellino, con un post pubblicato sul suo profilo Facebook:
“Attilio Bolzoni anziché scrivere le solite corbellerie e citarmi, se vuole può anche consultarmi così da smontare molte delle sue tesi minimaliste su mafia appalti.
Ma del resto da uno che difese, giornalisticamente parlando, Scarantino non può pretendersi altro che il perseverare nelle proprie tesi di difensore ad oltranza del teoria della Minaccia a corpo politico et cetera.
Nessun mea culpa ho sentito da lui in questi anni. Così come NON L’HO MAI VISTO A CALTANISSETTA NEL AL QUATER NE’ TANTOMENO AL PROCESSO DEPISTAGGIO.
Le vere trattative le fanno loro con certi pm per pubblicare cose a questi ultimi gradite!!!
Anche lui, come tanti ben pensanti, sarà condannato dalla Storia, il cui giudizio implacabilmente cadrà sul suo sterile pensiero da sedicente intellettuale delle cose di mafia!”
E se tanto non dovesse bastare, una risposta arriva anche da Roberto Greco, uno dei pochi “giornalisti non velinari”, che sul sito “Gli Stati Generali” ha pubblicato oggi l’articolo dal titolo “NO BOLZONI, SUL DOSSIER “MAFIA-APPALTI” NON HAI RAGIONE”.
“Oggi 18 agosto – scrive Roberto Greco – è uscito sul quotidiano “Il Domani” a firma di Attilio Bolzoni, un articolo dal titolo “Quel dossier su mafia appalti che non dà risposte sulle stragi”. Stupisce, ma fino a un certo punto, la presa di posizione del giornalista relativamente a questa tematica. Si tratta di un giornalista che, nel 2009, ha ricevuto il premio “È giornalismo” perché, dicono le motivazioni, “da più di trent’anni racconta la Sicilia e la mafia” e che, dal 1979 al 2004, ha vissuto a Palermo, scrivendo per “L’ORA” prima e per “la Repubblica” poi.
«Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti” – scrive Bolzoni – un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda». In realtà parlare del dossier “mafia-appalti” non è mai stato di moda e lo dimostra il fatto che i giornalisti che hanno, nel tempo, continuato a parlarne si contano nelle dita di una mano e, forse, quel “di moda” andrebbe sostituito con “fastidioso”.
«Ma ormai sulle stragi – continua Bolzoni – si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. “Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare”, confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava “un buon punto di partenza”. Di partenza, non di arrivo». E sulla citazione delle parole di Giovanni Falcone dobbiamo convenire ricordando però che il «punto di partenza» fu invalidato e che, cosa che Bolzoni omette, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, nonostante il forte e acclarato interesse di Paolo Borsellino per lo sviluppo delle indagini, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, titolari del fascicolo, con il visto dell’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, richiesta di archiviazione che sarà accolta dal Gip il 14 agosto.
Non possiamo pensare che a un giornalista capace, informato e attento come Bolzoni questo avvenimento sia sfuggito anche perché, ripetiamo, in quegli anni era a Palermo e sicuramente non può dimenticare che la stampa accusò la Procura di voler insabbiare questa indagine ma, forse, lui non era tra i giornalisti che sollevarono il problema e, forse, non era nemmeno tra i giornalisti che ricevettero, sembra dalla Procura stessa, una copia del dossier del quale citarono i c.d. virgolettati nei loro articoli.
E quando Bolzoni scrive che «se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana. Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani» dimentica, forse perché non l’ha letto con attenzione o forse perché così ha deciso, che proprio a pagina 67 del dossier “mafia-appalti” si legge che «Buscemi Antonino, nato a Palermo il 28.07.1946, indiziato “M”, è inoltre inserito a vario titolo nelle seguenti società: LA.SER. s.r.l. (titolare); CALCESTRUZZI PALERMO s.p.a. (amm.unico); FINSAVI s.r.l. (socio fondatore e azionista).
Particolarmente interessante risultava il fatto che metà del capitale sociale della FINSAVI s.r.l. era sottoscritto dal colosso imprenditoriale rappresentato dalla CALCESTRUZZI s.p.a. di Ravenna, la presidenza della quale e` ricoperta da un personaggio di portata nazionale quale Raoul Gardini. Il rappresentante in Sicilia di quest’ultima società edilizia risulta essere tale ing. BINI Giovanni, lo stesso che piuttosto frequentemente intrattiene con il Siino rapporti telefonici. E` importante sottolineare che, alla data del 20.12.1982, la Calcestruzzi s.p.a. controllava 36.380 azioni della C.I.S.A. di Udine. Con verbale di assemblea del 26 gennaio 1987, veniva deliberato di fondere la società nella C.I.S.A. Internazionale s.p.a. con sede in Udine, capitale sociale di lire 2.580.000.000 interamente versato. La fusione si effettuava con il concambio di 264.600 azioni della socia “Calcestruzzi s.p.a.” da nominali L.10.000 della CISA Internazionale s.p.a., che ha aveva già adottato la relativa delibera per il conseguente aumento del capitale sociale per L.813.590.000. Il coefficiente di concambio veniva determinato in riferimento alle azioni della socia “Calcestruzzi s.p.a.”, pari al 44,10% del capitale sociale in quanto le restanti erano già possedute dalla incorporante, e calcolato sulla base dei patrimoni netti contabili delle due società. In relazione all’avvenuta fusione le azioni della società incorporata si intendevano annullate ed alla “Calcestruzzi s.p.a.” con sede in Ravenna, veniva attribuito l’intero aumento del capitale sociale di L.813.590.000, oltre le 264.600 azioni da lire L.5000 cadauna pari a L.l.323.000.000 del capitale sociale complessivo di L.3.393.590.000. Non è un caso che dopo pochi mesi da questi cambiamenti societari, la C.I.S.A.- Udine si associ con la Farinella Cataldo per la realizzazione di alcuni appalti in Sicilia. Farinella Cataldo è parte della stessa organizzazione a cui fanno riferimento Siino Angelo e Buscemi Antonino» e che, quindi, proprio il dossier “mafia-appalti” è stato il “la” investigativo per Falcone e Borsellino e che, quando scrive che non furono «gli appalti e i sub appalti delle dighe e delle strade, dei viadotti e delle opere “chiavi in mano” che mafiosi e ditte del nord si dividevano in Sicilia» parte del quadro investigativo di Falcone sembra sposare la tesi di uno dei magistrati che lo archiviarono che ha definito il dossier, anche di recente, “robetta”, “cosa da quattro colletti bianchi siciliani” o ancora una “minestra risciacquata” e dimentica che proprio Falcone lo conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, lanciò un appello esclamando che «la mafia è entrata in Borsa», per dire che società quotate in Borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra” e si riferiva, senza dubbio, alla quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi-Gardini avvenuta da poco tempo. A riprova che Falcone era non solo fortemente interessato al dossier ma che lo stava collegando con le indagini milanesi che sfociarono nella c.d. Tangentopoli. Il riscontro si ha attraverso la testimonianza che Antonio Di Pietro, uno dei pm di “Mani Pulite” rese al processo “Borsellino ter” in cui disse che durante le indagini sulle imprese si rese conto che cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa, ossia quella di Gardini e la Rizzani-De Eccher, tutte imprese del nord indicate nel dossier “mafia-appalti”. Non solo. Di Pietro dichiarò di averne parlato con Giovanni Falcone e disse che «quella era l’essenza della mia inchiesta, cioè la scoperta che le imprese nazionali, dovunque andavano, si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino» e, dato importante, «anche quando Falcone era ancora vivo».
In chiusura Bolzoni scrive che «a Caltanissetta hanno ripescato tutto. I carabinieri del Ros, ormai non più “traditori“ in quanto assolti nel processo d’appello, andranno a riproporre le loro argomentazioni. Sempre le stesse dal 1991. Vedremo cosa faranno i magistrati delle stragi. Quelli che hanno già avuto fra i piedi il falso pentito Vincenzo Scarantino, quelli che sono stati costretti a indagare per mesi e mesi su quel pagliaccio di testimone che era Massimo Ciancimino. Dopo trent’anni, speriamo che non si perda altro tempo» ma dimentica di sottolineare che, per fortuna, i magistrati che all’epoca avvalorarono le parole di Scarantino traformandole in arringa conclusiva, ossia Tinebra, Di Matteo, Palma e Petralia, non sono più applicati alla procura di Caltanissetta e che il vento della verità, iniziato con il dottor Lari e proseguito con la dottoressa Sava pm rispettivamente del “Borsellino ter” e del Borsellino quater”, non ha ancora smesso di soffiare e ci auguriamo, proprio per il raggiungimento della verità, non smetta“.
Beh, pare che il dopo Palamara più che sollevare un vespaio stia mettendo in luce il vespasiano nel quale è annegata la nostra giustizia.
Gian J. Morici
La Valle dei Templi 18.8.2022