La Stampa – Mercoledì 17 Giugno 1992
«Falcone e Borsellino in esilio perché erano nel mirino dei clan»
Voleva uccidere Falcone e Borsellino, la mafia. In quella torrida estate i boss pensavano ad una strage. Programmavano di sterminare anche i familiari dei due magistrati.
Un mese all’isolamento, in carcere con mogli e figli. Con un finale a sorpresa: al ritorno Falcone e Borsellino pagarono di tasca loro il «soggiorno».
Come andò? Lo ricorda lo stesso Paolo Borsellino. «La notizia che la mafia progettava qualcosa contro di noi e dei nostri familiari giunse dalla squadra speciale di agenti carcerari che raccoglieva voci ed umori delle celle. Adesso questa squadra non esiste più. Ricordo che fummo presi, io, Giovanni, sua moglie Francesca, mia moglie e i miei tre figli. In 48 ore ci portarono all’Asinara: in aereo fino ad Alghero, poi a Porto Torres via terra ed infine nell’isola con la motovedetta degli agenti». «Era difficile – prosegue Borsellino – continuare a lavorare. I telefoni funzionavano male e non avevamo con noi le carte. Giovanni era riuscito a portarsi appresso la parte che riguardava l’omicidio Dalla Chiesa. Per me era più difficile perché, per quello che dovevo fare, avrei dovuto portare all’Asinara circa 800 volumi». Durò circa un mese l’«esilio». Un mese trascorso a sollecitare il rientro, «perché era più importante lavorare al maxiprocesso che rischiava di essere vanificato dalla scadenza dei termini di custodia cautelare».
E la storia del pagamento delle spese di soggiorno?
«E’ vero, pagammo – noi e i familiari – diecimila lire al giorno per aver utilizzato la foresteria del carcere, sei stanzette, e in più pagammo i pasti».
Come mai?
«I magistrati fuori sede hanno diritto alla missione. Ma quella era una missione particolare. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, allora avevamo cose più importanti da fare».
Ricorda nel suo articolo, il giudice Caponnetto, che «Giovanni e Paolo amavano raccontare questo particolare sorridendo e quasi scherzandoci sopra: ma so che quella grossolana fiscalità dell’Amministrazione li aveva sorpresi ed amareggiati».
«Ma altre e ben più gravi amarezze attendevano Giovanni». L’allusione è rivolta alla «velenosa campagna di stampa, ben congegnata, condotta sotto la bandiera del garantismo». E’ un atto d’accusa implacabile, quello di Caponnetto.
Non risparmia politici, come Marco Pannella ed Ombretta Fumagalli Camili, alla quale, tra l’altro, rimprovera di aver definito il maxiprocesso un «contenitore utile soltanto ad appagare le esigenze sceniche di qualche magistrato».
Non risparmia la stampa, il Giornale di Sicilia e il Giornale di Montanelli. Definisce «forsennati» e «denigratori» alcuni articoli. Un esempio? Lino Iannuzzi «osava scrivere» di Falcone e De Gennaro «sono i maggiori responsabili della débàcle dello Stato di fronte alla mafia…».
E non risparmia il palazzo di Giustizia: «Non erano molti quelli che amavano Giovanni». Caponnetto racconta la «delegittimazione» di Falcone, passo dopo passo: la bocciatura al posto di consigliere istruttore, quella ad Alto commissario, la «guerra» della prima sezione della Cassazione, la negazione del «teorema Buscetta», lo smembramento dei processi di mafia. E la partenza da Palermo.
Decisa, spiega Caponnetto, perché, da procuratore aggiunto, Giovanni «venne a trovarsi in una situazione difficile, nel senso che – a quanto mi confidava – non gli veniva data la possibilità di muoversi e di operare secondo le sue attitudini ed abitudini». «Si sentiva – scrive Caponnetto – come un leone in gabbia». Francesco La Licata Nell’estate del 1985 per un mese all’Asinara con mogli e figli E al ritorno pagarono il «soggiorno»