Quando Cosa nostra rubò la Natività del Caravaggio

 

 

Un altro episodio che manca, sempre nei verbali, ma per altri motivi, è quello del furto del quadro della Natività del Caravaggio, commesso nel 1969 da un giovanissimo Mannoia, a Palermo, nell’oratorio di San Lorenzo. Il quadro doveva essere rivenduto a un collezionista, forse svizzero, ma dopo essere stato tolto dalla cornice era stato malamente arrotolato e caricato su un camion, e al momento di presentarlo all’acquirente ampie porzioni della pittura si erano irrimediabilmente staccate.
Il collezionista – raccontò Mannoia – non si dava pace e aveva iniziato a piangere e a inveire contro gli sciagurati ladri, tanto che qualcuno degli uomini d’onore presenti era intenzionato a strangolarlo seduta stante. Quel che restava del quadro era stato portato sul fiume Oreto e bruciato.
All’inizio di ogni interrogatorio Falcone stilava una specie di programma degli argomenti che intendeva affrontare, ma naturalmente durante i racconti le digressioni erano frequenti; Falcone, allora, prendeva nota del fatto nuovo che era emerso, ed esaurito il tema principale lo metteva in coda, per riprenderlo a fine verbale, anche solo come accenno, o dopo qualche giorno.
Nel caso specifico del quadro, disse che sarebbe tornato con il collega, il pubblico ministero che aveva in carico il fascicolo del fatto, per un interrogatorio che doveva essere dedicato a quel solo episodio, ma ciò non accadde, ed io non so perché, ma so che diversi anni dopo, quando in occasione di un altro interrogatorio Mannoia, tornato in Italia, raccontò nuovamente di quel fatto, ci fu qualcuno che gli contestò di non averne parlato prima, vista l’importanza. Ma lui ne aveva parlato, eccome! E poiché Falcone ormai era morto, un carabiniere venne a interrogare me, unico testimone diretto del suo primo racconto di quell’episodio.

Le indagini

I Carabinieri hanno un reparto specializzato nella tutela dei beni culturali, e molti di loro, e non solo loro, sono tuttora convinti che Mannoia sia in errore e abbia fatto riferimento, invece, a un altro quadro simile, rubato sempre a Palermo in quegli anni, ma anche l’ultima volta che l’ho incontrato, quando gli ho riferito delle perplessità che ripetutamente riemergono e vengono riportate dai giornali, lui mi ha ribadito, con assoluta certezza, che si trattava proprio della Natività del Caravaggio e che “se qualcuno non ci credeva, se lo poteva continuare a cercare”.
Anche qualche altra cosa non è presente nei verbali, qualcosa volutamente omessa, omessa nel senso di “messa da parte” da Falcone. Recentemente, negli uffici che furono di Falcone, a Palazzo di Giustizia di Palermo, nel riordinare vecchie carte Giovanni Paparcuri ha ritrovato un biglietto manoscritto da Falcone, nel quale c’è anche il nome di Berlusconi.
Durante gli interrogatori ogni tanto il racconto di un fatto ne evocava un altro, a volte analogo, altre volte richiamato alla memoria da qualche associazione di idee, e fu ciò che accadde un giorno, un giorno in cui si parlava di grosse estorsioni di Cosa nostra e di pagamenti sistematici e ricorrenti.
Fu così che si arrivò a parlare anche dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che versava quote regolarmente alla famiglia di Santa Maria di Gesù, e Falcone, mentre ascoltava Mannoia interrompendolo solo di tanto in tanto con qualche domanda, annotava i punti salienti. Alla fine chiese: – Ma di questo è possibile trovare riscontri? Mannoia si strinse nelle spalle, e rispose: – Riscontri… Cosa nostra non è come un’assemblea di condominio, che si fanno verbali. Non so che riscontri si possono trovare.
Falcone si fermò a riflettere, e pesando le parole aggiunse: – Noi, ora, abbiamo la necessità di arrestare, e presto, quelli che sono fuori e che vanno sparando; indagini lunghe per adesso non se ne possono fare e se infiliamo dentro cose non riscontrate rischiamo che ci fanno passare per matti e non arrestiamo nessuno. Mannoia assentì, e Falcone riprese a dettare il verbale.
Altro non so, non voglio e non posso dire, ma so che tutto quanto Mannoia ha riferito e confessato è stato valutato da chi doveva farlo, da chi ne aveva la potestà e la responsabilità per il ruolo rivestito e tanto mi basta, da cittadino e da poliziotto, e sono contento che sia stato ritrovato quell’appunto, tra le carte del giudice, a testimonianza di un momento così particolare.
E a proposito di riscontri, e dell’importanza che veniva loro attribuita da Falcone, mi tornano alla mente altri particolari; Mannoia aveva parlato a lungo del traffico di droga, dell’importazione dalla Turchia di morfina base, della trasformazione in eroina e delle spedizioni verso il mercato nordamericano.
Nel narcotraffico lui aveva un ruolo importantissimo, quello del chimico, il responsabile della trasformazione della morfina, e aveva descritto a un curiosissimo Falcone le diverse fasi della lavorazione di centinaia di chili di morfina. – Se le procurassimo tutto l’occorrente, lei sarebbe in grado di raffinare eroina? Restiamo perplessi, pensiamo a una battuta, non ne comprendiamo il motivo. Io già immagino i milioni di problemi burocratici da affrontare per fare una cosa che non aveva precedenti.
Mannoia accenna a problemi pratici: – Sì, potrei… ma dove, qui? Ma immagina la puzza… dottore Falcone, io già arrestato sono, ma lei ci vuole fare arrestare tutti quanti e lei per primo… Falcone ride, ci pensa, fa una smorfia, poi riprende, con una punta di rammarico: – S’immagina l’importanza e la valenza di un riscontro del genere? Negli Stati Uniti non ci penserebbero due volte a farglielo fare, ma da noi effettivamente ci potrebbero essere difficoltà… E il discorso finì lì, con mio visibile sollievo: già facevo la scorta e scrivevo i verbali, e aggiungerci il ruolo di aiuto chimico raffinatore di eroina francamente mi sarebbe parso troppo! Come dio volle, i sopralluoghi a Palermo finirono e arrivò finalmente l’11 dicembre.
Dalla prima mattina sentimmo gran rumore di macchine che venivano allontanate dalla piazza d’armi della caserma, ove erano solitamente parcheggiate. A piazzale finalmente sgombro, arrivò un elicottero che ci prese a bordo e ci riportò a Boccadifalco, dove ci aspettava l’Observer dell’andata, per un pacifico ritorno a Pratica di Mare.
Arrivai a casa a tarda sera, decisamente stanco, ma con la prospettiva di una settimana di riposo, che francamente pensavo di meritare, per i tre lavori che avevo fatto negli ultimi giorni: quello della scorta, quello dei verbali e quello dell’agente di custodia con i turni di 24 ore.



IL QUADRO PIÙ RICERCATO AL MONDO – VIDEO 


Mafia, 50 anni fa il furto del Caravaggio a Palermo: storia di un quadro diventato mitico

Di sicuro c’è solo che fu un lavoretto facile facile: una finestra a piano terra, nessun inferriata e neanche l’ombra di un allarme. Solo un cancello da scavalcare, un taglierino per incidere la tela e un tappeto dentro cui arrotolarla, per proteggerla dalla pioggia. Già, la pioggia: in effetti fu la parte più difficile di tutta questa storia. Pioveva incessantemente a Palermo quella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969. Ed è per colpa di quella pioggia che forse il Caravaggio perduto non esiste più: i due ragazzotti che lo rubarono decisero di arrotolarlo dentro a un tappeto per portarselo via.
“Quella decisione si è rivelata fatale”, ha detto all’Agi Maurizio Ortolan, l’investigatore che ha interrogato Francesco Marino Mannoia, uno dei tanti pentiti di mafia che ha fornito rivelazioni sulla preziosissima tela. Perché fatale? “Mannoia – spiega Ortolan – ha detto che quando hanno aperto la tela, la vernice si era parzialmente disintegrata“. Il motivo lo spiega Michele Cuppone, esperto del dipinto scomparso: “Arrotolare dall’interno una tela del 1600 è uno dei peggiori errori che si possa fare. Ci sono stati altri casi di dipinti rubati che erano stati arrotolati. Tutti erano segnati da profonde crepe orizzontali per l’intera lunghezza della tela”.
Chissà se è andata così anche per la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Michelangelo Merisi. Considerata una delle opere più commoventi del Caravaggio, è diventato uno dei dipinti più leggendari di tutta la storia dell’arte. Merisi lo aveva realizzato nel 1609 durante un suo soggiorno a Palermo, sempre contestato dagli storici dell’arte. Ed è nel capoluogo siciliano, all’oratorio di San Lorenzo, nel cuore del centro storico della città, che quel dipinto è rimasto per circa 350 anni. Poi nella notte di mezzo secolo fa il buio: da allora il Caravaggio perduto è diventato fonte d’ispirazione per romanzieri, oggetto del desiderio di collezionisti senza scrupoli e chiodo fisso degli investigatori.
In quasi 50 anni lo hanno cercato ovunque. Quasi fosse un latitante ne hanno stilato schede identificative diffuse in tutto il mondo: 2 metri e 68 per un metro e 97 e un valore di mercato che oggi si aggira sui trenta milioni di euro. Per l’Fbi è uno dei furti d’arte più importanti di tutti i tempi, insieme a uno Stradivari rubato a New York e a un Picasso svanito a Rio de Janeiro.
Si pensò subito a un furto su commissione. Ma a Palermo c’è un solo service capace di un’operazione simile: Cosa nostra. Tra il 1971 e il 1994 un fascicolo aperto dai carabinieri del nucleo per la Tutela del patrimonio culturale è stato riempito con decine di “soffiate”, “informative”, addirittura “trattative” avviate con presunte “fonti confidenziali”: niente. Del Caravaggio perduto nessuna traccia. Nel 1980 lo storico britannico Peter Watson raccontò di aver ottenuto un appuntamento da un mercante d’arte che voleva vendergli il quadro scomparso. Doveva vederlo la sera del 23 novembre, in provincia di Salerno, ma il terremoto dell’Irpinia mandò a monte l’incontro. Nel 1989 Leonardo Sciascia, rimasto impressionato dal furto compiuto vent’anni prima, decise di dedicare a quel mistero il suo ultimo racconto, Una storia semplice.
Tanto semplice, però, non era. Anzi era talmente complessa che la storia del Caravaggio perduto cominciò subito a ispirare una serie di leggende. Racconti che avevano sempre un’ombra nera sullo sfondo: quella di Piovra. Si disse per esempio che il quadro venne rubato ed esposto durante le riunioni della Cupola, per mettere in mostra il potere e il prestigio dei padrini. Nossignore, sostenne Vincenzo La Piana, nipote del boss Gerlando Alberti e primo pentito a raccontare la presunta fine della Natività palermitana. Per La Piana il dipinto venne seppellito in una cassa di ferro insieme a cinque chili di cocaina a alcuni rotoli di banconote: i tesori di suo zio Gerlando. Nel luogo indicato agli investigatori, però, la cassa col dipinto non venne mai trovata.
Nel frattempo arrivarono gli altri pentiti, quelli d’alto livello. Mannoia raccontò al giudice Giovanni Falcone che il Caravaggio perduto non esisteva più: venne arrotolato in fretta la notte del furto. Errore fatale, spiegano gli esperti. Nel 1996 Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, ha sostenuto di aver utilizzato il dipinto per una sorta di trattativa con lo Stato: l’alleggerimento del 41 bis, il carcere duro per detenuti mafiosi, in cambio del quadro. Lo Stato – almeno quella volta – rifiutò. Per Gaspare Spatuzza, l’uomo della strage di via d’Amelio, la tela venne conservata in una stalla in attesa di trovare un compratore. Che non arrivò mai. Solo che in quella stalla c’erano anche i maiali che si cibarono dell’opera del Merisi.
L’ultima soffiata in ordine di tempo appartiene al pentito Gaetano Grado ed è contenuta nella relazione finale della commissione Antimafia della scorsa legislatura. Un racconto in cui Cosa nostra recita il ruolo di procacciatrice d’opere d’arte per mercanti senza scrupoli: recupera il quadro rubato da alcuni piccoli malavitosi e lo vende all’estero, in Svizzera. “Il furto – ha detto il padrino di Santa Maria di Gesù – maturò nell’ambiente dei piccoli criminali, ma l’importanza del quadro e il suo enorme valore, subito evidenziato dalla stampa, indussero i vertici di Cosa nostra a interessarsi alla vicenda e a provvedere a rivendicare l’opera”. “Grado era una delle persone molto vicine a Badalamenti, ci ha detto che quando Badalamenti venne a conoscenza che certi ragazzi, dei balordi, si erano impossessati di quest’opera d’arte se la fece consegnare e riuscì a mettersi in contatto con un importante acquirente proveniente dalla Svizzera“, ha spiegato l’ex presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi.
“Già nel 1970 il capo della Cupola – rivela Grado – Gaetano Badalamenti curò il trasferimento del quadro all’estero, verosimilmente in Svizzera, dietro il pagamento di una grossa somma in franchi. Badalamenti mi disse che il quadro era stato scomposto per essere venuto sul mercato clandestino”. Rubato dai balordi, recuperato dal boss dei boss, tagliato a fette per nasconderlo meglio e venduto grazie all’intercessione di un antiquario svizzero, arrivato a Palermo per l’occasione. Un uomo morto da tempo, ma che Grado ha riconosciuto in fotografia: un dettaglio che ha portato all’apertura di una nuova indagine da parte della procura di Palermo nel giugno dell’anno scorso.
I reati commessi sarebbero tutti prescritti ma magari il Caravaggio perduto esiste ancora. O forse no: è andato distrutto già poco dopo quella notte di 50 anni fa. Per mezzo secolo ha ispirato scrittori come Sciascia, romanzieri come Luca Scarlini, attori come Salvo Piparo, che al furto del quadro ha dedicato uno spettacolo teatrale messo in scena all’oratorio di San Lorenzo: così il Caravaggio perduto sopravvive.

 

 


Cosa si sa del furto della Natività del Caravaggio a Palermo, 50 anni dopo

Una pista mafiosa porta in Svizzera, dove nuovi testimoni potrebbero risolvere il mistero

Sono passati 50 anni esatti dal furto della Natività di Caravaggio nell’oratorio di San Lorenzo a Palermo, ma pochi passi in avanti sono stati compiuti. Del dipinto trafugato non si hanno più notizie dal 17 ottobre del 1969 e il furto resta tra i misteri più fitti del mondo dell’arte.

Antonella Lampone, allora 15enne, ricorda perfettamente quella notte. Figlia della custode dell’oratorio, Maria Gelfo, Antonella racconta al Guardian che sua madre e sua zia furono le prime ad arrivare sulla scena del reato. “Si agitavano e urlavano”. “Saltai giù dal letto e mi precipitai in chiesa fino all’altare sul quale il dipinto campeggiava da oltre tre secoli e che in quel momento era vuoto”. Poi aggiunge: “Per noi fu una tragedia, un lutto. Non avevano rubato solo un dipinto, ma un membro della nostra famiglia”.
C’era solo un’organizzazione a Palermo in grado di trafugare un tesoro del genere: la mafia. In un’intervista video girata nel 2001 ma conservata in un cassetto e diffusa in esclusiva dal Guardian lo scorso mese, il parroco dell’oratorio, Benedetto Rocco, ha dichiarato che la Natività si trovava nella casa di un potente boss mafioso che lo aveva contattato via lettera contenente dei pezzetti di tela per convincerlo a sedersi al tavolo delle negoziazioni.
Anche Lampone ha confermato le dichiarazioni del parroco. “Ricordo che disse a mia madre che era stato contattato dall’autore del furto per raggiungere un accordo”. Secondo Rocco, l’artefice del furto è Gaetano Badalamenti, al tempo uno dei più potenti gangster siciliani, in grado di gestire un narcotraffico tra Usa e Italia pari a 1,50 miliardi di euro. A quel tempo, Rocco informò la polizia delle lettere e della tela ritagliata ma le registrazioni con le sue dichiarazioni sembrano essere scomparsi.
Un mese fa, un investigatore siciliano ha contattato Lampone. “Ho chiesto se le dichiarazioni di mia madre fossero ancora conservate negli archivi. Era stata interrogata decine di volte e mi è stato detto che il materiale è scomparso”.
Per gli investigatori è una corsa contro il tempo. I principali testimoni e lo stesso Badalamenti sono morti. Rocco nel 2013, la mamma di Lampone nel 2006 e il boss nel 2004.
Nella settimana precedente il furto, Maria Gelfo, aveva chiesto di rinforzare le finestre della chiesa dopo che alcuni individui sospetti avevano le chiesto di poter entrare a guardare il quadro. “Mia madre era preoccupata, chiese alla curia vaticana di fare qualcosa per la finestra che si affacciava sulla strada e dalla quale era visibile il quadro, ma gli fu detto che non ce ne era bisogno”  Le speranze di risolvere il mistero dietro la Natività sono state riaccese nel giugno dello scorso anno dopo che gli investigatori italiani avevano fatto sapere che Gaetano Grado, un pentito di mafia, ha rivelato che Badalamenti era stato messo in contatto con un commerciante d’arte in Svizzera, dove oggi i pubblici ministeri sono al lavoro in cerca di nuovi testimoni che potrebbero chiarire uno dei più grandi misteri della storia dell’arte.
La domanda principale è se il dipinto è in buone condizioni, anche se l’evidenza suggerisce fortemente il contrario. Nel 1989, un altro collaboratore di giustizia di nome Francesco “Mozzarella” Marino Mannoia rivelò al magistrato Giovanni Falcone di aver rubato il Caravaggio, arrotolando la tela per farla uscire di nascosto dalla chiesa. Lampone ricorda che anche un tappeto fu rubato quella notte, lo stesso che probabilmente fu usato dai ladri per arrotolare la tela e proteggerla dalla pioggia.
“Quella decisione si è rivelata fatale”, ha detto Maurizio Ortolan, un agente di polizia presente durante l’interrogatorio di Mannoia, poiché la vernice, indurita nel corso dei secoli, si incrina facilmente.
“Mannoia ha detto che quando hanno aperto la tela, la vernice si era parzialmente disintegrata”. Michele Cuppone, esperto del Caravaggio scomparso, ha spiegato che “arrotolare dall’interno una tela del 1600 è uno dei peggiori errori che si possa fare. Ci sono stati altri casi di dipinti rubati che erano stati arrotolati. Tutti erano segnati da profonde crepe orizzontali per l’intera lunghezza della tela”. 17.10.2019 AGI


