Il ricordo di Mattarella di Falcone e Borsellino

Il ricordo di quei giorni lontani di Palermo, così drammatici, così cupi e così segnati da tanta violenza e tanto dolore, permane pienamente vivido, in Italia e nel mondo. E provoca, tuttora, orrore e coinvolgimento, non soltanto in chi li subì personalmente o in chi li visse da vicino.

Non possono essere dimenticati quei giorni delle stragi, con l’assassinio di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino, delle donne e degli uomini delle scorte – Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.

Con l’assassinio di Falcone e quello di Borsellino, già allora considerati da tanti – non soltanto in Italia – simbolo e riferimento nella lotta a Cosa nostra, sembrava che, insieme al dolore, prevalesse lo scoramento. Che il sacrificio di tante persone, cadute nella lunga lotta alla mafia, si rivelasse inutile. Che la mafia, piegata e sconfitta nel Maxiprocesso, si fosse rialzata, prendendosi la rivincita e, con essa, il suo perverso potere.

Ma la paura e la sfiducia non hanno avuto la prevalenza. La società civile, a partire da quella siciliana, ha acquisito, da quei giorni, una consapevolezza e una capacità di reazione crescenti; e destinate a consolidarsi nel tempo.

La memoria di persone come Falcone e Borsellino continua ad accompagnarci. Il loro sacrificio viene, ovunque, ricordato con commozione; e il senso del loro impegno viene trasmesso e assunto in maniera condivisa, soprattutto da tanti giovani, giorno dopo giorno.

Anche per le istituzioni è necessario non limitarsi al dolore e al ricordo. Non era questa la visione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Non hanno vissuto e lottato per questo. Ma per realizzare, e sollecitare, un impegno operativo, concreto, ininterrotto, contro l’attività e la presenza della mafia.

Falcone e Borsellino, siciliani, profondi conoscitori della realtà della loro terra, rifiutavano e respingevano la concezione, falsamente mitizzata e, insieme, rassegnata, dell’invincibilità della mafia e della sua impenetrabilità. Quasi che essa fosse, in qualche modo, connaturata alla storia, alla mentalità e, in definitiva, al destino della Sicilia.

A Marcelle Padovani, Falcone disse che bisognava rimuovere tutti i luoghi comuni – storici, politici, sociologici o culturali – che, di fatto, costituivano alibi per non intraprendere una ferma lotta alla mafia. Giunse, coraggiosamente, a ribaltare la tesi «per cui la mafia […] non può venire efficacemente repressa senza un radicale mutamento della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo». E concludeva: «Ribadisco, al contrario, che senza la repressione non si ricostituiranno le condizioni di un ordinato sviluppo».

E’, difatti, questo – quello della prevenzione e della repressione, affidate alla Magistratura e alle Forze dell’ordine – in assoluto, il primo elemento di efficace contrasto contro qualunque forma di criminalità organizzata.

Devono esservi affiancate istituzioni politiche e amministrative trasparenti ed efficienti, che rifiutino, contrastino e denuncino ogni collusione o infiltrazione. Un’azione, della scuola e di ogni altra realtà educativa, di formazione delle coscienze per la legalità, il rispetto degli altri e la libertà della convivenza. Una condizione di alta occupazione, perché un tessuto sociale sereno e solido resiste meglio a pressioni e influenze criminali.

Tante volte, nei discorsi e negli scritti di Falcone e di Borsellino, nei loro ricordi, traspare l’amore, la tristezza e il desiderio di riscatto per la loro Isola.

Così Paolo Borsellino ricordò l’amico subito dopo la sua morte: «Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva. Perché non è fuggito? Per amore verso la sua terra». Borsellino parlava di Falcone, ma, condividendone impegno e motivazioni, parlava anche di sé.

Condivisero tanto: l’impegno, l’amicizia, la professione, gli ideali, il pericolo. Condivisero anche amarezze, attacchi ingiusti, critiche immotivate, invidie e ostacoli. Condivisero anche il rifiuto della rassegnazione.

Non aspettavano, fatalisticamente, che arrivasse qualcuno dall’esterno, capace di liberare la Sicilia della presenza della mafia. Falcone, Borsellino e tanti altri a quella presenza hanno inferto colpi e sconfitte fondamentali. Con risultati di grande efficacia.

Il Maxiprocesso, condotto magistralmente, sulla base delle intuizioni e del lavoro di Giovanni Falcone, ha costituito una svolta radicale nella guerra dello Stato contro Cosa Nostra.

Sul banco degli accusati finirono non soltanto singoli gregari, ma l’intero mondo della mafia. Le rivelazioni dei “collaboranti”, gestiti, con sagacia e fermezza, svelavano organigrammi, regole, codici e linguaggi, sfatando il mito dell’impenetrabilità dell’organizzazione mafiosa. Con quella sequela di condanne, la mafia perdeva, inoltre, quella pretesa di invincibilità che aveva sempre rappresentato uno dei suoi capisaldi.

Il risultato, così importante, del Maxiprocesso non fu dovuto a una concomitanza di circostanze favorevoli. Ma all’impegno, alla determinazione, al coraggio anzitutto dei suoi ideatori; e di chi lo condusse. Esso era il risultato di un metodo innovativo, sperimentato sul campo da molti anni, che vedeva la mafia come fenomeno unitario. Un’ impostazione preziosa e lucida, che esigeva, insieme, coordinamento, collaborazione e approfondita specializzazione tra magistrati preposti al suo contrasto, strumenti di indagine sempre più moderni ed efficaci, sviluppo della collaborazione internazionale.

Non fu certo casuale che alcuni mafiosi, di peso nel loro mondo, decisero di collaborare con i magistrati. Era uno dei risultati di quella professionalità specifica, nella gestione delle indagini, che Falcone rivendicava come elemento irrinunziabile della lotta alla mafia.

Una condizione che oggi, con le procure antimafia, nazionale e distrettuali, e con l’intensificarsi della collaborazione a livello internazionale, con la creazione di strutture apposite, ci sembra persino scontato ma che pure trovò, negli anni di Falcone, obiezioni e ostilità.

Oggi quelle impostazioni, quel metodo, sono alla base della legislazione antimafia, non solo in Italia, ma in tante parti del mondo.

Da allora si sono fatti grandi passi in avanti nel contrasto alla mafia e va sottolineato – come motivo di orgoglio della nostra democrazia – che i risultati sono stati raggiunti, come nella lotta contro il terrorismo, utilizzando al meglio le regole dello stato di diritto.

In occasione del Maxiprocesso, l’Italia, nel suo complesso, fu capace di far sistema contro la mafia: giudici e forze dell’ordine, anzitutto, e, nelle loro responsabilità, Parlamento, Governo – attraverso i nessi di allora, dell’Interno e della Giustizia – giornalisti e opinione pubblica ne furono partecipi.

Lo stesso impegno, di autentica coralità nazionale, visto nel Maxiprocesso di Palermo, è richiesto anche oggi per fronteggiare le insidie persistenti di una criminalità mafiosa che, seppure colpita, mantiene una grande capacità di trasformarsi e di mimetizzarsi.

Falcone, come Borsellino, come tanti altri servitori delle istituzioni, caduti in Sicilia o altrove, erano straordinari nel loro impegno ma si sentivano – ed erano – persone normali.

Le doti di tenacia, di coraggio, di intuizione, di intelligenza, di rigore morale erano presenti in loro in grande misura. Ma i loro sono stati comportamenti che ogni persona – ciascuno di noi – può esprimere, compiendo scelte chiare e coerenti.

Quegli uomini, oggi, costituiscono punti di riferimento. Ma devono essere, soprattutto, esempi.

Falcone – che prevedeva che, prima o poi, avrebbero tentato di ucciderlo – ebbe a dire: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».

 

 

Testo tratto dall’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia commemorativa in occasione del 25° anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio