Una delle cose più interessanti nel seguire i movimenti globali della ’ndrangheta è l’entrare in un mondo di specchi. Lì le cose si riflettono l’un l’altra, e alcuni pattern di movimento emergono con più chiarezza di altri.
L’Operazione Eureka ha portato all’arresto di 108 persone in Italia, legate in vario modo a clan di ’ndrangheta, 30 in Germania, 13 in Belgio, più una serie di perquisizioni e confische anche in Spagna, Portogallo, Francia, Romania e Slovenia, e poi Brasile e Panama.
Eureka vista dagli inquirenti
Oltre ai numeri, rileva la novità del meccanismo di coordinamento europeo.
Infatti, anche se gli arresti sono in maggioranza italiani, Eureka è l’esito di uno sforzo europeo, perché europei sono i fatti contestati agli imputati.
Lo descrivono bene Europol, la polizia di coordinamento europeo, ed Eurojust, l’autorità di coordinamento giudiziario europeo. Ecco cosa racconta al riguardo Eurojust:
«Eurojust ha sostenuto le autorità coinvolte istituendo e finanziando due squadre investigative congiunte. L’agenzia ha inoltre ospitato dieci riunioni di coordinamento e ha istituito un centro di coordinamento per consentire una rapida cooperazione tra le autorità giudiziarie coinvolte nell’action day. Tre casi collegati sono stati aperti presso Eurojust su richiesta delle autorità italiane, tedesche e belghe. Eurojust ha inoltre facilitato la trasmissione e l’esecuzione degli ordini di indagine europei».
Il Progetto di analisi sulla criminalità organizzata italiana di Europol ha fornito pacchetti di intelligence alle unità investigative nazionali coinvolte.
In totale, riporta Europol, sono stati scambiati più di 200 messaggi tra i Paesi coinvolti.
Prima di Eureka
Questa cooperazione ovviamente non nasce dal nulla. Europol ed Eurojust sono in partnership con la Direzione nazionale antimafia nel progetto Empact, azione operativa 2.3, che si occupa principalmente di ’ndrangheta e mafia siciliana, ritenute gruppi criminali ad alto rischio.
Inoltre, l’indagine e la giornata d’azione comune sono state sostenute dalla Rete @ON finanziata dall’Ue (Progetto ISF4@ON) e guidata dalla Direzione Investigativa antimafia italiana (Dia).
Eureka, soprattutto, si basa su di una serie di messaggi decriptati – nei citati pacchetti di intelligence– all’interno delle maxi operazioni Encrochat e SkyEcc, le quali negli ultimi anni hanno fatto emergere, e smantellato, canali di comunicazioni nel sottobosco criminale di mezzo mondo.
Una battaglia europea
Oltre che per le informazioni sulla ’ndrangheta all’estero, Eureka fa scuola perché è il risultato di anni di compromessi e difficoltà nella cooperazione, pratiche e concettuali, sia da parte delle istituzioni europee sia da parte di quelle italiane. Chi scrive ha condotto una ricerca nel 2021 proprio con Eurojust, Europol e le procure italiane.
Da essa emerge che, al netto delle frustrazioni espresse da qualche pubblico ministero o da qualche analista poco attento, non è affatto vero che all’Europa o agli Stati europei importi poco della mafia, e dell’antimafia, italiana.
Anzi, l’attenzione è molto alta, la capacità di adattare le leggi e le procedure nazionali per raggiungere risultati comuni è una priorità.
Antimafia made in Ue
Soprattutto, si sono fatti molti passi avanti, in quei Paesi – pensiamo a Germania e Svizzera – che hanno un problema di infiltrazione mafiosa di origine italiana e matrice ’ndranghetista notevolmente più alto di altri.
Stesso discorso per i Paesi Bassi e il Belgio – di storica presenza mafiosa, siciliana, campana e calabrese – che negli ultimi anni hanno sviluppato squadre di indagine specializzata, squadre investigative europee. Di più: hanno sviluppato processi autonomi alle cellule criminali, all’interno dei propri ordinamenti.
Tutta quest’attenzione europea alle mafie italiane è, va da sé, anche il risultato dell’incessante lavoro delle procure (in particolare, Reggio Calabria prima di tutte, ma anche Milano, Genova, Torino, Catanzaro per dirne alcune) interessate a informare le autorità estere e a collaborare senza pregiudizi.
Tutti i problemi dell’antimafia internazionale
Non ogni cosa funziona, si badi bene, e non sempre la frustrazione passa.
C’è ancora tanto da mettere a punto nei rapporti tra l’Antimafia italiana e quelle europee. Ad esempio, nelle modalità di confisca e in quelle di ricerca congiunta della prova nelle indagini transfrontaliere. E restano problemi nelle normative sulle indagini bancarie in materia di riciclaggio. Per tacere delle difficoltà di allargare le indagini oltre il crimine organizzato e verso la criminalità dei potenti.
La lista è lunga, complice anche un po’ di schizofrenia italiana nel definire i campi di azione di alcune indagini antimafia (con una tendenza ad allargare il concetto di mafia oltre quello compreso e comprensibile all’estero).
Ma ci si lavora costantemente per migliorare almeno i risultati. Ed Eureka, lo ripetiamo, è chiaramente il prodotto di questi sforzi.
Eureka: i dettagli che contano
Eureka offre tantissimi spunti di interesse anche al ricercatore-analista. I giornali locali, moldo più di quelli nazionali, hanno riportato vari dettagli. Le vicende raccontate nell’inchiesta (che riguardano principalmente affiliati e associati ai clan Nirta-Strangio di San Luca e i Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo) toccano il traffico internazionale di cocaina e il riciclaggio di denarotra pizzerie, gelaterie e altre attività commerciali.
Ma in quest’operazione ci sono anche spunti notevoli sulla struttura della ’ndrangheta. Quest’ultima è sì aperta alle collaborazioni, tra clan e con tanti altri gruppi criminali europei e non, soprattutto per la cocaina, ma rimane legata al territorio e alla sua reputazione sul territorio.
Bevilacqua: un cervello in fuga
Altro elemento di interesse è il ritorno di certi “cervelli in fuga”.
Pasquale Bevilacqua, imprenditore ritenuto dagli inquirenti vicino ai clan di Bianco, in provincia di Reggio Calabria, è una figura centrale dell’inchiesta. Cittadino australiano, Bevilacqua è rientrato dall’Australia e da li avrebbe portato, oltre ai soldi, anche “metodi” di arricchimento alle spalle dei calabresi che lui stesso considera potenziali “soldati”. Essi vanno tenuti «molto poveri» per avere sempre manovalanza «da mandare a fare il traffico o per andare in carcere per loro [gli ‘ndranghetisti]». Un vero e proprio manifesto della ‘ndrangheta, il suo.
Bevilacqua ha ottenuto il massimo nel Nuovo Galles del Sud, in Australia. Lì,insieme a moglie e figli, avrebbe attività commerciati di carne, servizi legati all’acqua, ospitalità e una serie di immobili di ingente valore. Inoltre, giocherebbe al casinò, anche per muovere capitali.
Inoltre (e ovviamente) avrebbe legami con presunti ’ndranghetisti australiani e spiega come in Australia si sia abituati a fare affari con chiunque, a prescindere da affiliazioni e alleanze. Dice al riguardo: «Noi in Australia siamo abituati così… ti dico subito … io conoscevo a tizio … la mangiata mia era là … nessuno me l’ha tolta! mai! gli amici miei … sempre!». Tradotto in parole povere: a prescindere dai necessari legami di business, la struttura di mafia (dove, appunto, si ha la “mangiata”) non cambia e gli amici (gruppo di riferimento mafioso) non cambino.
Un’interessante conferma sia dell’importanza dei “ritorni” di personaggi che portano in Calabria ciò che hanno imparato all’estero sia della scissione tra struttura organizzativa e attività criminale che ha sempre caratterizzato la ’ndrangheta.
Quattro chiacchiere su San Luca
Oltre ai commenti di Bevilacqua, altre conversazioni degne di nota vengono da Giuseppe Scriva e Stefano Soriano che commentano il gruppo di Erfurt in Germania (collegato ai clan di San Luca). In particolare, i due parlano di Domenico Giorgi detto Berlusconi per la ricchezza accumulata col narcotraffico. «Pensa da quanto sta questo qua in Germania … infatti non gli hanno fatto proprio niente … quante indagine pipipipi pipipipi … che vuoi hanno fatto un casino, hanno ucciso sei persone». Il riferimento va alla strage di Duisburg – considerata un errore di calcolo che ha dato troppa visibilità ai Sanlucoti – e, al contempo, alla capacità del soggetto, e del gruppo, di non farsi toccare più di tanto dalle azioni di contrasto. Tutto questo accresce la reputazione dei Sanlucoti visti non solo come uomini d’onore di successo ma anche come persone scaltre che eludono i controlli diversificando gli investimenti in Europa.
«Loro sono sempre i vincenti, loro sono tosti come i selvaggi…ma tu ti rendi conto?… poi ne hanno un altro confiscato … qua … in Germania ne hanno quattro ed a Lisbona in Portogallo, uno … hanno nove locali … che cazzo gli devono prendere, questi spendono centomila euro al giorno, minimo … solo dove stiamo andando noi pagano …incassano quindicimila euro al giorno … loro fanno attività … ma questi ormai con le attività pulite guadagnano».
Il modo in cui la ‘ndrangheta e le sue strutture si “raccontano” in Calabria è diverso dalla percezione che se ne ha nel resto d’Europa. Infatti, in Calabria si parla di strategia, reputazione, riconoscimento criminale e sociale. In Europa si parla di capacità manageriali, stupefacenti, movimenti di denaro, porti in cui “entrare”, e corruzione.
Alcuni colleghi criminologi-accademici, non amano il termine “glocale” per definire questa peculiarità organizzativa e narrativa. Ma siamo tutti d’accordo che solo guardando al fenomeno sia nelle dimensioni locali che in quelle globali si possono fare passi avanti.
Già: raccontare (e aspettarsi) solo una ’ndrangheta globalizzata sui mercati del narcotraffico è un errore. Ma lo è anche raccontare (e aspettarsi) la ’ndrangheta come organizzazione altamente ritualizzata e definita da criteri di riconoscimento e reputazione all’estero come al paesello. Queste due anime stanno insieme da tempo. Ed è per questo che di Eureka, probabilmente, parleremo ancora.