Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti
Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino. Tensione durante la riunione del 14 luglio Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia».
Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”».
Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”». Aveva studiato il dossier dei Ros Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. 21 agosto, 2020 • IL DUBBIO
Mafia-appalti, quel fascicolo archiviato su Gardini
Dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti, ed è quello che era emerso in una vecchia inchiesta della Procura di Caltanissetta che però chiese l’archiviazione in mancanza di elementi idonei a sostenere in giudizio l’accusa a carico dei cosiddetti “mandanti occulti”. L’inchiesta sul famoso dossier mafia- appalti subì la stessa sorte a Palermo a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio.
A questo si aggiunge un altro fascicolo, arrivato nell’agosto del 1991 alla Procura di Palermo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara, che riguardava presunti rapporti tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, all’epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. Anche questo fascicolo, però, fu archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate.
L’ipotesi che dietro le stragi ci sia stata la volontà di fermare le inchieste sui rapporti tra imprenditori e mafia rimane ancora a galla, confermata d’altronde nella sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania e confermata in Cassazione. Parliamo di una sentenza che riguarda esattamente i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti.
Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale ipotesi è stata anche riportata, come oramai è noto, nella motivazione della sentenza di primo grado del Borsellino quater. A differenza, però, della motivazione della sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia dove si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafiaappalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse».
I fatti però sembrano dire altro. Non solo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, chiese subito copia del dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros e depositato nella cassaforte della Procura di Palermo sotto spinta di Giovanni Falcone, ma mosse dei passi concreti per indagare informalmente sulla questione, tanto da incontrarsi in caserma con il generale dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per ordinargli di proseguire le indagini e riferire esclusivamente a lui.
MAFIA – IMPRESE NAZIONALI E LE BOMBE
Il dossier – mafia appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio. Dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip il 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte» .
Nel dossier compaiono diverse aziende che avrebbero avuto legami con la mafia di Totò Riina, comprese quelle nazionali. Tra le quali emerge anche il coinvolgimento della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini. Tra l’altro, lo stesso Borsellino, ebbe conferma del coinvolgimento di tale impresa durante l’interrogatorio del primo luglio del 92 reso dal pentito Leonardo Messina. Viene alla mente la frase pronunciata dal suo amico Falcone quando il gruppo Ferruzzi venne quotato a Piazza Affari: «La mafia è entrata in borsa».
Fu il periodo in cui il gruppo Ferruzzi – in pochi anni comprato e trasformato da Raul Gardini in un gruppo prevalentemente industriale -, unito con la Montedison divenne il secondo gruppo industriale privato italiano con ricavi per circa 20.000 miliardi di lire, con 52.000 dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo.
I rapporti tra Ferruzzi e mafia sono stati ben argomentati nelle 45 pagine della richiesta di archiviazione presentata il 9 giugno 2003 dall’allora procuratore capo di Caltanissetta Francesco Messineo al gip nisseno per uno dei filoni di inchiesta sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, nel quale si è affrontato, tra l’altro, anche il suicidio di Gardini.
In questo atto la Procura di Caltanissetta ha affermato che per interpretare gli omicidi dei due giudici risultano importanti le dichiarazioni del pentito Angelo Siino, considerato il ‘ ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra’, che indicavano la Calcestruzzi come la società che si prestava a favorire gli interessi della mafia. La ditta, in particolare, avrebbe partecipato alla maxi speculazione di Pizzo Sella, la magnifica collina che sovrasta il golfo di Palermo, costruendovi 314 ville completamente abusive, simbolo dello strapotere mafioso sulla città.
Sembra che Falcone e Borsellino avessero scoperto l’interesse strategico nutrito da Cosa Nostra per la gestione degli appalti pubblici. Gli appalti pare fossero così importanti per la mafia anche ai magistrati nisseni che, nell’inchiesta chiamata “mandanti occulti”, gettarono un’ombra sul timore che Cosa nostra sembrava avere sulla prosecuzione delle indagini.
D’altronde, ricordiamo, l’ex pm Antonio Di Pietro ricevette l’informativa di essere sotto minaccia mafiosa. Lui che, in piena tangentopoli, avrebbe dovuto sentire Raul Gardini, ma quest’ultimo si suicidò il 23 luglio del 1993. La bomba mafiosa di Milano, esplosa all’indomani dei funerali in via Palestro, ha qualche legame con ciò? Non si sa, ma dagli atti risulta che gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano.
A guidare Gardini in quest’affare tutto ancora da chiarire sarebbe stato un vecchio socio di suo suocero Serafino Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, detto ‘ Il Panzer’, comandante partigiano, dirigente delle cooperative rosse di Ravenna e presidente della Calcestruzzi, il quale gli avrebbe spiegato che per questa società c’era la possibilità di prendersi tutti gli appalti pubblici siciliani, alleandosi, però, con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, molto legati a Totò Riina, che dal 1982 entrarono direttamente nella proprietà della ditta. In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano quindi difese a tutti i costi.
DA MASSA CARRARA A PALERMO
Ritornando agli inizi anni 90, mentre era già stato depositato il dossier mafia- appalti dove, appunto, compariva la Calcestruzzi Spa, ovvero il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall’ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo anche il pentito Messina, controllato da Totò Riina -, arrivò sul tavolo della procura di Palermo un secondo fascicolo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara.
Cosa aveva scoperto? Intuì il legame tra la mafia siciliana ed il gruppo Ferruzzi, all’epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. All’epoca Gardini ebbe dall’Eni un’offerta di favore. Il primo grande affare si presentò con un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, per cui il carbonato di calcio di Carrara era essenziale. Valore del contratto era di tremila miliardi di lire di allora. Eravamo alla fine degli anni Ottanta. Ma poi, invece, tutto precipitò.
A Carrara, le cose non andavano bene. Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino. Più un altro parente, Rosario Spera. I siciliani cominciarono a porre condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano della zona, Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama cominciò ad indagare.
Per competenza, nell’agosto del 1991, il fascicolo fu trasferito alla Procura di Palermo. ll procedimento iniziato a Massa Carrara, a carico di Antonino Buscemi, fu però archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate. Sempre nell’inchiesta “mandanti occulti”, il pm nisseno ha sottolineato che la magistratura palermitana, in quel periodo ben preciso «probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi- Gruppo Ferruzzi». 17 febbraio, 2023 • Damiano Aliprandi IL DUBBIO
Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini
In esclusiva I contenuti dei verbali dell’interrogatorio a Leonardo Messina. Anche in un’audizione della commissione antimafia, presieduta da Luciano Violante, alla domanda se nella gestione mafiosa ci fossero ditte nazionali rispose: «La calcestruzzi spa di Riina»
Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.
Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.
Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».
La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.
Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.
Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.
Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.
Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».
Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.
Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.
Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».
Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati. 25 ottobre, 2019 • IL DUBBIO DAMIANO ALIPRANDI
Di Pietro: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti»
Antonio Di Pietro al processo d’appello sulla trattativa. L’ex pm di “mani pulite” ha rivelato che fu Giovanni Falcone a dirgli: «se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli affari in Sicilia»
Un fiume in piena l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, sentito come teste – citato dalla difesa degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno – nell’ambito del processo d’appello sulla presunta trattativa stato- mafia.
«Che c’azzecca con la trattativa», ha sbottato ad un certo punto Di Pietro. In effetti nulla. Nel senso che l’ex magistrato, in qualità di testimone ha affermato che «Paolo Borsellino è stato ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia appalti». Però con la trattativa c’entra, nel senso che nelle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, il giudice della corte d’assise di Palermo Montalto ha sentenziato che non solo la trattativa ci sarebbe stata, ma che Borsellino sarebbe stato fatto fuori perché avrebbe potuto opporsi.
Ma non solo. Scartando l’ipotesi di mafia appalti, ha anche scritto che l’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier. Però varie testimonianze, atti pubblici come le audizioni al Csm e, non per ultimo, lo stesso Di Pietro, smentiscono tutto ciò. Borsellino aveva già avuto copia del dossier mafia appalti depositato dagli ex Ros per volere stesso di Falcone.
Non solo lo ha letto quando era ancora procuratore a Marsala, ma ha anche svolto indagini informali visto che l’ex procuratore capo della procura di Palermo Petro Giammanco non gli aveva dato la delega. Quest’ultima – come ha detto anche il legale della famiglia Borsellino durante il processo d’appello Borsellino Quater – gli sarebbe stata data da Giammanco, tramite una telefonata, la domenica mattina presto. Lo stesso giorno in cui verrà ucciso dalla mafia.
Ma ritorniamo alla testimonianza di Di Pietro. «Il primo che mi disse di fare presto – ha spiegato l’ex pm – e di chiudere il cerchio fu Paolo Borsellino. In quell’incontro, il giorno del funerale di Falcone, eravamo d’accordo di rivederci per stabilire dei collegamenti d’indagine». Poi ha sottolineato che «era presumibile che anche soggetti politici e istituzionali del Sud fossero coinvolti».
La conferma del collegamento affari- mafia, Di Pietro ha spiegato che l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini, una provvista da 150miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima». La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui.
Da ricordare l’intervista che gli fece Luca Rossi, quando parlò di una possibile connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cuiil primo era stato in qualche modo coinvolto e che il secondo stava studiando. Ma anche il nome di Gardini, in realtà, già appare proprio nel dossier mafia appalti, quando controllava la Calcetruzzi Spa, identificata dai Ros come quella collegata con la spartizione degli appalti tra mafia, imprese e politica. Imprese, appunto, che erano anche del Nord.
Tutto ciò trova conferma anche nella sentenza della Cassazione del 2012 che respinse la revisione del processo Panzavolta, ex ad della Calcestruzzi condannato per aver favorito i boss. La sentenza riporta in primo piano proprio i rapporti tra Gardini e Cosa nostra. Poi Gardini, già indagato per tangentopoli, si suicidò. Il suo gesto, ha spiegato durante il processo Di Pietro «è il dramma che mi porto dentro».
Nel luglio del 1993 «l’avvocato di Raul Gardini, che all’epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell’interrogatorio l’imprenditore tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l’arresto. E io dissi di aspettare», ha raccontato Di Pietro. La mattina dopo si uccise con un colpo di pistola.
L’esame di Di Pietro, come detto, ha ruotato soprattutto sul famoso dossier mafia appalti, e sui colloqui che ebbe con Paolo Borsellino prima e dopo la strage di Capaci. E su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruzione politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché in quel dossier comparivano imprese del Nord, coinvolti nell’inchiesta Mani pulite.
Inchiesta che, all’epoca, lo porta ad avere «colloqui frequenti e approfonditi» con entrambi i magistrati uccisi nel ‘ 92. I primissimi rapporti sono stati con Falcone, che gli dice di puntare molto sulle rogatorie internazionali, «materia per me all’epoca sconosciuta – ha rivelato -. Lui mi fece un po’ da insegnante in questa prima fase, per poter realizzare al meglio queste rogatorie». Che sono importanti perché rappresentano «l’unico modo per ritrovare la provvista». Mani pulite, infatti, poggia su un presupposto nuovo per l’epoca: non indagare su chi prendeva la tangente, non solo almeno, ma su come si formava, a monte, la “provvista”.
E fu Giovanni Falcone, come ha rivelato l’ex pm, a dirgli: «Ma se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli appalti in Sicilia». Poi Falcone è stato ucciso a via Capaci, e Di Pietro continuò il discorso con Borsellino: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare di corsa», ha testimoniato sempre Di Pietro. Si accorda con Borsellino per incontrarsi e iniziare a coordinare le indagini che riguardavano tutto il territorio nazionale.
«Con Borsellino parlai poco, ma ho capito che stava andando in quella direzione. Anche se non sapevo dei suoi colloqui con Mutolo e del rapporto del Ros del ‘ 91. Io il bandolo della matassa l’ho ritrovato dopo, all’epoca del suicidio di Gardini», ha sottolineato l’ex pm di Mani Pulite. «Dopo la morte di Borsellino rimasi scosso – ha proseguito l’ex pm – avevo capito la diffusione del sistema, mi chiusi in me e continuai a indagare. Intanto, era arrivata una segnalazione del Ros, per una minaccia di attentato nei miei confronti. E con un ufficiale del Ros, di cui non ricordo il nome, andai a parlare in carcere con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, il geometra Giuseppe Li Pera». Quell’ufficiale era l’allora capitano Giuseppe De Donno, rivela in aula il suo legale, l’avvocato Francesco Romito.
Di Pietro – incalzato dall’avvocato Basilio Milio, legale degli ex ros -, ha raccontato di aver subito delegittimazioni attraverso indagini contro di lui. «Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm», ha sottolineato Di Pietro. Il magistrato Salamone, fratello di Filippo più volte definito come il “re degli appalti”: quest’ultimo compariva anche nel famoso dossier dei Ros nato sotto l’impulso di Giovanni Falcone e al quale era interessato Borsellino.
La corte d’assise d’appello ha convocato Silvio Berlusconi che dovrà presentarsi, come chiesto dalla difesa di Marcello Dell’Utri, ma potrà avvalersi della facoltà di non rispondere. 4 ottobre, 2019 • IL DUBBIO DAMIANO ALIPRANDI
Il Rapporto “Mafia&Appalti” e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino