Le prime indagini di Paolo Borsellino sul clan dei Messina Denaro

 

Da un foglietto in una sedia all’arresto, la storia della fine di Messina Denaro

 

Da un foglietto stropicciato rinvenuto quasi per caso nella gamba di una sedia, poi rivelatosi il diario clinico di un ‘Mister X’, alla cattura del super boss Matteo Massina Denaro dopo 30 anni di latitanza. Il tutto grazie all’incrocio di informazioni nelle banche dati del Sistema sanitario nazionale. A ricostruire la storia dell’arresto dell’ex numero uno di cosa nostra, morto poi lo scorso 25 settembre all’ospedale San Salvatore di Coppito, è il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei Carabinieri, intervenuto stamattina al convegno ‘Sicurezza e Salute’ nell’Aula Magna Agazio Menniti dell’ospedale San Camillo di Roma. Un’operazione maturata dopo anni di indagini e pedinamenti e arrivata a un punto di svolta inaspettato durante un intervento di installazione di microspie a casa di Rosalia, la sorella del boss. È il 6 dicembre 2022, ha raccontato Angelosanto, “quando chiediamo il permesso di accesso per installare delle microspie in casa di Rosalia Messina Denaro”. Non ovviamente per caso, ma “nell’ambito di un lavoro di 10-15 anni per catturare, destrutturare e impoverire l’organizzazione, arrivando ad arrestare oltre 180 associati mafiosi nella sola provincia di Trapani e sequestrare beni per centinaia di milioni di euro. Questo ci ha portato conoscere l’organizzazione, gli appartenenti e persino le pieghe del carattere delle persone e le loro abitudini, come Rosalia che è stata pedinata costantemente per 12 anni”. Le microspie “servivano perché Rosalia sfuggiva a intercettazioni telefoniche e ambientali e al controllo video. Così, entrati nel suo appartamento, tra gli appigli per installare gli impianti i Carabinieri individuano una sedia metallica con le gambe cave, tolgono il tappo e provano a inserire un sondino ma notano un altro tappo di carta che nascondeva un tubetto. All’interno c’era un foglio di carta stropicciato con sopra delle annotazioni e dei ‘geroglifici’, a quel punto i tecnici fotografano il tutto e lo rimettono a posto, senza ovviamente microfonare la sedia”. Dopo qualche giorno, ha proseguito il generale, “abbiamo decriptato il biglietto e scoperto che era un diario clinico di un ‘Mister X’ con date e condizioni di salute, stabilendo che la persona, che non sapevamo chi fosse, era stata ricoverata il 9 novembre 2020 e operata al colon il 13 novembre. Sapevamo grazie al biglietto che aveva perso diversi chili, poi a febbraio-marzo c’erano stati tre cicli di chemioterapia, a maggio 2021 forse un’operazione al fegato, il 29 maggio un altro intervento e un ciclo di chemio e così arriviamo fino a novembre 2022 con l’asportazione di una massa tumorale”. A quel punto c’era già, dalle indicazioni ottenute, “l’ipotesi che quel Mister X potesse essere proprio Matteo Messina Denaro”
A quel punto, ha spiegato il comandante del Ros, “consultiamo la banca dati storica dell’Airtum e poi ci rivolgiamo al ministero della Salute a Roma, perché non potevamo mettere piede negli ospedali delle province di Trapani o Palermo visto che pensando alla storia di Michele Aiello è facile immaginare il contesto. Al ministero ci facciamo spiegare lo Sdo, il Sistema delle dimissioni ospedaliere, che è veramente efficiente e registra tutto. Così, in assoluta riservatezza e senza coinvolgere il personale sanitario, abbiamo fatto una richiesta in autonomia chiedendo i dati di tutti i ricoveri e le operazioni a livello nazionale, facendo riferimento al periodo e ai dati del diario. Sono venuti fuori 89 codici paziente a livello nazionale, di cui 22 dalle strutture della Sicilia. Incrociando così le informazioni con le altre banche dati tiriamo fuori un solo paziente che aveva tutte le coincidenze esatte con il diario clinico”. Il nome del paziente, “chiesto a un altro archivio tramite autorizzazione perché la banca dati è anonima per rispetto della privacy”, è quello poi divenuto ‘celebre’ di Andrea Bonafede. Non un nome qualunque, ha specificato Angelosanto, “ma quello del nipote di Leonardo Bonafede, capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, uomo tra i più fidati Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, con cui aveva un debito riconoscenza perché l’aveva protetto quando Salvatore Riina voleva ucciderlo”. Quando però Andrea Bonafede risultava ‘sotto i ferri’, “noi avevamo le sue foto in auto o in giro col cane. A quel punto avevamo capito perfettamente che si trattava di Matteo Messina Denaro”. Da qui l’epilogo: “Quando il 16 gennaio 2023 ‘Bonafede’ doveva recarsi alla clinica privata Maddalena di Palermo per una chemioterapia, secondo le informazioni che avevamo appreso duplicandone il sistema informatico, ci siamo presentati lì cinturando la zona, individuando Messina Denaro e arrestandolo mentre era in auto in attesa dell’esito di un tampone anti-Covid”. IL FATTO NISSENO 18.10.2023

 


 



L’ascesa del latitante Messina Denaro

Noi eravamo la roccia, e per questo ci sentivamo una sorta di élite della criminalità, e Riina per noi era lo stato, come gli disse una volta Giuseppe Ferro. Noi, mandamenti di Mazara e Castelvetrano, Mazara e Trapani. La roccia. Lui, lo stato. E qui c’erano i suoi alleati più fedeli, come Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo, capo provincia che aveva preso il posto di Cola Buccellato.

Don Ciccio, pace all’anima sua, era saggio e astuto. Aveva attraversato tutta la vita senza mai avere problemi; ogni tanto capitava che lo fermavano, lo interrogavano, ma lui, picciotti, sempre tranquillissimo era.

Aveva tre nipoti sbirri, cose da pazzi, uno alla finanza, due che erano poliziotti. E per un omicidio, quello del notaio Craparotta, riuscì a ingannare anche il dottore Falcone. È stato il dottore Borsellino a cominciare a indagare un po’ di più su Don Ciccio, a fargli fare un po’ più di vai e vieni dalle caserme, tanto che lui, che non aveva paura di nessuno, una volta glielo ha detto anche, a quelli che lo interrogavano: il paese è piccolo, e voi fate male, ed è come infilare degli aghi sotto le unghie.

Ma il suo capolavoro è proprio quando il dottore Borsellino chiese per lui non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo.

Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili», che «non ci sono prove», e che anzi, la figlia Rosalia aveva sposato un Guttadauro, Filippo, «sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio».

Ci guidava con mano ferma e poche parole, se ci diceva che lo scecco vola, noi rispondevamo: sì, è vero, lo scecco vola. Quello che diceva lui era vangelo. Ma era anche molto malato, povero cristiano, e Matteo era stato cresciuto per questo, per diventare un uomo, per diventare il capo.

E non ci ricordiamo quando accadde, perché per noi era sempre stato a così, ma a un certo punto fu chiaro a tutti che ogni decisione che si prendeva in provincia di Trapani doveva passare per un cenno della testa d’u Zi Ciccio, certo, ma soprattutto per il volere del figlio. Senza nessuna investitura, senza riti, santine, sangue, spilloni, minchiate, tutto in automatico, liscio come l’olio di Nocellara appena spremuto, come fosse già scritto.

Anche perché Mariano Agate, che Riina aveva voluto capo del mandamento di Mazara del Vallo, non rappresentava mica tutta la provincia, e poi era sempre in carcere, e non c’erano altre figure di riferimento. C’era Salvatore Tumbarello, sì, c’era Mastro Ciccio Messina. Ma erano reggenti, facenti funzione, insomma.

E anche lì Matteo ci aveva visto giusto e alla prima occasione era riuscito a piazzare Vincenzo Sinacori, che era amico suo, era giovane, era dei nostri. Ad Alcamo, pure, ci abbiamo messo a Vincenzo Milazzo, che poi purtroppo lo abbiamo dovuto uccidere per quel fattaccio brutto che successe proprio nell’estate nel ’92, che si era messo in testa di fare la guerra a Salvatore Riina, tra una strage e l’altra, e Zi Totò gli disse a Matteo: capisco che è amico vostro, ma dovete eliminarlo, è di ostacolo alla nostra, di guerra.

E Matteo in quel periodo aveva proprio questo compito importante: sparare ai disertori. Organizzammo una riunione a Mazara. E così fu fatto, e con lui la fidanzata Antonella. E furono gli ultimi eliminati di una fila lunghissima, che noi oggi non riusciamo neanche a contarli i morti per mano nostra, la cui unica colpa era di non essere schierati con Riina, di volersi vedere la partita, come dicemmo all’anziano Cola Buccellato prima di eliminarlo.

Perché loro non lo capivano, ma noi eravamo sacerdoti di una nuova fede, e nel nuovo ordine che stavamo costruendo non c’era spazio per tentennamenti, dubbi, finzioni. E così dai Buccellato, Rimi, Minore, si passò a noi, e agli Agate, ai Virga. E ai Messina Denaro.

La guerra di mafia nel trapanese

Gli anni Ottanta, insomma, erano arrivati pure per noi. Eravamo diventati pop, e quei vecchi babbiuna non ci rappresentavano più. C’era una nuova Italia che avanzava, e ci volevamo essere noi, in prima fila. Chissà se i Corleonesi lo capivano; ma comunque a noi, tutto il loro casino, servì a farci strada.

A Cola Buccellato gli abbiamo ammazzato il figlio e il cugino, che erano venuti come ambasciatori. L’ambasciata per la pacificazione, la chiamavano, quando si annunciavano. E noi abbiamo fatto la pacificazione a modo nostro.

Li abbiamo uccisi, così eravamo tutti più tranquilli, no? E ogni tanto – nell’attesa dei carichi di droga che entravano dal Belice, passavano poi le campagne di Alcamo, venivano preparati e puliti e partivano da Castellammare del Golfo –, mentre da Palermo ci arrivavano i complimenti per la silenziosa efficienza e l’organizzazione, scherzando tra di noi, ci facevamo anche dell’ironia: se fosse il caos, dicevamo, che criminalità organizzata sarebbe? Sarebbe roba da spara polli, pisci ri ghiotta.

E poi dicevamo che Riina e Provenzano avrebbero meritato la cittadinanza trapanese, perché per noi erano una cosa sola, e non davamo del voi ai Corleonesi, davamo del noi. E se loro erano diventati così potenti, alla fine, era grazie a questa provincia di Trapani, che i signori magistrati un giorno sono arrivati finalmente a capire cos’era, in tre aggettivi: fidata, sicura e invulnerabile.

Ma l’hanno capito quando era già troppo tardi. Ed eravamo impenetrabili. Nessuno sapeva della villa di Riina a Mazara del Vallo, o della sua casa nelle campagne di Castelvetrano, dove i suoi figli scorrazzavano felici tra pirrere e ulivi, o di tutti i suoi acquisti, perché gli piaceva davvero la nostra zona a Totò, ci diceva sempre: «Picciotti, qui sì che c’è pace».

E noi gli dicevamo di sì, Zi Totò, e se serviva qualcosa chiamasse, anche se lui non aveva bisogno di chiedere, tanto eravamo veloci noi ad anticipare ogni sua esigenza: un’uscita in barca, un po’ di olio fresco di frantoio, una riunione da organizzare. E facevamo a gara perché sapevamo che tra noi c’era qualcuno che spiava e riferiva; come avveniva ad Alcamo, dove c’era Giuseppe Ferro che faceva la spia.

Un giorno, che era il 15 gennaio dell’89, a Partinico, Riina organizzò una riunione con quattro della famiglia di Alcamo. Loro arrivarono. Morirono tutti strangolati. E così si faceva a Castellammare, a Trapani, e il gruppo di fuoco partiva sempre da qui, con Matteo in testa che andava – come quando fu per Mommo ’u Nano, nell’86 a Paceco. […]

Dal libro “Matteo va alla guerra” di Giacomo Di Girolamo