FAMIGLIA BORSELLINO: “Prima sentenza che conferma partecipazione corpi Stato a strage”

VIA D’AMELIO  – PROCESSO DEPISTAGGIO

 

Famiglia Borsellino: “Prima sentenza che conferma partecipazione corpi Stato a strage”

 

Questa sentenza è importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano”. A parlare con l’Adnkronos, a nome della famiglia Borsellino, è l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in Via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio. “E, sotto questo profilo – dice Trizzino commentando le motivazioni della sentenza emessa lo scorso luglio e depositate solo ieri sera in cancelleria- i giudici valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è a borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa”.  

“Questa sentenza, a mio giudizio – dice ancora l’avvocato Trizzino, sposato con Lucia Borsellino – è estremamente importante perché amplia lo spettro dello scenario che ha preparato la strage, individuandolo nell’isolamento e nella delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del Procuratore di allora, Pietro Giammanco. E, in questo, la sentenza valorizzando quanto stabilito dalle precedenti sentenze, si attarda molto sulla questione delle indagini relative al dossier ‘Mafia e appalti’, quindi fermo restando che ci possono essere state quelle che si potrebbero definire, come dicava Moro, ‘convergenze parallele’, finalmente ci concentriamo sul ‘nido di vipere’ e sulle indagini su Mafia e appalti, che il giudice voleva rivitalizzare”.  

Era stato proprio Borsellino a parlare, poco prima della strage e dopo la strage di Capaci, di “nido di vipere”, riferendosi al suo ufficio, come ha raccontato in aula il magistrato Massimo Russo. “E qui come va?”, gli aveva chiesto Russo. E la risposta di Borsellino fu: “È un nido di vipere”. Un dettaglio in più per chiarire, a quasi 31 dalla morte di Borsellino e dei 5 agenti di scorta, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci.  

“Poi ci sono altre convergenze – spiega ancora il marito di Lucia Borsellino all’Adnkronos – Non sta a me dirlo, ma finalmente ci si concentra su qualcosa di concreto, che non è stato esplorato a sufficienza in questi anni. Speriamo Che la Procura di Caltanissetta si muova perché sono d’accordo con i giudici nisseni quando nelle motivazioni scrivono che ’30 anni sono troppi’ per potere non considerare il quadro probatorio debole. E’ una sentenza che costituisce, dal mio punto di vista, un punto di non ritorno”.   6.4.2023 (Adnkronos) – (di Elvira Terranova) –


Strage di via D’Amelio, l’avvocato della famiglia Borsellino: “Questa sentenza è un punto di non ritorno”

Commenta così Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, le motivazioni depositate ieri e relative alla sentenza emessa a luglio dai giudici di Caltanissetta, secondo i quali ci fu una convergenza d’interessi tra Cosa nostra e gruppi di potere esterni. “Finalmente ci concentriamo sul ‘nido di vipere’ e su
“Questa sentenza è importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano”. A parlare con l‘Adnkronos, a nome della famiglia Borsellino, è l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio. “Sotto questo profilo – dice Trizzino commentando le motivazioni della sentenza emessa lo scorso luglio e depositate solo ieri sera in cancelleria– i giudici valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è la borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa”.
“Questa sentenza, a mio giudizio – dice ancora l’avvocato Trizzino, sposato con Lucia Borsellino – è estremamente importante perché amplia lo spettro dello scenario che ha preparato la strage, individuandolo nell’isolamento e nella delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del Procuratore di allora, Pietro Giammanco. E in questo la sentenza, valorizzando quanto stabilito dalle precedenti, si attarda molto sulla questione delle indagini relative al dossier ‘Mafia e appalti’. Quindi fermo restando che ci possono essere state quelle che si potrebbero definire, come nel caso Moro, ‘convergenze parallele’, finalmente ci concentriamo sul ‘nido di vipere’ e sulle indagini su Mafia e appalti, che il giudice voleva rivitalizzare”.
Era stato proprio Borsellino a parlare, poco prima della strage e dopo la strage di Capaci, di un “nido di vipere”, riferendosi al suo ufficio, come ha raccontato in aula il magistrato Massimo Russo. “E qui come va?”, gli aveva chiesto Russo. E la risposta di Borsellino fu: “E’ un nido di vipere”. Un dettaglio in più per chiarire, a quasi 31 dalla morte di Borsellino e dei 5 agenti di scorta, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci.
“Poi ci sono altre convergenze. Non sta a me dirlo – spiega ancora il marito di Lucia Borsellino all’Adnkronos – ma finalmente ci si concentra su qualcosa di concreto, che non è stato esplorato a sufficienza in questi anni. Speriamo Che la Procura di Caltanissetta si muova perché sono d’accordo con i giudici nisseni quando scrivono nelle motivazioni che ’30 anni sono troppi’ per potere non considerare il quadro probatorio debole. E’ una sentenza che costituisce, dal mio punto di vista, un punto di non ritorno”. PALERMO TODAY 7.3.2023


BORSELLINO: “Su strage convergenze interessi Cosa nostra e ambienti esterni” – Sentenza processo depistaggio depositate le motivazioni

 


TESTO DELLE MOTIVAZIONI

 


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Borsellino disse: io nel nido di vipere

Così definì la procura secondo la testimonianza di un collega

Un mese prima di morire Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone nel massacro di Capaci, e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava «un nido di vipere». È un altro squarcio sugli ultimi giorni di vita del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio affidato al ricordo di un giovane magistrato dell’epoca, Massimo Russo, che ora fa l’assessore Sanità nel governo della Regione Siciliana.
Russo ha deposto ieri nel processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato della presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995 e indagato per l’altrettanto presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra avviata a cavallo delle stragi del ’92.        

La sua testimonianza si somma a quella di Alessandra Camassa, altra «allieva» di Borsellino presente all’incontro di giugno del 1992 nel quale il giudice che con Falcone aveva istruito il maxi-processo alla mafia confidò di essere stato «tradito» da un amico. Questo è il particolare più nitido rievocato dalla Camassa: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”».
Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. «È il mio grande cruccio», confessa Russo. Ma mentre la Camassa sostiene che sul momento pensò a una vicenda personale appena scoperta, lui associa il pianto e l’affermazione sul tradimento a un incontro conviviale con ufficiali dell’Arma dei carabinieri che Borsellino avrebbe avuto poco prima a Roma. Per alleggerire il clima e cavarsi dall’imbarazzo, proprio Russo chiese a Borsellino: «E qui come va?». Risposta: «È un nido di vipere». Un dettaglio in più per chiarire, a quasi vent’anni dalla morte e alla vigilia delle celebrazioni che stanno per aprirsi in occasione dell’anniversario, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci. Ma nonostante non ne fosse il titolare, ricordano Russo e Camassa, seguiva con grande interesse, per come e per quanto gli era consentito, gli sviluppi di quell’inchiesta.

A parte il rammarico per non aver approfondito la questione del tradimento, sottovalutando la confidenza ricevuta, i due magistrati sostengono che fino al 2009 – quando uscirono le prime notizie sull’indagine che stava svelando la trattativa tra Stato e mafia – non avevano collegato lo sfogo con l’eventualità che Borsellino fosse venuto a sapere dei contatti tra rappresentati delle istituzioni e di Cosa nostra. Solo dopo riferirono l’episodio agli inquirenti.
L’indagine sulla trattativa riguarda anche l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, già processato e assolto dall’accusa di concorso esterno con la mafia e ora inquisito per ipotetiche pressioni fatte nel ’93 sull’allora vice-direttore degli istituti di pena, Francesco Di Maggio, con l’obiettivo di alleggerire il «carcere duro» ai boss detenuti. Ma ieri, sempre nel processo Mori, il principale teste d’accusa contro l’ex ministro ha mostrato più di una crepa. Si chiama Nicola Cristella, ed era il capo-scorta di Di Maggio. A fatica, tra contraddizioni e titubanze, ha ricordato che Di Maggio si lamentava delle insistenze di chi voleva allentare il «41 bis»: «Percepii frammenti di dialoghi in cui si parlava di pressioni, e uscì il nome di Mannino», ha detto genericamente il testimone. Il quale nel 2003, interrogato dai magistrati di Firenze sugli stessi temi, non fece cenno all’uomo politico. «Non me l’hanno chiesto, e io non ne volevo parlare», ha provato a giustificarsi, suscitando l’irritazione del tribunale degli stessi pubblici ministeri.

5 maggio 2012 | ARCHIVIO