«Era una questione di coscienza, non potevo far finta di niente. Era il mio dovere, non voglio passare per eroe, ma
non voglio neppure che si sappia chi sono»
Dietro il ritrovamento di uno dei covi di Matteo Messina Denaro, covo in cui gli inquirenti potrebbero trovare prove decisive nella lotta alla mafia, c’è un cittadino. Un uomo semplice, che alle autorità ha suggerito quale potesse essere uno dei luoghi in cui il superboss latitante da 30 anni si nascondeva, e che poteva contenere pizzini e altri oggetti interessanti per i pm di Palermo. Ma ora quell’eroe, dopo aver aiutato lo Stato, ha paura e non vuole assolutamente apparire.
«Ho indicato io il covo del boss, ora ho paura»
Ne parla oggi il quotidiano Il Messaggero, con il suo inviato a Campobello Nicola Pinna che racconta la storia dell’uomo che ha indicato il covo di Messina Denaro. «Era una questione di coscienza, non potevo far finta di niente. Era il mio dovere, sì dovere: non voglio infatti passare per eroe, ma non voglio neppure che si sappia chi sono», le sue parole. D’altronde Cosa Nostra nella sua storia ha sempre dimostrato di punire pesantemente chi aiuta le indagini. La palazzina, in via San Giovanni, a fianco alla casa del suo autista Giovanni Luppino – fermato anche lui insieme al boss, con cui era in clinica – potrebbe ancora svelare molti segreti: apparterrebbe a un incensurato che vive in Svizzera e che non abita più lì da molti anni.
La casa risulta in vendita, ma fino a qualche mese fa era occupata dal boss, prima che si trasferisse altrove: a dare la dritta è stato uno dei traslocatori, che dopo aver visto i tg ha capito di aver aiutato Messina Denaro e non ci ha pensato due volte ad aiutare gli agenti. «Ho fatto il mio lavoro, non avevo capito niente, non mi ero posto il problema. Quando ho visto le foto di Matteo Messina Denaro al tg e del suo amico ho capito che dovevo dire tutto quello che sapevo. Ma ora non so niente di più e non voglio essere coinvolto in questa storia».
Una breccia nel muro di omertà che ha consentito al boss più ricercato in Italia e in Europa addirittura di andare al bar, all’autolavaggio, o di comprare un’auto in contanti senza che nessuno si facesse due domande o avvertisse le autorità.
Il cognato di Bonafede: «Arrestatelo»
E tra coloro che condannano chi lo ha aiutato, c’è anche il cognato di Andrea Bonafede, l’uomo che gli aveva ceduto i suoi documenti e la sua identità. «Io spero che lo arrestino presto – dice Roberto D’Alfio, marito della sorella del geometra che finora è solo indagato – Anzi, non mi spiego perché ancora non l’hanno fatto. Se avessi saputo che frequentava questa persona l’avrei denunciato io. E mi chiedo perché non l’abbia fatto lui, fin dal primo momento che è stato contattato per offrire questo servizio a un uomo che doveva finire in galera già molto tempo fa. Se non si fosse prestato avrebbe garantito un futuro sereno alla famiglia: invece adesso i figli sono sotto choc e abbiamo paura di dire la verità all’anziana mamma». LEGGO 22.1.2023
Matteo Messina Denaro, «Così ho condotto la polizia nel covo», ma il supertestimone ora ha paura
CAMPOBELLO DI MAZARA (Trapani) Niente nomi e niente cognomi, nessuna foto e neanche indicazioni precise sulla residenza. I boss e i loro fedelissimi, d’altronde, l’hanno dimostrato più di una volta: chi tradisce o chi ostacola, chi denuncia o pure chi ci ripensa la paga sempre e la paga pesantemente. Di esempi ce ne sono centinaia e proprio a quelli pensa questo operaio che ha consentito alla polizia di trovare quello che quasi certamente è stato un rifugio di Matteo Messina Denaro. «Era una questione di coscienza, non potevo far finta di niente. Era il mio dovere, sì dovere: non voglio infatti passare per eroe, ma non voglio neppure che si sappia chi sono». Parole che grondano di paura, ma le rassicurazioni degli agenti sono state sufficienti per tranquillizzare il traslocatore che ha accompagnato le pattuglie fino a via San Giovanni, dove c’è un palazzina che ancora potrebbe svelare molti segreti. Appartiene a un incensurato che abita in Svizzera, ma guarda caso si trova accanto alla casa di Giovanni Luppino, l’agricoltore che all’invisibile capo di Cosa Nostra ha fatto da tassista e molto di più. Visto da fuori questo edificio sembra un luogo abbandonato e in effetti il titolare non ci abita da molti anni.
Risulta in vendita, ma fino a qualche mese fa (si ipotizza la scorsa primavera) è stato occupato senza che nessuno se ne dovesse rendere conto. Dentro si è nascosto il padrino temutissimo e rispettatissimo, ma a un certo punto è stato lui stesso a decidere di trasferirsi. Di comprare un’altra casa, tirando fuori tutti i soldi e sfruttando l’identità del principale fiancheggiatore che ora è finito nei guai, e poi di allestirla con arredi di lusso e molto più confortevoli. Dal covo-alcova di vico Cb, quella via senza nome da cui stanno venendo fuori i dettagli più importanti sulla vita alla macchia del boss, a via San Giovanni ci sono circa 700 metri.
E qui la polizia, che ancora setaccia muri, pareti e garage con un georadar e altra strumentazione tecnologica, ci è arrivata grazie alla dritta del traslocatore. «Ho fatto il mio lavoro, non avevo capito niente, non mi ero posto il problema. Quando ho visto le foto di Matteo Messina Denaro al tg e del suo amico ho capito che dovevo dire tutto quello che sapevo. Ma ora non so niente di più e non voglio essere coinvolto in questa storia».
LA FORTEZZA
Giorno dopo giorno crolla qualche mattoncino, sull’impenetrabile muro di omertà che ha fatto di Campobello di Mazara un paese-rifugio: per il capo indiscusso della fazione più agguerrita di Cosa Nostra questa era davvero una fortezza. Qui l’uomo più ricercato d’Italia e d’Europa poteva davvero permettersi quasi tutto, persino di uscire dal rifugio e di andare addirittura all’autolavaggio. Il traslocatore tre giorni fa si è rivolto alla polizia, qualcun altro il giorno prima ha chiamato la Guardia di finanza e così è saltato fuori anche il caveau che ha custodito forse i soldi che il clan metteva insieme con estorsioni e altri affari criminali e di certo un bel malloppo di gioielli e pietre preziose. Tutto ben ripulito, sia il forziere, sia la casa di via San Giovanni.
Ai tanti «non so nulla» che si sono sentiti in questi giorni, ora fa da contrasto la voce del cognato di Andrea Bonafede, l’uomo che ha ceduto documenti e identità reale al super latitante. «Io spero che lo arrestino presto – dice Roberto D’Alfio, il marito della sorella del geometra che finora è solo indagato – Anzi, non mi spiego perché ancora non l’hanno fatto. Se avessi saputo che frequentava questa persona l’avrei denunciato io. E mi chiedo perché non l’abbia fatto lui, fin dal primo momento che è stato contattato per offrire questo servizio a un uomo che doveva finire in galera già molto tempo fa. Se non si fosse prestato avrebbe garantito un futuro sereno alla famiglia: invece adesso i figli sono sotto choc e abbiamo paura di dire la verità all’anziana mamma». IL MESSAGGERO 22.1.2023