 

La storia della Natività (rubata) di Caravaggio

 

Una delle più belle rappresentazioni della Natività è quella realizzata nel 1600 da Caravaggio. Uno straordinario dipinto svanito nel nulla più di 50 anni fa.

Da sempre considerata un’opera prodotta durante il soggiorno siciliano, sulla base di quanto riportato dai biografi di Michelangelo Merisi (1571-1610), conosciuto al secolo come Caravaggio, lo straordinario dipinto della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco, è molto probabilmente riferibile alla produzione del periodo romano di Caravaggio, all’inizio del Seicento.

Eccessi e impeto. Le opere di Caravaggio, artista ribelle e rivoluzionario, ma profondamente umano e geniale, rispecchiano la sua indole ed il suo temperamento impetuoso, ponendosi come il riflesso di una breve e turbolenta vita, fatta di eccessi e sregolatezze ma che hanno fatto di lui un genio dell’arte italiana.
Questa tela, con un notturno toccante e coinvolgente, racconta la nascita di Cristo. Maria (vedi dettaglio sopra) molto giovane e stanca per la fatica del parto, osserva il piccolo Gesù. Egli, steso per terra, è adagiato su un umile panno (vedi sotto), sopra un mucchietto di paglia. Un singolare Giuseppe, giovanile nella muscolatura, è voltato di spalle per guardare San Francesco ed un altro uomo con cappello. A sinistra, San Lorenzo, con abiti liturgici, è chinato in adorazione.
L’angelo. Dall’alto scende un angelo (vedi dettaglio sotto) che, fluttuando nello spazio buio della stalla, indica il cielo per unirlo idealmente con quel Bambino appena venuto al mondo. La luce esalta l’evento e lascia nell’ombra, al centro, la testa di un docile bue.
Un mistero. Come e perché questo capolavoro di straordinario lirismo pittorico sia stato strappato all’altare di un piccolo oratorio palermitano, in una notte d’ottobre del 1969, è ancora oggi un mistero, una tra le peggiori storie che l’arte italiana abbia mai dovuto narrare. La mattina seguente al furto furono le custodi dell’Oratorio a trovare un enorme buco dentro una cornice vuota. Il dipinto era stato reciso con una lama ed alcuni frammenti di tela pendevano qua e là dalla cornice. Da quel momento non se ne ebbe più traccia. Sparito nel nulla, comparve nelle varie e discordanti testimonianze che i pentiti di mafia rilasciarono in seguito.
Uno di loro affermò che, dopo diversi tentativi di vendita andati a vuoto, la tela sarebbe stata seppellita nelle campagne di Palermo, insieme a eroina e dollari americani. Ma durante una verifica nel luogo indicato dal pentito la cassa con la tela non fu trovata. Un secondo “testimone” successivamente disse che la tela era ancora integra e che era stata usata durante una trattativa con lo Stato Italiano per ottenere in cambio una riduzione delle pene per i condannati per reati di mafia.
Un’altra dichiarazione sostenne persino che venne utilizzata come scendiletto dal boss Totò Riina.
Le altre piste. Secondo altre informazioni venute alla luce nel 2009, l’opera sarebbe nascosta in una stalla e qui fu rosicchiata da topi e maiali: i resti sarebbero stati poi bruciati. Tra le ultime dichiarazioni si parlò anche di un trasferimento del dipinto in Svizzera affinché potesse essere venduto a un antiquario ed essere successivamente suddivisa in quattro pezzi per altrettanti collezionisti privi di scrupoli. A causa delle tante dichiarazioni discordanti, le indagini non sono mai arrivate a nulla. Il danno maggiore è stato quello di sottrarre alla collettività un “pezzo” importante della sua storia e di privare il dipinto della adeguata attenzione che avrebbe meritato.

 


Dallo studioso Michele Cuppone nuove rivelazioni sul furto della “Natività” di Caravaggio

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Rassegna stampa

 

 


a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF