GIOVANNI BRUSCA e l’uccisione del piccolo GIUSEPPE DI MATTEO

 

COMO, Di Matteo assale Brusca: “Animale ti stacco la testa Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta. 

 

“Stu figghiu e’ buttana”, grida Santino Di Matteo contro Giovanni Brusca. Poi afferra il microfono che gli è davanti, lo strappa dal supporto e glielo lancia violentemente addosso. L’ira sale, Di Matteo si alza e gli si scaglia contro. Tenta di afferrarlo, ma è bloccato dagli agenti di polizia.  
I due sono l’uno di fronte all’altro. A sinistra della corte Santino Di Matteo, pentito di vecchia data, uno dei primi ad abbandonare i corleonesi di Totò Riina. A destra Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, cresciuto anche lui sotto l’ala protettiva di Totò u’ curtu, anche lui controverso collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, che si è macchiato di uno dei crimini più terribili della storia di Cosa nostra: lo scioglimento nell’acido di un bambino di dodici anni, con la sola colpa di essere figlio di “uno che aveva cantato”. Quel bambino, morto per strangolamento e poi gettato nel liquido corrosivo nel gennaio 1996 si chiamava Giuseppe Di Matteo, e suo padre è proprio Santino. 
Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta. 
“Giocava con mio figlio”, urla Di Matteo
. E ricorda i giorni della loro carriera nelle fila Cosa Nostra.
Quando Brusca andava a casa sua e portava il figlio nel giardino di casa, per divertirlo.
Le invettive diventano sempre più pesanti, la rabbia cresce. “Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale”, fa Di Matteo. E poi: “Ci dovrei staccare la testa, uno che ha ucciso una donna incinta e un bambino”. Il tono diventa di sfida. “Perché non lo mettiamo a un’incrocio.
All’ultimo magari, presidente, ci mette tutti e due in quella cella là…”. Brusca è impassibile, dice che Di Matteo è accecato dalla vendetta e che dice falsità. Santino non regge più, scoppia.
Il presidente Pietro Falcone, dopo l’aggressione, sospende l’udienza. Che riprende dopo pochi minuti.  “Faccia uno sforzo e si calmi”, dice il presidente rivolto a Santino Di Matteo.  
Ma non c’è verso. Gli insulti continuano. “Lei è padre di figli”, dice Di Matteo rivolto al giudice.
E aggiunge, di nuovo: “Ci dovrei staccare la testa a quello là”. Falcone cerca di mettere ordine: “Lei ha avviato una collaborazione con la giustizia”. “Garantisco che continuerò – risponde subito Di Matteo – ma almeno fatemelo guardare”. Brusca è ormai circondato da un cordone di poliziotti.
Le parole per lui sono ferocissime: “Solo questo ha fatto nella vita.
La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere.
Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo. Ha ucciso solo una donna incinta, solo perchè poteva sapere qualche cosa”.  
Odio, solo odio, fra i due. Appena placato il 20 maggio 1996 dalla notizia dell’arresto di Brusca. “Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda”, disse in lacrime Santino Di Matteo.
Più volte i due si sono incontrati nelle aule di tribunale. E sempre lo scontro ha avuto toni drammatici.  Giovanni Brusca ha sempre ammesso l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Del pentimento, quello morale, per il gesto compiuto, appena l’ombra, nelle sue parole: “Se avessi avuto un momento in più di riflessione, più calma per poter pensare, come ho fatto in altri crimini, forse ci sarebbe stata una speranza su mille, su un milione, che il bambino fosse vivo. Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”.  (15 settembre 1998) La Repubblica


 

Santino Di Matteo: “Mio figlio ucciso nell’acido”


GIOVANNI BRUSCA :Liberati dal canuzzu” 

 

E’ prigioniero da settecentosettantanove giorni. E’ una larva, non pesa neanche trenta chili. Un uomo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: <>. Ci sono altri due uomini che lo tengono. Per le braccia e per le gambe. E poi il piccolo Giuseppe se ne va. Un mese e mezzo dopo, un mafioso si presenta davanti a un sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, che gli chiede: <>. Giuseppe Monticciolo risponde: <>. Comincia dalla fine Dall’ultimo. Comincia da Giuseppe Di Matteo, undici anni, il figlio di Santino Mezzanasca, uno dei sicari di Capaci. Il bambino lo rapiscono per far ritrattare il padre pentito. Mezzanasca non ritratta e suo figlio sparisce in un bidone di acido muriatico, i suoi resti sotterrati in una fossa dietro le montagne di Palermo. Giuseppe Di Matteo viene rapito il 23 novembre 1993 e ucciso l’11 gennaio 1996.
Lo prendono al maneggio di Villabate, i macellai di Brancaccio. Lo legano e lo portano dopo la piana di Buonfornello, a Lascari. Poi lo consegnano a Giovanni Brusca, quello che a San Giuseppe Jato chiamano ù verru, il maiale. Lo nascondono nei bagagliai delle automobili, lo spostano da un covo all’altro per mezza Sicilia. A Misilmeri, vicino Palermo. A Villarosa, alle porte di Enna. In contrada Giambascio, alle spalle di San Giuseppe Jato. sempre legato e bendato, sempre incatenato. Giuseppe non piange mai. Non chiede mai niente ai suoi carcerieri. Per due anni lo tengono prigioniero. E aspettano un segnale da quell’ “infamone” di suo padre. A Giuseppe fanno scrivere lettere al nonno. Vogliono spingere Mezzanasca a rimangiarsi tutto. Passano le settimane, non succede nulla. E’ la sera dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca guarda la tv, è l’ora del telegiornale. Sente una notizia: < Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella>>.  Giuseppe Monticciolo è lì, accanto a Brusca, che ha uno scatto d’ira. Poi ù verru gli ordina: <>. Uccidi il cagnolino. Vincenzo Chiodo è quello che gli sbatte la faccia al muro e lo solleva. Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo lo tengono per le braccia e per le gambe. E’ Chiodo che stringe la corda. <> confessa Monticciolo. Gli chiede il magistrato: <>. Monticciolo abbassa gli occhi: <<no, niente,=”” non=”” era=”” più=”” un=”” bambino=”” come=”” tutti=”” gli=”” altri,=”” debole,=”” debole,…=””>>. I bidoni di acido sono già pronti. Dopo un pò si vedono solo i piedini di Giuseppe. I tre mafiosi si baciano. Racconterà qualche tempo dopo Brusca: < in una media di tre ore. Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, lo scheletro del volto si deforma. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare nel torrente. Ai palermitani che ci sfottevano perché eravamo contadini, rozzi, noi rispondevamo: e voi allora, bella acqua bevete a Palermo…>>. L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga. Quella che disseta tutta Palermo.( Attilio Bolzoni -PAROLE D’ONORE- )


 «Liberatevi del cagnolino», così Brusca ordinò la morte del piccolo Di Matteo  

 

  L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. Alla tv danno notizia della condanna all’ergastolo del boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo». Brusca va su tutte le furie e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu» ormai è un adolescente. Gli sono spuntati i primi peli sul viso, la prima barba. Anche i capelli sono cresciuti. Sono lunghissimi: nessuno glieli ha mai tagliati. Pure dentro è cambiato. Lo hanno fatto cambiare. Ormai è convinto che sia solo colpa del padre. A forza di ripetergli che, se è in quelle condizioni, è solo perché il padre continua a parlare con gli sbirri, se ne è convinto anche lui. E forse comincia a odiarlo. Dell’ultimo periodo di prigionia del ragazzino a Giambascio sappiamo quasi tutto. Di Giuseppe si occupano Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e il solito Monticciolo. Tutti e tre mi racconteranno la loro «verità». Forse è il momento in cui il piccolo ostaggio viene trattato con più umanità. Anche perché, paradossalmente, Giuseppe adesso si trova in una prigione vera ed è più semplice averci a che fare. Una vera e propria cella con una porta in ferro e lo spioncino. Come quella di un carcere di alta sicurezza, anche se questa è sottoterra e non ha una finestra. L’unica differenza con un detenuto è che Giuseppe non fa l’ora d’aria e non fa i colloqui con i familiari. E per lui non è certo poco. Il suo solo contatto «umano» è con Enzo Brusca che lì trascorre un periodo di latitanza. Il ragazzino è appassionato di equitazione ed è tifoso della Ferrari ed Enzo gli procura riviste che trattano di cavalli e giornali sportivi. Qualche volta gli porta anche i quotidiani e, se ci sono articoli che trattano del padre, li ritaglia e li butta via per non farglieli leggere. Un piccolo accorgimento per evitare di scoraggiarlo, di deprimerlo ulteriormente. Ogni tanto a colazione gli dà il latte che Giuseppe, fino ad allora, non aveva più bevuto e, periodicamente, gli taglia i capelli con una macchinetta elettrica. Non escludo che Enzo si fosse in qualche modo affezionato al piccolo ostaggio. Una sorta di sindrome di Stoccolma al contrario. La situazione è senza sbocchi, però. Non si vedono vie d’uscita. Qualcuno dei carcerieri del piccolo Giuseppe non è contrario a rilasciare l’ostaggio, ma farlo sarebbe una sconfitta umiliante per tutta Cosa nostra. Hanno tenuto segregato per due anni un ragazzino, coinvolgendo uomini d’onore di mezza Sicilia, con lo scopo, ufficiale, di far ritrattare il padre e poi, senza avere ottenuto nulla, lo rimettono in libertà. Significherebbe perdere la faccia davanti al «popolo» mafioso. Anche Giovanni Brusca è, in qualche modo, prigioniero in questa vicenda. Prigioniero del suo stesso ruolo. Nel corso della mia requisitoria al processo ho sostenuto che se il ragazzo è rimasto vivo più di due anni, è proprio perché lo aveva in mano Giovanni Brusca che non trovava il coraggio di far scorrere i titoli di coda di questo film dell’orrore, dal finale scontato. «Se il piccolo Giuseppe fosse stato custodito da un altro capomafia» ho affermato «sarebbe stato ucciso molto tempo prima.» Dalle gabbie dell’aula bunker di Pagliarelli e dalle postazioni di videoconferenza dove si trovavano una sessantina di boss di varie famiglie si sono levate urla, proteste e persino insulti nei miei confronti. Quasi tutti si erano avvalsi della facoltà di non rispondere o avevano negato il loro coinvolgimento nella vicenda. Avevano incassato senza batter ciglio le accuse di aver eseguito materialmente una ventina di altri omicidi per cui erano anche imputati in quel processo, ma non sopportavano di essere additati come potenziali boia del ragazzino. Sono però convinto che la mia ricostruzione fosse corretta. In fondo Giuseppe muore per uno scatto d’ira, per una scusa, per una giustificazione a suo modo morale che Brusca evidentemente cercava da tempo.

LA DECISIONE DI UCCIDERLO  L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Tutti maschi. Come d’altronde tutti i protagonisti di questa storia. Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. C’è la televisione accesa e il Tg3 delle 14.25, in coda, dà l’ultima notizia appena pervenuta in redazione: «La Corte di Assise di Palermo ha condannato all’ergastolo il boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo». Brusca va su tutte le furie. Sbatte il pugno sul tavolo e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu». Liberati del cagnolino. Terrificante. E dire che Santino Di Matteo non c’entra nulla con la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio Salvo. Il padre di Giuseppe non sapeva quasi niente di quel delitto. L’«infame» che ha incastrato Giovanni in quel processo è Gioacchino La Barbera. Ma il capomafia di San Giuseppe Jato, a quel punto, dopo due anni e due mesi, aveva solo bisogno di una scusa con se stesso, di un movente qualsiasi. Il ragazzino si trova nel bunker; in quel momento è sotto la vigilanza di Chiodo. Monticciolo va a cercare Enzo Brusca che si è temporaneamente rifugiato a Partinico. Enzo non se la sente di ammazzare Giuseppe e chiede a Monticciolo di tornare dal fratello. Per cercare di convincerlo a ripensarci. Passano un paio d’ore. Monticciolo arriva a Giambascio. Con sé ha due bidoni da venti litri pieni di acido nitrico. Enzo Brusca e Chiodo, che sono già sul posto, lo guardano interrogativi. «Giuvanni dissi ca nun si ‘nni parla: s’avi a fari ca s’avi a fari!» Nessuna discussione, bisogna farlo – dice secco il genero di Giuseppe Agrigento. In realtà, Monticciolo non è mai tornato da Giovanni Brusca, non ha nemmeno provato a fargli cambiare idea. Teme che il boss di San Giuseppe Jato possa ripensarci. È stanco di avere sulle spalle il peso di quel maledetto sequestro. Dopo un anno e mezzo non ce la fa più e vuole farla finita. È ora di cena. I tre mettono sulla griglia alcune bistecche di manzo: mangiano e, poi, si preparano. Chiodo aziona il telecomando. Portano giù un grosso fusto di lamiera e i due bidoni con l’acido.

IN TRE NELLA STANZA DEGLI ORRORI Tutti e tre entrano nella stanza di Giuseppe. Lo fanno girare, faccia al muro. Da dietro gli mettono un cappio al collo. Il ragazzino non ha il tempo di muoversi. È impietrito. Enzo Brusca e Monticciolo lo tengono per le spalle mentre Chiodo tira la corda. Giuseppe non fa alcuna resistenza, non ne ha nemmeno la forza. Si abbandona, quasi si scioglie: «come il burro» diranno i suoi boia.

«Si to patri nun faciva lu curnutu, t’avia a taliari megghiu di l’occhi mii», se tuo padre non avesse tradito, avrei avuto il dovere di proteggerti meglio dei miei occhi, osserva malinconico Enzo Brusca, mentre Monticciolo, facendo leva con il piede, dà gli ultimi strattoni alla corda con il piccolo Giuseppe ormai a terra.

Svestono il cadavere ancora caldo e lo infilano nel fusto. Versano l’acido, un liquido biancastro. Enzo Brusca e Monticciolo baciano sulle guance Chiodo: «Come per farmi gli auguri di Natale». È il suo primo omicidio, il suo battesimo della morte. E che battesimo! «’Sta cosa farà cchiù dannu di la strage di Capaci» commenta ancora il loquace Enzo Brusca.

Poi tutti e tre tacciono e, senza dire nessun’altra parola, vanno a dormire. In silenzio, al piano superiore. Salgono con quella specie di ascensore e richiudono la piattaforma. Alle cinque del mattino Monticciolo va via: ha impegni di lavoro. Ora finalmente può dedicarsi anima e corpo alla sua attività di imprenditore edile.

Vincenzo Chiodo completa l’opera. Usa ancora il telecomando per scendere ma giù l’aria è irrespirabile. Le esalazioni emesse dal corpo ormai quasi corroso dall’acido non gli permettono di fermarsi. Deve risalire, aprire le finestre della cucina e aspettare un po’, con la piattaforma abbassata.

Vede che dal fusto spunta ancora una gamba del ragazzino e, appena i fumi si diradano, scende di sotto e mescola con un bastone. Per accelerare i tempi. Nel frattempo porta su tutto il resto: pantaloni, magliette, giornali, bigliettini, il materasso. In aperta campagna fa un falò e comincia a bruciare tutto.

Il cadavere è completamente disciolto, adesso non esiste più. Nel liquido ormai scuro, galleggia solo la corda. Sarcasticamente Enzo Brusca la offre a Chiodo: «To’, tienitela come trofeo!» e poi la butta nel fuoco. Riversano l’acido nel terreno e bruciano tutto. Noi troveremo solo la carcassa di ferro del materasso a molle.

«Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte» sono le testuali parole che pronuncerà Chiodo nell’aula bunker di Mestre davanti alle facce impietrite dei giudici popolari della Corte di Assise che avevano appena sentito il suo racconto, quel racconto dell’orrore. Giusto l’indomani mattina, il 12 gennaio 1996, faremo quella vana irruzione nel covo di Brusca a fondo Patellaro e, ancora oggi, mi porto il rimorso di quel fallimento. Il dubbio è che se fossimo intervenuti prima avremmo potuto arrestare Brusca e forse salvare il ragazzino.

Probabilmente è solo per tacitare la mia coscienza che ho cercato di convincermi che, comunque, anche se avessimo preso Brusca in quel momento, non avremmo impedito l’assassinio del piccolo Giuseppe. Monticciolo lo avrebbe ucciso ugualmente: era tanto determinato a liberarsi di «quel cagnolino» che non era tornato da Giovanni Brusca a chiedergli conferma dell’ordine, così come gli aveva chiesto Enzo. Ma forse è solo una mia congettura per provare ad attenuare il rimpianto di quel ritardato blitz a Borgo Molara.

La drammatica vicenda di Giuseppe Di Matteo mi ha colpito in maniera particolare. Nel corso della mia esperienza professionale ho visto tanti morti ammazzati, ho assistito a decine e decine di autopsie e perfino a qualche raccapricciante riesumazione di cadavere, ho ascoltato centinaia e centinaia di racconti di violenze terribili, di omicidi efferati, di corpi squagliati nell’acido, di orrende mutilazioni e di quanto di più atroce possa commettere la bestia umana. E non mi sono mai tirato indietro, tranne che in un’occasione. Da alcune ore, nel carcere di Monza, stavo interrogando Enzo Brusca sul sequestro di Giuseppe. Avevamo passato in rassegna tutti i covi, tutti gli spostamenti, tutti i carcerieri e le persone comunque coinvolte. Eravamo quasi alla fine: «Abbiamo mangiato e abbiamo preso il telecomando per scendere di sotto. I bidoni con l’acido…».

A quel punto lo avevo bloccato: «Senta Brusca, ho già sentito questa storia tre volte. Da Monticciolo, da Chiodo e, de relato, da suo fratello Giovanni. La dovrò sentire altre quattro volte in dibattimento. Lei ha letto l’ordinanza di custodia cautelare che le è stata notificata. Mi dica solo una cosa: ci sono grandi differenze rispetto a quello che c’è scritto lì?». «No, solo qualche dettaglio.» «E allora mi risparmi il resto della storia. Lo racconterà direttamente in Corte di Assise.» Enzo Brusca ci era rimasto male. Forse voleva alleggerirsi la coscienza ripercorrendo quelle ore terribili. Io certamente ero venuto meno ai miei doveri di magistrato inquirente, ma non ce la facevo più a sentire quel racconto.

Le trascrizioni di quell’interrogatorio interrotto «sul più bello» saranno poi regolarmente depositate a disposizione dei difensori degli imputati. Gli avvocati dei boss capiranno il mio disagio. Anche per loro non era facile confrontarsi con quella vicenda. Non erano certamente teneri con il pubblico ministero e si aggrappavano a qualunque cavillo giuridico e processuale, ma nessuno di loro solleverà mai eccezioni su quel mio comportamento. In fondo, prima che professionisti, siamo tutti uomini

Il sequestro del bambino, i silenzi, le faide fra i grandi boss

I familiari del piccolo Di Matteo fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso Alfonso Sabella e il collega Peppe Salvo a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento

La collaborazione dei Di Matteo, Santino compreso, è praticamente nulla. Si viene solo genericamente a conoscenza di qualche altro biglietto e messaggio dei rapitori, ma sempre per sommi capi e sempre a distanza di giorni dalla consegna.

Il destinatario dei messaggi è solo il nonno del ragazzino, Giuseppe Di Matteo senior chiamato Piddu, anche lui uomo d’onore di Altofonte. L’emissario di Brusca è un altro soldato della stessa famiglia, un certo Pietro Romeo, solo omonimo del rapinatore di Brancaccio.

Romeo è il personaggio giusto per mantenere i contatti. È un uomo d’onore, è legato a Giovanni Brusca ed è sufficientemente amico di Santino Di Matteo che, infatti, lo aveva «scansato» dalle sue dichiarazioni accusatorie e non lo aveva indicato tra i mafiosi di Altofonte; soprattutto Santino mezzanasca non aveva raccontato che proprio a casa di Romeo era stato occultato l’esplosivo utilizzato a Capaci la sera prima che lo collocassero sotto l’autostrada.

Nessuno dei Di Matteo ci ha mai parlato di Romeo, di cui apprenderemo l’esistenza solo a fine 1996, dopo la collaborazione di Brusca. Non faremo nemmeno in tempo ad arrestarlo perché, mentre stiamo raccogliendo i necessari riscontri, Romeo scompare misteriosamente, vittima di lupara bianca. Il periodo è proprio quello in cui, come accerteremo solo nel settembre del 1997, Santino Di Matteo, insieme a Di Maggio e La Barbera, è tornato in Sicilia a commettere delitti. Inutile dire che ho sempre sospettato di lui come responsabile della scomparsa di Romeo, ma, a quel punto, all’inizio del 1998, non seguo più le indagini sul mandamento di San Giuseppe Jato.

Senza nemmeno un nome su cui lavorare, le ricerche di Dia, polizia e carabinieri non portano a risultati concreti e del resto, anche se avessimo ottenuto l’arresto dei fratelli Vitale, ben poco avremmo potuto fare per individuare la prigione del piccolo Giuseppe.

I suoi familiari, peraltro, fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso me e il mio collega e amico Peppe Salvo, che mi stava dando una mano nella gestione di quel dibattimento, a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento. A vantaggio degli assassini del loro figlio o nipote.

Il nonno del ragazzino riesce a contattare, tramite Benedetto Spera, capomandamento latitante di Belmonte Mezzagno, lo stesso Bernardo Provenzano chiedendogli di intercedere presso Bagarella e Brusca per ottenere il rilascio di Giuseppe: la richiesta del vecchio capomafia di Corleone, ovviamente, cade nel vuoto.

Dal canto suo Santino Di Matteo la bocca «se l’è tappata». Per alcuni mesi si rifiuta di rendere interrogatori e di partecipare ai processi. All’improvviso, addirittura, sparisce misteriosamente dalla località segreta dov’era sotto protezione allo scopo di provare a rintracciare il ragazzino. Ma è tutto inutile, Giuseppe, come era prevedibile, malgrado il «silenzio» del padre non viene rilasciato.

Santino, però, è più tranquillo e torna persino a deporre nelle aule di giustizia. Ha capito che il figlio è in mano a Giovanni Brusca e conta sul fatto che il boss di San Giuseppe Jato, che conosce bene il bambino, non avrà il coraggio di torcergli un capello. Ma purtroppo si sbaglia.

TRASFERITO PIÙ VOLTE TRA AGRIGENTO, TRAPANI E PALERMO  Dopo la lunga parentesi agrigentina il piccolo Di Matteo, alla fine del periodo estivo del 1994, viene riconsegnato dal dottore di Canicattì a Brusca che adesso ha un luogo dove tenere prigioniero Giuseppe.

Lo scambio avviene sempre allo svincolo di Ponte Cinque Archi e sempre tra uomini con il passamontagna. Il ragazzino è nel cofano di una station wagon, legato e incappucciato, come al solito. Insieme a Brusca stavolta, c’è Giuseppe Monticciolo che, da quel momento in poi, si occuperà della gestione dell’ostaggio.

Giuseppe Di Matteo viene condotto in una masseria nelle campagne di Gangi, un suggestivo borgo madonita a più di mille metri sul livello del mare, e, per qualche ora, assicurato a un anello di ferro infisso nel muro.

La masseria è di Cataldo Franco, un uomo d’onore del posto, che, da qualche anno, l’ha adibita a deposito di olive. In quella specie di palmento Monticciolo aveva già fatto realizzare un bagno e una doccia e aveva fatto murare nel pavimento i piedi di una vecchia branda. Giuseppe resta nelle Madonie per qualche mese, fino a ottobre quando ‘U zu Cataldu, giustamente, ha necessità del locale perché deve cominciare la raccolta delle olive.

Brusca è ancora una volta in difficoltà. Si lamenta di essere stato lasciato solo a gestire il sequestro. Non ha tutti i torti e Matteo Messina Denaro lo autorizza a rivolgersi agli uomini d’onore del Trapanese, il suo territorio.

Da Gangi, Giuseppe viene così portato in una villetta a Castellammare del Golfo e rinchiuso in un bagno dove c’è appena lo spazio per appoggiare a terra un materasso. Nella porta gli uomini d’onore hanno realizzato uno sportellino in basso. Come una gattaiola. E da lì gli passano il cibo.

Tra i carcerieri che si alternano in quel periodo ci sono un paio di latitanti che avevano frequentato la casa dei Di Matteo. Temono che Giuseppe possa riconoscere le loro voci e per questo non gli parlano mai e comunicano con il piccolo ostaggio solo per mezzo di bigliettini scritti. Anche questi passati dalla gattaiola. Peppe Ferro, capofamiglia di Castellammare, viene però a conoscenza del fatto che Giuseppe è nella sua zona e va su tutte le furie. Non ne vuole sapere niente di quella storia: il ragazzino va portato via di là.

Sono molti in Cosa nostra a non approvare quell’operazione. Lo stesso Cataldo Franco si era messo a disposizione di Brusca solo a titolo personale e non aveva nemmeno avvisato, violando le regole dell’associazione mafiosa, Mico Farinella, reggente del suo mandamento: il padre Peppino sicuramente non sarebbe stato d’accordo.

Monticciolo è costretto allora a portar via l’ostaggio da Castellammare. Alla vigilia di Natale del 1994, Giuseppe, come un pacco postale, viene «appoggiato», per pochi giorni, nella casa di contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, dove non è stato ancora costruito il bunker sotterraneo. Dopo le feste il ragazzino viene trasferito ancora. Sempre legato e incappucciato. Sempre trasportato nel cofano di una macchina. Peggio di un cane.

Fino a Pasqua del 1995 il figlio di Mezzanasca viene tenuto nel magazzino di un limoneto, a Campobello di Mazara. Un locale zeppo di casse, con una stanzetta e un séparé dove è stata ricavata una sorta di latrina.

In zona c’è un certo movimento di sbirri. E allora un’altra corda, un altro cappuccio, un altro cofano di macchina, un altro calvario. Fino a Custonaci, alle pendici di monte Erice, in una contrada denominata Purgatorio. Ma che peccati aveva da espiare il piccolo Giuseppe?

Lo spostano sempre durante le feste, quando i posti di blocco sono più rari. L’ennesimo trasferimento del ragazzino avviene il 14 agosto, alla vigilia dell’Assunta. È il suo ultimo viaggio. Giuseppe viene riportato a Giambascio dove, ormai, i solerti uomini di Giovanni Brusca hanno finito di realizzare il bunker sotterraneo con l’ascensore, la piattaforma «magica». Il ragazzino è ormai una sorta di larva umana. Ha perso peso e forze. Non ha mai più visto la luce del sole. Non ha più respirato all’aria aperta. Nemmeno per un istante. Non oppone più alcuna resistenza. Da mesi si lascia trasportare da un posto all’altro. Si lascia legare e slegare i polsi. Si lascia incappucciare e agganciare alla catena.

Quel casolare dell’orrore dove si nascondevano armi e si uccidevano bambini 

Giuseppe Monticciolo costruisce un bunker a San Giuseppe Jato, in località Giambascio. Un casolare all’apparenza dismesso. Al suo interno, sottoterra gli investigatori trovano un arsenale militare contenente armi di tutti i tipi, dai mitra ai lanciamissili. E poi ancora esplosivo, pistole e lupare. Infine, due camere della morte: quella dove è stato tenuto prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo e una piccola cella in cui è stato ucciso Un secondo incontro si verifica poco tempo dopo, quando decide di collaborare Giuseppe Monticciolo, personaggio chiave della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato.

Monticciolo è un imprenditore edile di paese: camicia di seta e scarpe sporche di calce. Gira in Mercedes e maneggia soldi sporchi. È il genero di uno dei killer di Capaci, Giuseppe Agrigento, capofamiglia di San Cipirello, di cui ha sposato la figlia Laura. Traffica con calcestruzzo e mattoni e nel tempo libero fa il sicario per conto di Giovanni Brusca. Tony Calvaruso ce lo indica come l’alter ego del «padrino». Lo arrestiamo il 20 febbraio del 1996.

Prima ancora di arrivare in carcere Monticciolo decide di collaborare: non ci pensa due volte a tradire il suo capo. E ci dà subito la dritta giusta. «I fratelli Brusca» ci dice «si appoggiano a casa di un certo Baldinucci, a Borgetto.»

La caccia continua. La Dia si precipita. Nella casa di Borgetto, a pochi chilometri da Palermo, manchiamo i due fratelli per un soffio. Trenta minuti prima, li avremmo trovati lì, tutti e due insieme, Giovanni ed Enzo, il fratello minore. Ma, ancora una volta, ci beffano. Quando entriamo nella casa se ne sono appena andati, senza lasciare traccia. Sono fatti così, gli uomini d’onore: quando si tratta di sbirri e magistrati, è come se ne sentissero l’odore a distanza; una sorta di sesto senso, il fiuto animale di chi è abituato a stare perennemente sul chi va là, sempre pronto a tagliare la corda.

È questo il mio secondo incontro ravvicinato con il boia di Capaci, il mio secondo buco nell’acqua. Ma intanto intorno al boss è sempre più terra bruciata. Appoggi e protezioni, via via, vengono meno. Ormai si sente braccato, accerchiato, assediato. Con il fiato sul collo.

Una mano a catturarlo ce la può dare proprio questo Monticciolo. La sua dritta si è dimostrata fondata. Potrei dire di lui tutto il male possibile. Giuseppe Monticciolo è colui che ha svolto i lavori più sporchi per conto di Giovanni Brusca, compresa la gestione dell’ultimo anno di prigionia di Giuseppe Di Matteo. Se ne è occupato lui, in modo quasi esclusivo. Procurare i vivandieri, spostare il ragazzino da un covo all’altro, organizzare i turni di guardia. È Monticciolo che costruisce un sofisticatissimo bunker a San Giuseppe Jato, in località Giambascio, che sarà l’ultima prigione del piccolo ostaggio.

È lui che rimedia gli escavatori, le ruspe, i mattoni, il cemento. È lui che dirige i lavori. Come imprenditore edile, infatti, non ha difficoltà a procurarsi uomini e mezzi. È l’unico del gruppo che può muoversi liberamente: non ha precedenti penali, mentre i fratelli Brusca sono latitanti.

Personaggio di grande spessore criminale e di animo particolarmente feroce. Ambiziosissimo e dotato di ottime protezioni grazie alla parentela con gli Agrigento. Nella graduatoria del potere a San Giuseppe Jato è il numero due, viene addirittura prima di Enzo Brusca. Ma per noi è un soggetto praticamente sconosciuto, almeno prima delle rivelazioni di Tony Calvaruso.

È basso, scurissimo in viso, occhi neri, vivaci e penetranti. Occhi che ti mettono in difficoltà. Una volta arrestato sceglie la collaborazione e manifesta un odio esagerato nei confronti di Giovanni Brusca. Una rivalità covata a lungo. Giuseppe Monticciolo si ritiene superiore dal punto di vista criminale e non sopporta di essere l’eterno secondo.

Alcuni giorni dopo la sua collaborazione si «pente» anche Vincenzo Chiodo, il custode di Giambascio. Entrambi ci parlano dei terribili segreti che si nascondono in quel posto. E in una nebbiosa mattina di fine febbraio facciamo l’incursione e ci troviamo di colpo dentro un’agghiacciante casa degli orrori.

Un anonimo casolare di campagna che nasconde un rifugio sotterraneo degno di James Bond. Basta azionare un telecomando e ti ritrovi dritto dritto nelle stanze della morte. Ma stavolta non è un film. È il bunker di Giambascio, contrada di campagna vicina a San Giuseppe Jato. Colossale armeria e «macelleria» personale di Giovanni Brusca. Qui troviamo il più grosso quantitativo di armi mai scoperto e sequestrato in Italia. Le riprese video, effettuate dalla Dia, finiscono su tutti i telegiornali.

UN ARSENALE PER FARE LA GUERRA ALLO STATO Quando, oggi, sento parlare di arsenali sequestrati qua e là a qualche clan criminale, e sento che si tratta magari di una decina di pistole e di un paio di fucili, penso a Giambascio e mi viene da sorridere!

C’è un terreno incolto, con una casa di campagna uguale a mille altre, per metà abusiva, quasi in stato di abbandono. Ma dentro, la scena cambia: grazie a un telecomando, una parte del pavimento della lurida cucina si abbassa. E tramite un pistone idraulico azionato da una centralina elettrica, si accede a un piano sotterraneo segreto. Una tecnologia straordinaria. La piattaforma mobile è costituita da quattro mattonelle, un quadrato perfettamente mimetizzato dalle fughe del pavimento. Insospettabile. Sembra la casa di Diabolik. Ci si mette sopra, si preme il tasto di un radiocomando e la piattaforma si abbassa.

Scende giù, come un ascensore. Sotto ci sono due stanzette e un disimpegno. Scavando da lì si accede a un grosso tubo d’acciaio interrato, e dal tubo, procedendo carponi, si arriva a una cisterna sotterranea dove è nascosto l’arsenale.

Gli agenti che si calano non credono ai loro occhi. Continuano a estrarre dalle viscere della terra fucili e pistole, bazooka e munizioni. Una serie di strumenti di morte che non finisce mai. Se li passano di mano in mano. Sembra il magazzino di una fabbrica bellica. Nel tubo può entrare una persona per volta. Il dirigente della Dia Nino Cufalo e il capitano dei carabinieri Gigi Bruno, tutti sporchi di fango, entrano ed escono a turno da quel buco. Increduli, esterrefatti.

La flebile luce delle torce elettriche illumina una sfilza di armi lunghe e corte: più di quattrocento pistole di ogni tipo e calibro, svariate decine di fucili a pompa e semiautomatici, baionette e mitra. Ci sono alcuni pezzi rari, da collezione: come una Desert eagle, una costosissima pistola americana. C’è un fucile Thompson con il caricatore circolare, come quello dei film sui ruggenti anni Venti di Chicago. A parte qualche vecchia lupara arrugginita, sono quasi tutte armi in ottimo stato.

Verso sera, dal fondo della cisterna, spuntano anche gli Ak 47, i micidiali kalashnikov. Centinaia. Uno dopo l’altro. Vengono messi tutti in fila, ma, per quanti sono, facciamo fatica a contarli.

E alla fine si tira fuori qualcosa di più ingombrante: alcuni lanciamissili simili a siluri. Dieci Rpg 18 di produzione sovietica: schierati lì, allineati sul terreno, sono mostruosi. Nessuno di noi ne ha mai visti prima. Fanno veramente paura. Sono i terribili «martelli di Allah», i bazooka terra-aria usati dai mujaheddin afghani per abbattere proprio gli elicotteri di Mosca, nella guerra contro l’Unione Sovietica.

Ci sono anche due Rpg 7. A differenza dell’Rpg 18, che è un lanciamissili monouso, l’Rpg 7 è un lanciagranate riutilizzabile. Può impiegare diversi tipi di munizioni, diverse cariche. Missili nelle mani di Cosa nostra. Un acquisto di Giovanni Brusca nel 1992: una partita di armi comprata da un commerciante italo-svizzero che poi abbiamo arrestato. Sono gli stessi bazooka con cui sono state distrutte le famose statue dei Buddha, nella Valle del Bamiyan, in Afghanistan. Con queste armi, insomma, si può fare la guerra.

Troviamo anche le relative munizioni: decine e decine di granate con cariche supplementari di lancio per incrementarne la potenzialità offensiva. E non poteva mancare l’esplosivo. Fusti di vario tipo: semtex, plastico, tritolo. Esplosivo in panetti o in polvere come il detersivo per lavatrice.

Ci vogliono molte ore prima di svuotare completamente quella cisterna. Cala la notte, si monta il gruppo elettrogeno e si accendono fari e riflettori. Sembra il set d’un film. Un film di guerra. E di guerra si tratta, la guerra di Cosa nostra contro lo Stato.

Come si giustifica infatti questo arsenale, se non in una logica di scontro militare? Un missile di questi può sventrare un’auto blindata, può colpire un aereo in fase di decollo o atterraggio; può fare decine, centinaia di vittime. Di fronte ai loro razzi, noi abbiamo solo le armi della democrazia: legalità e rispetto delle regole. Vicino a questa santabarbara, nel piano segreto della casa, ci sono due stanzette, ovviamente senza finestre ma in perfetto stato, con la luce elettrica, arredate del necessario. Quella con la porta di ferro è la prigione del piccolo Di Matteo. Il posto dove il ragazzino ha vissuto e dormito per diversi mesi, la cella dove è stato strangolato.

È stata perfettamente ripulita. Ma ancora oggi a pensare a quella camera sottoterra mi vengono i brividi. Torniamo a casa con addosso un profondo senso di inquietudine.

È il 25 febbraio del ’96. La caccia a Giovanni Brusca continua. Con una maggiore consapevolezza della sua pericolosità: è sempre più urgente catturare l’uomo di quell’arsenale. La sua libertà è una gravissima minaccia per lo Stato democratico. In collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

 

“AVEVA 13 ANNI, DOPO 779 GIORNI DI PRIGIONIA L’ABBIAMO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO”