TOMMASO BUSCETTA, Don Masino

Le dichiarazioni di Buscetta, giunte a coronamento di quattro anni di indagini proficue, quattro anni in cui ho imparato più cose che in venti, sono come le matrioske russe. Ho capito grazie a esse che fino a quel momento ero stato solo un artigiano. Circondato dallo scetticismo generale, appoggiato soltanto da alcuni colleghi, privo di strumenti adeguati. E che era giunto il momento di fare un salto di qualità nell’organizzazione della lotta per ottenere risultati significativi.  Giovanni Falcone

                    


Verbale interrogatorio redatto da Giovanni Falcone – Luglio 1984

 


25.7.1984 – Dal verbale di interrogatorio di Buscetta verbalizzato da Falcone



 

 


AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI


Deposizione Tommaso Buscetta 


Speciale La 7   dibattito con Pignatone e De Gennaro

OUR GODFATHER – LA VERA STORIA DI TOMMASO BUSCETTA


                                           

 

Tommaso Buscetta nasce il 13 luglio 1928 ad Agrigento, in un quartiere popolare, da una modesta famiglia del posto. La madre è una semplice casalinga mentre il padre fa il vetraio. Ragazzo sveglio e dalla pronta intelligenza, brucia le tappe di una vita intensa sposandosi molto presto, a soli sedici anni, anche se nella Sicilia di allora i matrimoni fra giovanissimi non erano così infrequenti. Ad ogni modo il matrimonio procura delle precise responsabilità a Tommaso, fra tutte quella di assicurare il pane alla sua giovane sposa. Si tenga presenta che nella Sicilia profonda degli anni ’30 non era concepibile che una donna svolgesse un qualunque lavoro…. Buscetta, quindi, per campare intraprende attività legate al mercato nero; in particolare, smercia clandestinamente tessere per il razionamento della farina: è il 1944, la guerra sfianca i civili e devasta le città, non esclusa Palermo, soffocata sotto un cumulo di macerie, quelle del bombardamento dell’anno primaMalgrado questo quadro apparentemente poco felice, l’anno dopo i Buscetta mettono al mondo una bambina, Felicia, mentre due anni dopo arriva anche Benedetto. Con i due figli, crescono anche le esigenze economiche. A Palermo, però, di lavoro regolare proprio non se ne trova; si fa avanti allora lo spettro dell’unica soluzione possibile, anche se dolorosa: l’immigrazione. Cosa che puntualmente, come per tantissimi italiani degli anni ’40, si verifica. Saputo che in Argentina c’è buona possibilità di sistemazione per gli italiani, don Masino si imbarca dunque a Napoli per poi sbarcare a Buenos Aires, dove si inventa un lavoro originale sulle orma dell’antica professione paterna: apre una vetreria nella capitale sudamericana. L’attività non fa certo affari d’oro. Deluso, nel ’57 fa ritorno nella “sua” Palermo, deciso a ritentare nuovamente la strada della ricchezza e del successo con…altri mezzi. In effetti, Palermo in quel periodo stava cambiando non poco, usufruendo anch’essa, seppure in maniere limitata, del Boom economico di cui stava beneficiando l’Italia, grazie allo sforzo di milioni di lavoratori intelligenti e capaci. Una febbre di rinascita sembra avere sanamente attanagliato la città siciliana: dovunque si costruiscono nuove opere, si demoliscono antichi palazzi per farne sorgere di nuovi e insomma dappertutto ferve una grande voglia di riscatto, di ricostruzione e di benessere. Purtroppo, la mafia aveva già steso i suoi lunghi tentacoli su gran parte delle attività allora avviate, soprattutto sui numerosi palazzi in cemento armato, il nuovo materiale per le costruzioni di massa e popolari, che spuntavano come funghi qua e là. Don Masino intravede soldi facili in quel mercato e si inserisce nelle attività controllate da La Barbera, boss di Palermo centro. Inizialmente Don Masino è affidato alla “divisione tabacchi”, con funzioni di contrabbando e simili ma poi si farà strada con incarichi più importanti. Per ciò che riguarda le gerarchie, La Barbera controllava la città mentre alla sommità della cupola mafiosa, invece, vi era Salvatore Greco detto Cicchiteddu, il boss dei boss. Nel 1961 esplode la prima guerra di mafia, la quale vede pesantemente coinvolte le famiglie che si spartiscono il territorio palermitano. La situazione, in mezzo a vari morti ammazzati, si fa rischiosa anche per Don Masino che, saggiamente, decide di sparire per un bel po’. La latitanza di Buscetta, a conti fatti, si protrarrà per ben dieci anni, ossia dal 1962 fino al 2 novembre del 1972. Nel lungo lasso di tempo si sposta in continuazione fino ad arrivare, nei primi anni ’70 appunto a Rio De Janeiro. In questa situazione precaria e infernale, anche la vita familiare non poteva che essere rivoluzionata. Infatti cambia per due volte moglie fino a costruire due altre famiglie. Con la seconda moglie, Vera Girotti, condivide un’esistenza scapestrata e pericolosa, sempre sul filo dell’agguato e dell’arresto. Con lei, alla fine del 1964 fugge in Messico per poi approdare a New York, importando per vie illegali anche i figli di primo letto. Due anni dopo, nel municipio di New York, col nome di Manuele Lopez Cadena la sposa civilmente. Nel 1968, sempre nel tentativo di sfuggire alla giustizia, indossa i nuovi panni di Paulo Roberto Felici. Con questa nuova identità sposa la brasiliana Cristina de Almeida Guimares. La differenza di età è notevole. Buscetta è un mafioso quarantenne mentre lei è solo una ragazza di ventuno anni, ma le differenze non spaventano Don Masino. La latitanza, fra mille difficoltà, continua. Finalmente, il 2 novembre del 1972, la polizia brasiliana riesce a mettere le manette ai polsi all’imprendibile mafioso, accusandolo di traffico internazionale di narcotici. Il Brasile non lo processa ma lo spedisce a Fiumicino dove lo attendono altre manette. Nel dicembre del 1972 si apre per lui la porta di una cella del terzo braccio del carcere dell’Ucciardone. In carcere rimane sino al 13 febbraio 1980, deve scontare la condanna del processo di Catanzaro, 14 anni ridotti a 5 in appello. In carcere Don Masino cerca di non perdere la calma interiore e la forma fisica. Insomma, cerca di non farsi travolgere dagli eventi. Il suo regime di vita è esemplare: si sveglia molto presto e dedica un’ora o più, agli esercizi fisici. Il fatto è che, pur restando in carcere, la mafia lo aiutava a mantenere una vita più che dignitosa. Colazione, pranzo e cena erano direttamente fornite dalle cucine di uno dei più noti ristoranti di Palermo… Ad ogni buon conto, gli anni che Buscetta trascorre all’Ucciardone sono cruciali per la mafia. Vengono uccisi magistrati, investigatori, giornalisti, innocenti cittadini. Sul piano personale, invece, sposa per la seconda volta Cristina e ottiene la semilibertà, facendo il vetraio presso un artigiano. Ma nelle strade di Palermo si torna a sparare. L’assassinio di Stefano Bontade indica a Buscetta con chiarezza quanto la sua posizione sia ormai precaria. Ha paura. Torna quindi in clandestinità. È l’8 giugno del 1980. Rientra in Brasile via Paraguay, porto franco per avventurieri di mezzo mondo. Tre anni dopo, la mattina del 24 ottobre del 1983 quaranta uomini circondano la sua abitazione di San Paolo: scattano ancora le manette. Condotto al più vicino commissariato don Masino propone: “Sono ricco, posso darvi tutti i soldi che vorrete, a patto che mi lasciate andare”. Nel giugno del 1984 due magistrati palermitani vanno a trovarlo nelle carceri di di San Paolo. Sono il giudice istruttore Giovanni Falcone ed il sostituto procuratore Vincenzo Geraci. Buscetta durante lo storico colloquio non ammette nulla ma, proprio quando i magistrati si stavano allontanando, lancia un segnale: “Spero potremo rivederci presto”. Il 3 luglio il tribunale supremo brasiliano concede la sua estradizione. Durante il tragitto verso l’Italia Buscetta ingerisce un milligrammo e mezzo di stricnina. Si salva. Quattro giorni d’ospedale, poi finalmente è pronto per il volo fino a Roma. Quando il Dc 10 Alitalia tocca la pista di Fiumicino, il 15 luglio 1984, l’aeroporto è circondato da squadre speciali. Tre giorni dopo, il mafioso Tommaso Buscetta è di fronte al Falcone. Con il giudice scatta un’intesa profonda, un senso di fiducia che sfocerà in un rapporto del tutto particolare. Non è esagerato affermare che fra i due vi fosse stima reciproca (sicuramente da parte di Buscetta). E’ la base fondamentale per le prime rivelazioni di Don Masino, che presto diventeranno come un fiume in piena. E’, di fatto, il primo “pentito” della storia, un ruolo che si assume con grande coraggio e una scelta che pagherà a caro prezzo (praticamente, con gli anni, la famiglia Buscetta è stata sterminata per ritorsione dalla mafia). Nelle intense sedute con Falcone Buscetta svela gli organigrammi delle cosche avversarie, poi quelle dei suoi alleati. Consegna ai giudici gli esattori Nino ed Ignazio Salvo, quindi Vito Ciancimino. Nel 1992, quando viene assassinato il parlamentare europeo della Democrazia Cristiana Salvo Lima dirà che “era uomo d’onore”. In seguito, le sue dichiarazione hanno puntato sempre più in alto, fino ad indicare in Giulio Andreotti il riferimento più importante, a livello istituzionale, di Cosa nostra nella politica. Buscetta è stato per gli ultimi quattordici anni della sua vita un cittadino americano quasi libero. Estradato negli Usa dopo avere testimoniato in Italia, ha da quel governo ottenuto, in cambio della sua collaborazione contro la presenza mafiosa negli Usa, cittadinanza, nuova identità sotto copertura, protezione per sè e per la sua famiglia. Dal 1993 ha beneficiato di un “contratto” con il governo italiano, grazie ad una legge approvata da un governo presieduto proprio da Giulio Andreotti, in base alla quale ha ricevuto anche un cospicuo vitalizio.  Il 4 aprile del 2000, all’età di 72 anni e ormai irriconoscibile per via delle numerose plastiche facciali affrontate allo scopo di sfuggire ai killer della mafia, Don Masino è deceduto a New York per un male incurabile

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Buscetta era molto deluso dalla deriva presa da Cosa Nostra e soprattutto dall’avvento dei Corleonesi, guidati da Totò Riina. Aveva intuito due aspetti importanti. Il primo: il cambiamento strutturale che aveva portato il commercio della droga nella vita delle famiglie. Troppi soldi facili, troppi personaggi che aspiravano a comandare a Palermo e che minavano alla base le regole di convivenza dentro Cosa Nostra in città. Il secondo: questa Cosa Nostra era cambiata, si era allontanata dai valori fondati e prima o poi sarebbe stata sconfitta dallo Stato, a maggior ragione se avessero comandato i Corleonesi, che lui considerava vincenti nella guerra che si prospettava all’orizzonte per il controllo dell’organizzazione. Di questo parlava con i suoi amici palermitani e per questo decise di non lasciarsi coinvolgere, ma di sparire ancora una volta in Brasile, sottoponendosi all’ennesima plastica facciale per rendersi irriconoscibile, anche perché aveva saputo di essere sulla lista dei nemici di Riina. Era talmente vero che il corleonese ordinò, tra il 1982 e il 1984, il sequestro e la sparizione di due dei suoi figli e l’uccisione del fratello, di un genero, un cognato e quattro suoi nipoti. Buscetta fu arrestato il 23 ottobre 1983 in Brasile e contattato nel 1984 da Giovanni Falcone, che cercò di convincerlo a collaborare. Fu in quell’occasione che iniziò il dialogo tra il magistrato e il mafioso che, in seguito all’estradizione ottenuta dal governo italiano nel giugno 1984, diventò una testimonianza fondamentale per istruire il più importante e decisivo processo alla mafia. Un testimone perché Buscetta rifiutava la definizione pentito. In seguito, lo stesso Giovanni Falcone spiegò l’imporatnza del contributo di Tommaso Buscetta.
(dal libro di Ettore Gobbato -TOTO’ RIINA IL BOSS

 


 IO PENTITO IN GUERRA 

8 dicembre 1992  Incontriamo Tommaso Buscetta alle due del pomeriggio in una casa romana messa a disposizione per l’occasione. Ha una giacca blu e pantaloni grigi. Non porta i consueti occhiali neri. Gli occhi sono quelli che abbiamo imparato a conoscere dalle foto, ma con una mobilità e una vivacità che restano in mente. Parla scioltamente ma pesa le parole. A volte s’ interrompe, riflette per qualche secondo e poi scarta la domanda perché “quell’ argomento è ancora all’ esame del giudice e quindi va tenuto coperto per non compromettere le indagini”. Questa è la sua unica intervista da quando è tornato in Italia ed è lui che ci tiene a dirlo perché “quelle uscite sulla Stampa e su Epoca erano brevi colloqui non destinati alla pubblicazione” che non contengono autenticamente il suo pensiero. ‘ NON TRADITE I PENTITI’ ‘ Solo con loro batteremo quella iena di Riina’ L’ intervista ha toccato tutti gli argomenti sui quali Buscetta è in grado di contribuire all’ accertamento della verità mafiosa. Poiché ormai è diventato molto esperto su come un pentito può essere screditato e su come si possa delegittimare l’intera categoria dei pentiti, nel corso della conversazione distingue ogni volta tra affermazioni che è in grado di fare sulla base della sua personale esperienza, delle cose che ha sentito dire da altri e infine della sua “sapienza”, cioè delle deduzioni logiche che gli derivano dalla conoscenza profonda dell’ambiente mafioso. Ha ripetuto tre o quattro volte la parola “sapienza” e il termine ci è parso appropriato perchè questo vecchio mafioso che ha l’aria d’ un uomo nel pieno vigore delle forze parla e ragiona come un saggio, anche se si tratta evidentemente d’ un saggio molto “sui generis”. Si fidava soltanto di Falcone. Il fatto di dover parlare con molti magistrati che non conosce e di cui ignora tutto lo sconcerta e lo irrita. Gli ha fatto un’impressione positiva il presidente dell’antimafia, Violante. Ha grande stima per il giudice Caselli che spera sia nominato alla Procura di Palermo. Degli altri giudici non sa e non vuole sapere. Soprattutto non vuole diventare un personaggio da circo, portato di qui e di là a rispondere a cento domande spesso non pertinenti e alle quali non può e non sa dare risposte attendibili e documentabili. Ricorda Falcone come una sorta di arcangelo Gabriele in guerra contro i draghi. Di se stesso parla come uno che la mafia l’ha conosciuta da quando aveva diciassette anni e ci ha lavorato dentro fino a quando ne aveva cinquantasette, cioè per quarant’ anni di seguito. E’ lui che per primo ha rotto la legge dell’omertà. Ripete con orgoglio: la Cassazione mi ha dato ragione; gli ergastoli contro gli uomini della Cupola sono io che li ho ottenuti. Di Salvatore Riina parla come del nemico pubblico numero uno, il suo nemico, quello con il quale il conto è ancora aperto e non sa ancora come finirà. Si è commosso una volta, quando ha ricordato i due figli ammazzatigli dai corleonesi, dei quali non ha mai più saputo nulla: scomparsi, forse bruciati col fuoco o dissolti con l’acido. Ha detto che la posta in gioco adesso è l’utilizzazione dei pentiti; su questo punto Cosa nostra gioca la partita decisiva ed è una partita interamente basata sull’ intelligenza perchè ci sono vari modi per screditare un pentito. Lui conosce esattamente quali sono e mette in guardia i pentiti stessi, i magistrati che li interrogano e i giornali che ne registrano dichiarazioni e verbali. Non è un gioco, si sta combattendo la battaglia decisiva tra lo Stato e la mafia, c’ è di mezzo la vita di molte persone, la sorte della Sicilia e quella di tutto il paese. Il nostro incontro è durato due ore e mezzo. Il testo dell’intervista che pubblichiamo è un fedele resoconto che Buscetta ha rivisto e approvato. “VE LO DICO io che cosa accadrà in questo Paese nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Colpiranno innanzi tutto i pentiti, tenteranno di distruggere la loro credibilità”.

In che modo, signor Buscetta?  “In questi giorni, è sotto gli occhi di tutti. Il pentito si decide a verbalizzare e quel verbale finisce sui giornali prima che l’indagine abbia inizio. Ma vi sembra legittimo che si conoscano le dichiarazioni di Gaspare Mutolo prima che ci sia un solo arresto? E questa è soltanto una delle possibilità”.

Quali sono le altre?  “Faccio un esempio. Il pentito non si limita a dire soltanto quel che direttamente – per conoscenza diretta – sa, ma anche quello che gli hanno riferito. Ebbene, prima che siano conclusi i necessari riscontri, quella parte del ‘ sentito dire’ viene resa pubblica. E in base a quel ‘ sentito dire’ , legittimamente parziale, si tenterà di cancellare anche le dichiarazioni dirette. Con il bel risultato di fare un unico calderone dove a rimetterci è soltanto il pentito, a rimetterci sarà la lotta alla mafia. Prendiamo il ‘ caso Signorino’ . Ho letto sui giornali che anch’ io avrei fatto il nome di Domenico Signorino come giudice colluso con la mafia. E’ una falsità. Io non ho mai fatto in un verbale il nome di Signorino. Se mi si chiede se Signorino era un uomo d’ onore, io posso dire, per conoscenza diretta, che non lo era…” Le sue parole scagionano Signorino. “Io non posso confermare né escludere circostanze che non ho mai conosciuto”.

Perchè, secondo lei, l’unico nome finito sui giornali è stato quello di Signorino? Si ha l’impressione che si stava preparando un’offensiva giudiziaria ben più vasta che non avrebbe coinvolto soltanto Signorino, ma con Signorino altri magistrati, altri funzionari dello Stato.  “E’ quel che penso anch’ io. E quella fuga di notizie ha bloccato ogni cosa. Signorino, in qualche modo, è stato sacrificato in una campagna di disinformazione…”.

Lei crede che sia in atto una campagna di disinformazione?  “Io credo che siamo soltanto all’inizio di una campagna di disinformazione. Nei prossimi giorni questa campagna si intensificherà e avrà, come obiettivo, la distruzione dei pentiti come testimoni credibili. Guardate il ‘ caso Signorino’ . Tutta la colpa la gettano sulle spalle di Gaspare Mutolo. Nessuno dice che la colpa è del giudice e del poliziotto che ha passato la notizia al giornalista. Il pentito pagherà; il giudice e il poliziotto, no. E’ per questo che me ne andrò presto dall’ Italia”.

Se ne andrà dall’ Italia? Lei non aveva promesso di collaborare con la giustizia?  “E continuerò a farlo. Sono determinato a farlo…”.

E allora perchè va via?  “Sono deluso. Ecco perchè me ne andrò anche se, ripeto, resto a disposizione dei giudici. Nessuno mi aveva costretto a tornare. Ero tornato di mia spontanea volontà dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino perché i loro colleghi di Palermo mi avevano chiesto se ero disponibile a farlo. Sono tornato per rendermi utile. Vedevo e vedo Cosa Nostra rantolare, Totò Riina rantolare. Sono convinto che lo Stato oggi può farcela se ha forza e determinazione. E invece…”.

E invece, signor Buscetta, che cosa è accaduto in questi trenta giorni? Lei ha dipinta sul volto una smorfia di disgusto…  “Non so se disgusto è la parola giusta. La parola giusta è forse fastidio. Sì, fastidio. Mi sono trovato per giorni a ricevere giudici. Venivano da ogni parte d’ Italia Palermo, Caltanissetta, Roma e un colonnello dei carabinieri mi ha fatto vedere la lista dei prossimi incontri. Mi sembra che non ci sia pubblico ministero di questo Paese, da Reggio Calabria a Milano, che non voglia interrogarmi. L’altro giorno mi sono trovato davanti cinque giudici di Palermo. Dico, cinque”.

E’ solo stanchezza, dunque.  “Non è solo stanchezza. E’ che mi sono trovato in una baraonda. Io non credo che sia normale annunciare con dieci giorni d’anticipo, e in udienza pubblica, che il giorno 11 dicembre Tommaso Buscetta testimonierà nel bunker nel carcere di Rebibbia a Roma. In America non sarebbe mai successo. Io non ho paura della morte. Ho 65 anni. Posso vivere altri cinque se tutto va bene. Morire prima significa soltanto lasciare mia moglie con la pensione. Non mi importa di me. Mi importa delle persone che sono con me e potrebbero essere uccise, con me. Qui non siamo più ai tempi della doppietta, e nemmeno ai tempi del mitra. Qui hanno i missili terra-aria e Cosa Nostra non è stata mai così bene armata. Nessuno pensa che regalo si farebbe alla mafia con la mia morte. E lo sa perchè?”.

Lo dica. ”  Io al di là di quel che è Tommaso Buscetta – sono un piccolo uomo che ha soltanto dignità da vendere – sono diventato un mito. E’ quel mito che la mafia vuole distruggere per prendere fiato, per rialzare la testa, per rimettersi in piedi ora che rantola. Non mi stancherò mai di ripeterlo: Cosa Nostra può essere battuta. Oggi. Subito. Basta ancora un forte e coerente sforzo. Ed è appunto la professionalità per fare quest’ ultimo passo che non ho trovato. Mi sono trovato in un circolo vizioso dove le notizie passano dai giudici ai giornali, dai giornali ai giudici, dai giudici ai politici che ci imbastiscono su le loro speculazioni. E poi la solita sarabanda di giudici contro giudici. Palermo contro Caltanissetta. Caltanissetta contro Palermo.

Lo chiamano il Palazzo dei Veleni.  Altro che veleno, è stricnina allo stato puro. La verità è che non ho trovato più Giovanni Falcone. E voglio dire che non ho trovato più nessuno all’ altezza della sua professionalità. C’ è sempre il questore Gianni De Gennaro, ma accanto a lui con la toga addosso non vedo nessun Giovanni Falcone. Io ricordo – e lo ha ricordato recentemente anche Piero Grasso che fu giudice a latere al maxiprocesso, gran giudice é – che il dottor Falcone mi interrogò per tre mesi, ogni giorno. Io e lui. E lui, il dottor Falcone, stendeva il verbale d’ interrogatorio da solo e a mano. Non c’ è stata mai una fuga di notizia, in quel periodo. E, dopo quel lunghissimo interrogatorio, il dottor Falcone ordinò 2.600 riscontri. E’ così – con un magistrato che lavora come una bestia e che lavora in modo rigoroso, senza prendere ogni frase per oro colato – che un pentito, un collaboratore può aiutare la giustizia”. A volte accade che i “pentiti” parlino anche di ciò che non conoscono direttamente, che riferiscano circostanze o notizie che, per la loro posizione nell’ organizzazione, non hanno potuto direttamente apprendere.

E’ il caso di Leonardo Messina. E’ stata un capodecina, eppure riferisce di un progetto politico e separatista che probabilmente, se mai esiste, è stato deciso dai boss della Cupola e taciuto a un capodecina.  “Voglio ricordare che io ero soltanto un soldato eppure gli uomini d’ onore della commissione interprovinciale si confidavano con me. A volte, il grado non conta. Io non so, non posso sapere, come Messina abbia saputo quel che dice. So però quel che un giudice dovrebbe fare: cercare i riscontri. Se per alcune dichiarazioni, non è possibile trovare riscontri, lasci perdere quelle dichiarazioni e si occupi soltanto delle rivelazioni che possono essere dimostrate in un’aula di tribunale. E’ così che si difende quel prezioso bene che sono i pentiti. Ha ragione il professore Pino Arlacchi a dire che un pentito vale cinque anni d’ indagine. E allora i giudici facciano le indagini ché il momento è favorevole… Io dico: prendete i pentiti, controllate le loro dichiarazioni con attenzione, e colpite duro. Da quello che sta avvenendo in questi giorni mi sembra invece che ci sia troppo interesse a screditare i pentiti”.

Interesse di chi?  “Io sono malizioso e dico che c’ è qualcosa di politico”.

Si spieghi meglio, signor Buscetta.  “Ma insomma, io sono un uomo libero, decido di tornare in Italia per raccontare quel che mai avevo voluto raccontare nemmeno al dottor Falcone. Sono venuto per mettere a disposizione della giustizia italiana tutte le mie conoscenze fino al 1984 e ad offrire la mia capacità di interpretare i fatti di mafia accaduti dopo quel periodo. Non ho nulla da guadagnare, non chiedo niente, non voglio niente. Non ho da dimostrare la mia attendibilità. E’ stata la Cassazione a dimostrarla. Io voglio solo essere utile. E allora perché Andreotti dice che sono tornato in Italia per rompere equilibri politici? Ha detto proprio così: equilibri politici. E che ne so io, di equilibri politici? Che capisco io, di equilibri politici? Nulla. Zero. Zero più zero. Io mi sento un uomo piccolo così che a malapena può parlare di Cosa Nostra”. Andreotti in realtà lascia intendere che queste sue nuove dichiarazioni le sarebbero state suggerite. “Ma chi può suggerirmi quel che devo dire se sono stato sempre io a suggerire agli altri… E poi, è difficile spiegarlo, sarebbe un’incoerenza. Io ho soltanto un capitale da spendere ed è la mia dignità e ne ho molta e non la getto via…”.

Quando e come è diventato mafioso, signor Buscetta?  “E’ stato tanto di quel tempo fa e Pensi che sono diventato mafioso facendo la Resistenza”.

La Resistenza?  “Sì, durante le Quattro Giornate di Napoli. Partimmo da Palermo, eravamo in tanti. E tra quelli che erano con me c’era un uomo d’ onore, ma io non lo sapevo. Io ero lì per difendere la mia Italia e in odio ai tedeschi. Sì, li odiavo i tedeschi. Ero un ragazzino. E a Palermo li avevo visti mangiare come noi non potevamo nemmeno sognare di mangiare. Avevano il burro, la marmellata e noi non avevamo nemmeno un tozzo di pane vecchio e io li odiavo…”.

E poi a Napoli che cosa accadde?  “Accadde che quell’ uomo d’ onore ha visto il ragazzino deciso, che sapeva tenere la bocca chiusa e l’ha apprezzato. Tornato a Palermo, sono stato corteggiato e poi combinato. Intanto da patriota ero diventato separatista”. Leonardo Messina ha detto che “ad uccidere Salvatore Giuliano è stato Luciano Liggio: c’ è stato un compromesso tra un’ ala dello Stato e Cosa Nostra…”. Giuliano fu ucciso il 5 luglio 1950. Lei aveva 24 anni ed era uomo d’ onore da qualche anno.

Che cosa ricorda di quel periodo? “Messina ha detto questo?”.  Sì. “Io preferisco lasciar perdere. Scoperchierei un pentolone e mi prenderebbero per pazzo. Io posso dire che Finocchiaro Aprile era molto vicino alla mia famiglia… Ma come dimostrarlo? Non tutti hanno ancora capito che tra uomini d’ onore non c’ è nulla di scritto. Che tutto avviene oralmente. Che ciò che viene detto a me, non è detto che sarà riferito a lei. E allora perché parlare di tutto, se poi non tutto può essere verificato?”.

D’accordo, non parliamo del separatismo di ieri. Parliamo del separatismo di oggi. Secondo alcuni osservatori, e anche per il pentito Leonardo Messina, è il separatismo la strada che sta imboccando il nuovo corso mafioso. Lei crede a questa possibilità?  “Sì, ci credo fermamente. Io penso che sarà questa l’ultima spiaggia di Totò Riina conoscendo, come conosco, Totò Riina. Io ho avuto la possibilità di leggere una lettera anonima spedita dopo la morte di Falcone e dico che non siamo più al banditismo, alla criminalità, come vogliamo chiamarla la mafia? C’ è qualcosa di più. C’ è qualcosa di strano. Comunque, il separatismo non è la strada che imboccheranno subito. Riina aspetterà”.

Che cosa aspetterà?  “Aspetterà di vedere come finisce la campagna contro i pentiti. Fino a quando sarà in corso questa campagna, che è solo all’ inizio, non ci sarà un attentato. Se la campagna non dovesse avere un buon esito, allora userà le armi. E le userà come non le ha mai usate finora. Ora che si è strusciato con i Colombiani penserà di usare anche i loro metodi. Bombe contro innocenti. Attentati contro le più alte cariche dello Stato. E con la guerra penserà anche ad una Sicilia separata”.

Lei crede, dunque, che la mafia possa ripetere attentati come quello contro il rapido 904?  “Non penso solo ai treni, penso anche agli aerei”. E’ tanto feroce Totò Riina? “E’ una carogna, è una jena. E’ lui che mi ha trascinato nella guerra di mafia. Io ne volevo stare lontano, ero in Brasile. Telefonai per dire ai miei figli di starne fuori, di venire in Sud-America, di raggiungermi. Riina li ha fatti scomparire. Nemmeno i loro corpi mi ha fatto trovare. Li avrà arrostiti su una graticola o li avrà sciolti nell’ acido. Riina aveva paura di me, pensava che avrei potuto contrastare il suo disegno di egemonizzare tutta Cosa Nostra, pensava che gli potessi dare dei grattacapi con la parola, la sola arma che avevo”.

Come cominciò la guerra di mafia? Fu solo un conflitto per il comando di Cosa Nostra o anche un conflitto di alleanze, metodi, interessi, strategie?  “Scoppiò per un motivo, tutto sommato, banale. Salvatore Greco, Cicchitteddu, era il capo di Cosa Nostra. Gli uccisero un rappresentante. Greco ne chiese conto a Luciano Liggio. Liggio non gli rispose mai. Restò un forte rancore tra i due. Quando Liggio perse un soldato nella strage di viale Lazio, durante l’agguato a Michele Cavataio, pretese un posto nella commissione. Lo ottenne e piazzò Riina in quella che voi chiamate Cupola. Da allora Riina ha scientificamente voluto annullare tutti coloro che erano amici di Salvatore Greco.

Il motivo di quella guerra è stato uno solo: la sete di dominio”. Il traffico della droga non c’ entra nulla?  “Certo, che c’ entra. La guerra è scoppiata in coincidenza dei primi traffici di droga. Ricordo che quando tornai a Palermo, latitante nel 1980, vedevo scorrere fiumi di denaro, erano tutti diventati ricchi, gli uomini d’ onore. Dissi a Stefano Bontade: è la fine di Cosa Nostra. Nessuno pensava più a rispettare quelle regole di solidarietà, di mutuo soccorso che erano la base dell’organizzazione alla quale io avevo aderito. In realtà, quelle regole della mafia tradizionale erano già finite tra il 1972 e il 1974. E’ per questo che dico che la mafia è in ginocchio. Voi non potete sapere che effetto fa sulle famiglie sapere che un Marchese, Pino Marchese, sta collaborando con la giustizia. Pino Marchese è molto vicino a Riina, è quasi un suo parente. La sorella di Marchese è cognata della moglie di Riina. Voi non potete nemmeno immaginare che colpo è questo”. Provi a spiegarlo. “Vuol dire che nessuno si può fidare più di nessuno. Se anche un uomo della famiglia di Corleone ha tradito, se anche un parente di Riina ha tradito, tutti possono tradire. E nessuno più può vivere tranquillo. L’ uomo d’ onore tornerà a casa e non saprà se l’ uomo d’ onore che ha appena lasciato, al quale ha dato la sua fiducia, sarà quello che lo accuserà. Cosa Nostra – e lo dico per sapienza non per conoscenza – è affogata in un mare di diffidenza. Per questo dico che lo Stato ha vinto. Basta un altro colpo”.

Un altro colpo sarebbe, senza dubbio, l’ arresto di Riina…  “Non è facile. E’ un uomo molto malvagio. Non si fida di nessuno, non ha vizi e la Sicilia è il luogo più adatto a questo tipo di latitanza. Ma anche Riina deve stare attento…”.

A chi?  “A quelli che per seguirlo nel suo delirio di onnipotenza si sono fatti distruggere. Ai Madonia di Palermo, ad esempio. Dal padre ai figli sono stati caricati di ergastoli, e lo devono a Riina. Io credo che Riina avrà molti problemi interni ed esterni. Credo che o si suiciderà o sarà ammazzato. Questa è la mia sentenza”.

Quali sono oggi, nella sua interpretazione, i legami della mafia con altre associazioni criminali tradizionali come la ‘ ndrangheta e la camorra?  “‘ Ndrangheta e camorra non sono mai esistite autonomamente da Cosa Nostra. E questo non lo dico per sentito dire. Ho conosciuto personalmente i fratelli calabresi Piromalli come uomini d’ onore. Personalmente ho conosciuto i napoletani Nuvoletta e Zaza come uomini d’ onore. Lasciate perdere ‘ ndrangheta e camorra. Non esistono. Esiste la mafia. Esiste Cosa Nostra”. Messina ha svelato che è nelle logge massoniche che i mafiosi entrano in contatto con politici, imprenditori, funzionari dello Stato. Lei che ne sa e che ne pensa? “Fino al 1980 io non ho mai sentito parlare di uomini d’ onore massoni. Rapporti, certo, che ce n’ erano é Il cognato di Bontade era un massone, ad esempio. Nel ‘ 70 per il golpe Borghese sono i massoni che si rivolgono a noi. E Carlo Morano, uomo d’ onore, aveva un fratello massone coinvolto nel golpe. Ma parlo di contatti non di identificazione. Se poi mi si chiede se Cosa Nostra ha rapporti con i massoni in logge riservate, questo lo ritengo non possibile, ma molto probabile”.

E i rapporti di Cosa Nostra siciliana con Cosa Nostra americana?  “Sono rapporti che vanno e vengono. Si erano interrotti negli anni Cinquanta. A noi palermitani ci consideravano i cugini pezzenti. Ci fu un riavvicinamento nel 1957 grazie al lavoro mio, di Salvatore Greco, di Gaetano Badalamenti. Sono ancora ripresi nel ‘ 78/’ 79 quando un emissario di Paul Castellano, boss della famiglia Gambino di New York, sbarcò a Palermo. Oggi direi che non ce ne sono. Sono molto più stretti i rapporti con i Colombiani. Dico meglio: non ci sono rapporti tra le tradizionali famiglie mafiose di Palermo e degli Stati Uniti. Ci sono invece rapporti con le famiglie palermitane trapiantate ultimamente negli Stati Uniti.

E’ da lì che verrà il nuovo pericolo per l’Italia”. Perché?  “Io ho paura che se Riina e i suoi saranno spazzati via, quelli che scapparono durante la guerra di mafia, e sopravvissero, torneranno in Sicilia per approfittare di quel vuoto di potere mafioso. E siccome la Sicilia è mafiosa, faranno presto a riprendere tutto nelle loro mani…”.

La Sicilia è mafiosa?  “Io amo la Sicilia. L’ odore della mia terra ce l’ho nelle narici dovunque io sia e ho una nostalgia della Sicilia che a volte mi lascia muto per giorni. Io amo i siciliani. Siamo gente generosa, umile, che si accontenta di poco. Ma siamo vittime della mafia. Quando dico il potere di Cosa Nostra, voi non dovete pensare soltanto agli uomini d’ onore, dovete anche pensare a tutti gli uomini e ai funzionari dello Stato e ai giudici, ai poliziotti, agli imprenditori, ai politici, ai criminali comuni e ai familiari che ciascun uomo d’ onore può avvicinare, controllare, ai quali può dare un ordine, chiedere un favore. E quanti sono i siciliani che possono dire di no alla mafia? Lo dico io. Il venti per cento. Come il potere di Riina, anche questa rete di complicità oggi è in crisi. E’ questo che voglio dire prima di lasciare l’Italia: attenzione, Cosa Nostra è in ginocchio, Cosa Nostra può essere battuta se si aiuteranno i pentiti nella loro collaborazione con indagini serie, se la stampa, la magistratura, la pubblica opinione faranno il loro dovere, se l’ offensiva dello Stato non sarà inquinata come, certamente, tenteranno di fare”.  – di EUGENIO SCALFARI e GIUSEPPE D’ AVANZO – La Repubblica

 


TOMMASO BUSCETTA  Emerge in particolare dalla sentenza del maxiprocesso di Palermo acquisita in atti che il BUSCETTA era entrato in COSA NOSTRA alla fine degli anni ’40 come “uomo d’onore” della “famiglia” di Porta Nuova e che il prestigio sostanziale di cui godeva presso i vertici dell’associazione criminosa del tempo ed il suo conseguente coinvolgimento nell’elaborazione delle linee organizzative e strategiche del gruppo erano indubbiamente superiori al livello della carica formalmente ricoperta. Il BUSCETTA era rimasto detenuto, sia pure con alterne vicende, dal 1972 al 1980, allorché aveva violato gli obblighi della semilibertà allontanandosi da Milano per raggiungere Palermo, nel tentativo di mediare i contrasti che in modo sempre più palese contrapponevano la fazione dei corleonesi a quella del gruppo che aveva i suoi più autorevoli esponenti in BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore, contrasti che attraversavano dall’interno le varie “famiglie” mafiose anziché contrapporre le une alle altre. Si era allontanato dalla Sicilia per raggiungere il Brasile, avendone percepito l’ineluttabilità, alla vigilia della seconda “guerra di mafia”, esplosa in modo virulento nell’aprile del 1981 con l’omicidio del BONTATE. Aveva mantenuto, peraltro, contatti non ufficiali con esponenti di COSA NOSTRA della corrente anticorleonese, ai quali era personalmente legato, come BADALAMENTI Gaetano – che aveva assunto la carica di componente del triumvirato che aveva retto COSA NOSTRA dagli inizi degli anni ’70 sino alla ricostituzione della Commissione Provinciale di Palermo, di cui aveva preso per qualche tempo la direzione sino alla sua espulsione da COSA NOSTRA, decretata su pressione del RIINA nel 1978 – e SALAMONE Antonino, capomandamento di San Giuseppe Iato ormai esautorato dal RIINA, che gli aveva preferito BRUSCA Bernardo, per lui molto più affidabile. Iniziò a collaborare con l’A.G. nell’estate del 1984, dopo che già alcuni suoi familiari estranei alle vicende mafiose erano stati uccisi nell’ambito di quella sistematica attività di sterminio che i corleonesi stavano attuando per fare terra bruciata intorno a coloro che più o meno fondatamente sospettavano poter essere coinvolti nei programmi di riscossa che ancora alcuni esponenti della fazione perdente e lo stesso BADALAMENTI nutrivano.

Benché portatore di una visione manichea delle vicende mafiose, che contrapponeva le ragioni di una “mafia buona”, quella dei perdenti, custodi dei valori positivi originari di COSA NOSTRA tramandati dalla tradizione, a quelle di una “mafia cattiva”, impersonata dai corleonesi, assetati di sangue e di ricchezza e corruttori dei valori autentici del sodalizio mafioso, il BUSCETTA ha fornito un contributo fondamentale per la comprensione del fenomeno mafioso e delle sue dinamiche interne e la sua attendibilità, specie con riferimento alla struttura organizzativa di COSA NOSTRA, ha trovato pieno riconoscimento in numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione, tra cui quella del 30 gennaio 1992, n. 80, nell’ambito del primo maxiprocesso di Palermo.

Il percorso collaborativo del BUSCETTA si differenzia di quello di numerosi altri collaboratori di giustizia perché intervenuto dopo un lungo periodo di allontanamento da COSA NOSTRA, durante il quale il dichiarante aveva avuto modo di riflettere con l’adeguato distacco che solo il tempo consente sul significato della propria esperienza criminale e di maturare quindi un diverso sistema di valori al quale riferirsi. Ciò costituisce probabilmente la ragione principale per cui la scelta del BUSCETTA è stata meno travagliata da interne contraddizioni e si è svolta secondo un percorso lineare, in cui alcune reticenze sono state sin dall’inizio ammesse dallo stesso collaborante e spiegate agli inquirenti, non essendo da ricollegarsi ad atteggiamenti di favore nei confronti di alcuno. Se di “faziosità” può parlarsi per il BUSCETTA, ciò può farsi solo attribuendo al termine una portata diversa da quella valida, invece, per la collaborazione, almeno iniziale, del BRUSCA, in quanto il gruppo ed i personaggi ai quali vanno tutte le simpatie del BUSCETTA erano ormai scomparsi da tempo e vengono da lui mitizzati nel rimpianto di un mondo scomparso, mentre lo schieramento e gli obiettivi ai quali il BRUSCA è in qualche modo ancorato all’inizio della sua collaborazione – al di là di qualsiasi oggettivo giudizio di valore che per tali efferate realtà criminali non può che essere assolutamente negativo – sono ancora pienamente operanti ed in lotta per l’egemonia, sicché il favore che l’imputato ancora manifestava nei loro confronti assume anche al di là delle effettive intenzioni un significato diverso, di intervento, sia pure indiretto, sugli equilibri interni della consorteria criminale.

In questo processo le dichiarazioni rese dal BUSCETTA all’udienza del 19 e 20 settembre 1996 nell’ambito del giudizio di primo grado per la strage di Capaci sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. nei confronti di tutti gli imputati comuni ed appaiono valide per acquisire, unitamente alle altre fonti probatorie di epoca più recente, una dimensione conoscitiva storica e quindi concreta della realtà in cui operano le regole di funzionamento di COSA NOSTRA ed i meccanismi di formazione del consenso, onde sottrarsi al rischio di costruzioni astratte, sulla base di teoremi, sui quali non può fondarsi alcuna decisione in sede giudiziaria. MISTERI D’ITALIA

Il rapporto tra Falcone e Buscetta nei racconti di Antonino Caponnetto  Buscetta non fu un “eroe” ma non fu neanche un “traditore”. Tra le tante cose di cui parlai con Antonino Caponnetto durante la sua permanenza in Molise, vi fu anche la figura del pentito Tommaso Buscetta e il rapporto che con lui ebbe Giovanni Falcone. A onore di verità, mi disse Caponnetto, Falcone riteneva che Buscetta non si pentì mai, sebbene le sue confessioni fossero “oro colato” e che grazie alle sue dichiarazioni riuscì a decifrare i codici di mafia fino a quel momento ignoti a tutti gli investigatori. Falcone riteneva che il primo vero pentito di mafia fosse stato un certo Leonardo Vitale che nel lontano 1973 con gran coraggio denunciò alla polizia Totò Riina, Bernando Provenzano, Michele Greco e Vito Ciancimino.

Tommaso Buscetta, invece, non si pentì rispetto ai crimini commessi, piuttosto prese le distanze dall’organizzazione mafiosa di cui faceva parte e di cui non riconosceva più il modus operandi. Prese le distanze da quello che la mafia era diventata con i “Corleonesi di Riina”, non dalla mafia di cui lui aveva fatto parte. Falcone lo “apprezzava” poiché la guerra tra fazioni mafiose e la vendetta trasversale attuata dai Corleonesi gli colpì un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Anche due dei suoi otto figli, inoltre, furono vittime della cosiddetta “lupara bianca”, cioè sparirono per non venire mai più ritrovati. “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”.

Questo disse a Falcone quando s’incontrarono. Quando arrivai io – mi raccontò Caponnetto – scelsi i magistrati con la maggiore esperienza maturata in campo di processi alla mafia per metterla al servizio della lotta alla criminalità organizzata e spianai la strada a Giovanni Falcone che stimavo e apprezzavo per il suo valore e la sua dedizione al lavoro di squadra. Secondo Caponnetto, Buscetta scelse la strada della collaborazione perché vedeva in Falcone un confessore, un uomo che ispirava fermezza e autorità, un uomo che meritò e conquistò il rispetto del “pentito-non-pentito” Buscetta. Nel 1984 il giudice Falcone volò in Brasile per l’estradizione in Italia di un criminale e ne tornò con un collaboratore di giustizia eccellente. Le prime parole che si scambiarono Falcone e Buscetta da “collaboratori” furono queste, dirette dal pentito al giudice: “L’avverto, signor giudice. Dopo quest’interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E’ sempre del parere di interrogarmi?”.

Falcone non ebbe paura, non esitò un solo attimo, andò avanti, capì e rimase fermo nel suo proposito di interrogare Buscetta. Ascoltò per mesi le sue confessioni senza che nulla si sapesse all’esterno, questo era il patto di fiducia stretto con “don Masino” spesso, lo chiamava così. Falcone pose le basi per la più proficua e onesta collaborazione mai avvenuta tra Stato e criminalità organizzata, sempre nel rispetto dei ruoli e rimarcando sempre che prima di Buscetta si aveva una visione superficiale della mafia. Dopo di lui la mafia ebbe dei nomi, dei volti, delle gerarchie, delle famiglie, dei capi mandamento, dei capi famiglia, dei giuramenti, delle regole, dei simboli, dei codici. La mafia, in Sicilia, aveva un nome, quel nome era “Cosa Nostra”. Falcone disse di Buscetta che fu come un professore che gli insegnava una lingua straniera permettendogli di comunicare con le parole e non più con i gesti. Dopo la morte di Falcone, Buscetta lo ricordò così: “Era il mio faro, ci capivamo senza parlare. Era intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a parlare con lui”. Buscetta aveva piena fiducia in Giovanni Falcone non si fidava di nessun altro perché era convinto che lo Stato italiano non avesse veramente l’intenzione di combattere la mafia. Oggi a quanto pare le cose non sembrano cambiate di molto rispetto al passato. (Vincenzo Musacchio, Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise) 30.9.2020 articolo 21

 


Cinquant’anni fa si iniziò a parlare di Tommaso Buscetta

Divenne poi uno dei più importanti collaboratori di giustizia e grazie a lui si scoprì come funzionava la mafia siciliana

Cinquant’anni fa, il 3 dicembre del 1972, nelle prime ore del mattino, all’aeroporto romano di Fiumicino un uomo scortato da due poliziotti brasiliani scese dalle scalette di un aereo dell’Alitalia. Il volo arrivava da Rio de Janeiro. In fondo alla scaletta, ad attenderlo, c’era un’auto della polizia: l’uomo fu fatto salire a bordo e venne portato nel carcere romano di Regina Coeli. Da lì, il giorno seguente, venne scortato fino a Palermo, destinazione carcere dell’Ucciardone, in mezzo alla città, vicino al porto. I giornali scrissero che all’arrivo aveva con sé una sola valigia: dentro c’era uno smoking.

L’uomo si chiamava Tommaso Buscetta. Il suo era un nome noto tra le cosche mafiose palermitane e tra chi si occupava di mafia. Lo chiamavano “don Masino” o “faccia d’Indio”. Poi i giornali iniziarono a definirlo “il boss dei due mondi” perché aveva svolto la sua attività criminale sia in Europa che in America. Dodici anni più tardi avrebbe sceso nuovamente la scaletta di un aereo, estradato una seconda volta, e per la mafia sarebbe diventato “il traditore”, o meglio “l’infame”.

Insieme a Patrizio Peci, ex militante delle Brigate Rosse, Tommaso Buscetta fu il più importante collaboratore di giustizia della storia d’Italia. Grazie a lui si scoprì come funzionava a livello decisionale la mafia siciliana, com’era strutturata, chi comandava e come. Parlò dei collegamenti di Cosa Nostra con la politica siciliana e nazionale, dei collegamenti internazionali, rivelò i nomi degli uomini delle cosche all’interno delle amministrazioni locali. E parlò degli omicidi: i motivi, chi li aveva decisi, chi erano stati gli esecutori materiali. Raccontò anche che cosa avvenne nel corso delle due guerre di mafia, quella del 1962 e quella tra il 1981 e il 1984, quando i corleonesi guidati da Totò Riina, non riuscendo a colpire lui, uccisero due suoi figli (scomparsi e mai più ritrovati), un fratello, un genero, un cognato, quattro nipoti e altri due parenti più lontani. In tutto vennero uccisi undici suoi familiari.

Quella di Tommaso Buscetta è una storia atipica nel mondo di Cosa Nostra. Non apparteneva infatti a una famiglia di mafiosi: a Palermo, suo padre era un artigiano e produceva specchi ornamentali. Tommaso era l’ultimo di 17 figli. Durante la Seconda guerra mondiale cominciò a fare piccoli furtarelli, ai soldati tedeschi prima e a quelli americani dopo, di cibo e altri generi di prima necessità da rivendere al mercato nero. Entrò a far parte della cosca mafiosa di Porta Nuova: a 17 anni ebbe la punciuta, cioè gli punsero il dito per fargli uscire il sangue e fargli giurare fedeltà alla sua famiglia mafiosa. Un anno prima, a 16 anni, si era sposato. Per la cosca gestì negli anni Cinquanta e Sessanta il contrabbando internazionale di sigarette e il traffico di stupefacenti, viaggiando in tutto il mondo con passaporti falsi. Alla fine della sua carriera criminale aveva utilizzato 200 identità fittizie.

In quegli anni, nel primo dopoguerra, venne arrestato due volte, la prima mentre era a bordo di un camion con un carico di sigarette, un’altra, sempre con l’accusa di contrabbando, mentre era in un albergo di Roma in compagnia di una donna che non era sua moglie. Nelle famiglie di Cosa Nostra l’adulterio veniva mal tollerato e per questo subì una sorta di processo mafioso da parte della sua cosca.

Si avvicinò a un’altra famiglia vicina a quella di Porta Nuova, i Greco di Ciaculli, guidata da Michele Greco: allora era la famiglia mafiosa dominante a Palermo. Conobbe Totò Riina e Bernardo Provenzano, i cosiddetti Corleonesi. Partecipò alla prima guerra di mafia, nel 1962, durante la quale si scontrarono le cosche palermitane. Buscetta si schierò dalla parte dei Greco e contro i La Barbera. In quell’occasione riuscì a sfuggire a un agguato nel centro di Palermo investendo i due sicari che stavano per sparargli.

Fu poi accusato di aver partecipato alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963: un’autobomba doveva colpire Salvatore Greco, che nonostante il cognome apparteneva alla famiglia dei La Barbera, ma qualcuno avvertì le forze dell’ordine. Quando avvenne l’esplosione, attorno all’auto c’erano poliziotti, carabinieri e soldati. Morirono in sette: quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un sottufficiale di polizia. Buscetta negò sempre di aver partecipato alla strage, ma venne sospettato. Per questo decise di lasciare l’Italia, fuggendo prima in Svizzera, poi in Messico, quindi in Canada e poi negli Stati Uniti. A New York, con i soldi che gli furono prestati dalla famiglia italoamericana dei Gambino, aprì una pizzeria.

Negli Stati Uniti Buscetta era arrivato con la sua fidanzata, Vera, da cui aveva avuto una figlia. Chiese però anche alla moglie, Melchiorra, di raggiungerlo con gli altri quattro figli, tre maschi e una femmina. A New York Buscetta aveva quindi due famiglie, ognuna ignara dell’esistenza dell’altra. Aprì altre due pizzerie.

Intanto, in un processo contro vari mafiosi che si tenne a Catanzaro, venne condannato a dieci anni di carcere per associazione a delinquere. Durante gli anni vissuti negli Stati Uniti, fece comunque più volte ritorno in Italia per partecipare a riunioni per la ricostruzione della “cupola”, cioè del gruppo dirigente di Cosa Nostra, dopo la guerra di mafia. 

Nel 1970 venne arrestato negli Stati Uniti e rilasciato dopo il pagamento di una cauzione di 75 mila dollari. Andò in Brasile, lasciando sia la moglie sia la fidanzata. Nel paese sudamericano si fidanzò con una ragazza di vent’anni, Maria Cristina de Almeida Guimaraes, figlia di un avvocato molto famoso a Rio de Janeiro. Iniziò a lavorare nel suo studio ma contemporaneamente organizzò un poderoso traffico di eroina e cocaina verso gli Stati Uniti. Lo arrestarono nel 1972 assieme a una banda di trafficanti italoamericani, italobrasiliani e corsi: in un deposito trovarono che il gruppo conservava eroina per 25 miliardi di lire (più di 200 milioni di euro di oggi).

Per molti giorni venne torturato dalla polizia brasiliana che voleva estorcergli una confessione e avere i nomi di tutti i suoi complici. Il giudice Giovanni Falcone disse di lui: «Non bisogna dimenticare che quando la polizia brasiliana, torturandolo, gli staccò le unghie dei piedi si limitò a ribadire: “mi chiamo Tommaso Buscetta”. Lo portarono in aereo sopra San Paolo. Aprirono il portellone, minacciarono di lanciarlo nel vuoto. Nulla. Né gli fecero cambiare parere le scosse elettriche o il fatto di essere stato legato ad un palo mani e piedi: non svelò mai i reati commessi, né quello che sapeva».

Il 3 dicembre 1972 venne estradato in Italia. Scontò la pena prima a Palermo e poi a Torino. In quegli anni, raccontò dopo aver iniziato a collaborare con la giustizia, fu avvicinato da un uomo di Francis Turatello, boss della malavita milanese, che gli chiese l’aiuto delle cosche palermitane per individuare la prigione di Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. Buscetta disse che furono poi i corleonesi a bloccare l’iniziativa.

Nel 1980, dopo che gli fu concessa la semilibertà, divenne nuovamente latitante e tornò in Brasile dove si sottopose a un intervento di plastica al volto per rendersi irriconoscibile.

Quando iniziò la seconda guerra di mafia nel 1981 lui era lontano dall’Italia. I corleonesi uccisero i loro principali avversari, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Buscetta era legato ai due boss uccisi e le cosche rivali dei corleonesi, indebolite, gli avevano chiesto di rientrare in Sicilia per guidarle nella riscossa contro Totò Riina, che per questo lo mise nella lista dei suoi principali obiettivi.

Il 23 ottobre 1983, Tommaso Buscetta venne arrestato dalla polizia brasiliana assieme alla moglie Cristina e ad alcuni suoi complici. Il mandato d’arresto era legato ad alcuni omicidi compiuti in Brasile nell’ambito del traffico di stupefacenti. Sia l’Italia sia gli Stati Uniti chiesero l’estradizione. Nel 1984, a luglio, i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci andarono a Brasilia per convincerlo a diventare collaboratore di giustizia. Buscetta non rispose, disse che avrebbe preso in considerazione l’ipotesi. Quando, una volta decisa l’estradizione verso l’Italia, Buscetta fu caricato su un furgone che l’avrebbe condotto all’aeroporto, ingerì della stricnina che aveva nascosto sotto le unghie. La quantità non era tale da provocare la sua morte, ma l’estradizione venne sospesa per qualche giorno.

Buscetta arrivò alla fine in Italia scortato da Gianni De Gennaro, allora capo del Nucleo centrale anticrimine della polizia. Scese nuovamente ammanettato la scaletta dell’aereo, esattamente come 12 anni prima. Era malfermo sulle gambe, per via dell’assunzione della stricnina, e teneva una coperta a righe per coprire i polsi con le manette.

 Il 17 luglio 1984 incontrò, nella sede della Criminalpol di Roma, i giudici Falcone e Geraci. Era presente anche De Gennaro. Iniziò così la sua collaborazione:

Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la Giustizia, senza pretendere sconti o abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano.

Buscetta rivelò l’organigramma di Cosa Nostra spiegando che la mafia era un’organizzazione unitaria retta da una commissione, la cosiddetta “cupola”. Era ciò che Falcone sosteneva da tempo: la descrizione della mafia come organizzazione unitaria passò alla storia come “teorema Buscetta”. Spiegò che a capo dei corleonesi, vincitori della seconda guerra di mafia, c’era Luciano Liggio, detenuto in carcere, e che i suoi due vice erano Bernardo Provenzano e Totò Riina, questo secondo molto più intelligente e determinato.

I colloqui con Giovanni Falcone furono molti e lunghi. Disse Falcone: «Perché parla Buscetta? È animato da un fortissimo spirito di rivincita; sa di trovarsi con le spalle al muro. Ma c’è un’altra componente che riguarda la sua biografia. Ha girato il mondo. Gli hanno raccontato del secondo matrimonio del capo di una delle cinque famiglie di Cosa Nostra americana al quale assistette il figlio della sua prima moglie, mentre lui era stato aspramente criticato perché “aveva l’amante”. Ha rotto da tempo, è questo che voglio dire, con una subcultura tipicamente siciliana».  

L’ultimo colloquio avvenne il 19 novembre 1984. Buscetta chiese che venisse messa a verbale questa dichiarazione: 

Sono stato ispirato solo dalla mia coscienza e non già da desiderio di rivincita o di vendetta: quest’ultima, infatti, non ha mai restituito quello che si è perduto per sempre. La mia scelta, quindi, maturata nel tempo, non è condizionata da rancori personali e tanto meno dall’aspirazione ad eventuali norme di favore per i cosiddetti pentiti. Mi sono reso conto da tempo che l’epoca in cui viviamo è incompatibile coi principi tradizionali di Cosa Nostra e che quest’ultima si è trasformata in una banda di feroci assassini. Non temo la morte, né vivo col terrore di essere ucciso dai miei nemici, quando verrà il mio turno, affronterò la morte, senza paura. Ho scelto questa strada in via definitiva ed irreversibile e lotterò con tutte le mie forze affinché Cosa Nostra venga distrutta. So bene quali umiliazioni e quali sospetti sul mio conto sarò costretto a subire e quanta gente male informata o in mala fede ironizzerà su questa mia scelta di vita; ma, anche se sarò deriso, o peggio, chiamato bugiardo, non indietreggerò di un millimetro e cercherò di indurre tutti quelli che ancora sono indecisi a seguire il mio esempio per finirla una volta per tutte con un’organizzazione criminale che ha arrecato solo lutti.

In seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta vennero emessi 366 mandati di cattura nel corso di un’operazione denominata “San Michele”. Nel 1986 testimoniò al processo contro Cosa Nostra, il “Maxiprocesso”. Un anno prima era stato trasferito negli Stati Uniti dove aveva ricevuto la cittadinanza, una nuova identità ed era stato messo sotto protezione in cambio di rivelazioni sulla mafia americana. Testimoniò nel processo americano chiamato “Pizza connection”.

Dopo gli attentati in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, Buscetta accettò di parlare dei rapporti tra mafia e politica. Prima di incontrare i magistrati venne sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. In precedenza si era sempre rifiutato di farlo. Disse al presidente della commissione, Luciano Violante:

Che cosa è cambiato dopo la morte del giudice Falcone e Borsellino? È cambiata una predisposizione nuova, un interessamento maggiore, una volontà a fare meglio di come si è fatto fino a pochi mesi fa; quindi mi trovo pronto alla collaborazione. Oggi in questa sede non ho nessuna intenzione di fare nomi di politici, non ho nessuna intenzione di sollevare polveroni; ho intenzione di farli e li farò ai giudici i quali non solleveranno polveroni, faranno indagini ed il nome del politico verrà fuori quando sarà opportuno che ciò accada. È assurdo che si debba sentire che Buscetta Tommaso parla a ruota libera con la trasmissione seguita, per poi domani sentirmi denunciare per calunnia. Non voglio essere calunniato e non calunnio. Le mie sono verità, ma quelle mie; se poi posso provarle o no, sarà competenza della giustizia appurare se le mie dichiarazioni siano vere o no. È mia convinzione che con le opportune inchieste giudiziarie, con il mio apporto – perché sono totalmente a disposizione – si potrà scoprire effettivamente questo rapporto. 

Buscetta raccontò che Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti gli avevano rivelato che Giulio Andreotti aveva chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Disse anche che il giornalista Mino Pecorelli, assassinato il 20 marzo 1979 a Roma, era stato ucciso sempre per volere di Andreotti:

Secondo quanto ho dedotto dalle mie conversazioni con Bontate, l’omicidio Pecorelli era stato un delitto “fatto” da Cosa Nostra, e più precisamente da lui stesso e da Badalamenti, su richiesta dei cugini Salvo “richiesti” a loro volta dall’onorevole Andreotti. Due anni dopo, nel 1982, Badalamenti mi ripeté in termini assolutamente identici la versione di Bontate. Pecorelli era stato assassinato perché stava appurando “cose politiche” segretissime collegate al caso Moro. Giulio Andreotti era estremamente preoccupato che potessero trapelare questi segreti di cui era a conoscenza anche il generale dalla Chiesa. “Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui”, commentò Badalamenti, “non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio nei suoi confronti”. In effetti, dalla Chiesa non aveva avuto tempo di minacciare seriamente Cosa Nostra.

Tommaso Buscetta è morto di cancro a Miami, negli Stati Uniti, il 2 aprile 2000. Sulla sua lapide, per ragioni di sicurezza, è stato inciso un nome. IL POST


Buscetta era molto deluso dalla deriva presa da Cosa Nostra e soprattutto dall’avvento dei Corleonesi, guidati da Totò Riina. Aveva intuito due aspetti importanti. Il primo: il cambiamento strutturale che aveva portato il commercio della droga nella vita delle famiglie. Troppi soldi facili, troppi personaggi che aspiravano a comandare a Palermo e che minavano alla base le regole di convivenza dentro Cosa Nostra in città. Il secondo: questa Cosa Nostra era cambiata, si era allontanata dai valori fondati e prima o poi sarebbe stata sconfitta dallo Stato, a maggior ragione se avessero comandato i Corleonesi, che lui considerava vincenti nella guerra che si prospettava all’orizzonte per il controllo dell’organizzazione. Di questo parlava con i suoi amici palermitani e per questo decise di non lasciarsi coinvolgere, ma di sparire ancora una volta in Brasile, sottoponendosi all’ennesima plastica facciale per rendersi irriconoscibile, anche perché aveva saputo di essere sulla lista dei nemici di Riina. Era talmente vero che il corleonese ordinò, tra il 1982 e il 1984, il sequestro e la sparizione di due dei suoi figli e l’uccisione del fratello, di un genero, un cognato e quattro suoi nipoti. Buscetta fu arrestato il 23 ottobre 1983 in Brasile e contattato nel 1984 da Giovanni Falcone, che cercò di convincerlo a collaborare. Fu in quell’occasione che iniziò il dialogo tra il magistrato e il mafioso che, in seguito all’estradizione ottenuta dal governo italiano nel giugno 1984, diventò una testimonianza fondamentale per istruire il più importante e decisivo processo alla mafia. Un testimone perché Buscetta rifiutava la definizione pentito. In seguito, lo stesso Giovanni Falcone spiegò l’importanza del contributo di Tommaso Buscetta.  (dal libro di Ettore Gobbato -TOTO’ RIINA IL BOSS-)

 

La cattura in Brasile, il veleno e il pentimento di don Masino


In data 28 maggio 1984, venivano, altresì, riuniti al procedimento principale gli atti provenienti dallo stralcio, effettuato, limitatamente all’imputazione di associazione per delinquere, dal procedimento penale contro Marchese Filippo ed altri, imputati della così detta “Strage di Natale” e contrassegnato con la lettera H.

L’episodio risale al 25 dicembre 1981, allorché a Bagheria, a conclusione di uno spettacolare inseguimento automobilistico, nel corso del quale venivano esplosi numerosissimi colpi d’arma da fuoco, venivano uccisi, oltre ad un ignaro passante (tale Valvola Onofrio), Pitarresi Biagio e Di Peri Giovanni, mentre un terzo uomo, Pitarresi Antonino, veniva sequestrato e poi fatto scomparire dagli assalitori, che avevano esaurite le munizioni.

Una successiva operazione di Polizia portava all’arresto, in data 15 gennaio 1982, nella borgata di Brancaccio, di Marchese Giuseppe, Spadaro Francesco ed Inchiappa Giovan Battista a bordo di un’autovettura, nella quale venivano rinvenute e sequestrate due rivoltelle calibro 38 special e numerosissime munizioni.

Le impronte digitali rilevate a Marchese Giuseppe al momento dell’arresto, coincidevano con quelle rilevate sull’autovettura Fiat 128 targ. PA 395807, usata dagli assassini per la consumazione della “Strage di Natale” e poi abbandonata sui luoghi del delitto.

Tali conclusioni venivano confermate dalla perizia dattiloscopica collegiale depositata dai periti Giaccone, Miranda e Sammarco, il 14 maggio 1982. Intanto, nel prosieguo dell’istruttoria del procedimento principale, veniva sentito dal G.I. Come teste, dapprima in data 5 e 6 aprile 1984 e poi il 21 giugno 1984, Melluso Giovanni, un “camorrista” che, avendo deciso di collaborare,

riferiva intorno a fatti e circostanze appresi nel corso della sua lunga detenzione, riguardanti principalmente Fidanzati Gaetano, le confidenze da questi ricevute ed i suoi collegamenti con altri componenti dell’organizzazione mafiosa.

In data 13 aprile 1984, veniva, altresì, sentito Bruno Felice, detenuto a Genova per episodi di traffico di stupefacenti, il quale si dichiarava a conoscenza di diverse vicende concernenti le organizzazioni mafiose siciliane e disposto a collaborare.

Egli giustificava il versamento in un conto corrente nella sua disponibilità, anche se formalmente intestato a Gatto Luigi, di assegni per 21 milioni, come parte del maggior prezzo di 120 milioni, versatigli da Vernengo Antonino per la costruzione di una villa.

Affermava, altresì, di conoscere Vernengo Pietro e Vernengo Giuseppe. Per le condizioni di salute del teste, sottoposto di recente ad un intervento di colecistectomia, l’interrogatorio veniva interrotto e ripreso dopo la traduzione del Bruno Felice nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, in data 17 luglio 1984. In tale occasione, il teste effettuava dei riconoscimenti fotografici che pero’ non voleva inizialmente registrare a verbale, perche’ preoccupato per la sua fisica incolumita’ in relazione alle dichiarazioni rese. Successivamente, dopo che il giudice dava atto a verbale delle dichiarazioni comunque rese, finiva per confermare tutto quanto precedentemente detto.

A questo punto dell’istruttoria, si verificava un fatto nuovo che imprimeva un decisivo ed ulteriore impulso alle indagini.

Il 14 luglio 1984 rientrava in Italia, estradato dal Brasile dopo un lungo iter procedurale, Buscetta Tommaso, indicato per decenni dagli organismi di Polizia di tutto il mondo come un mafioso di rango e un trafficante di stupefacenti.

Questi, ormai isolato all’interno dell’organizzazione e ricercato dagli avversari, che, peraltro, gli avevano ucciso numerosi congiunti, violando taluni dei principi cardine dell’organizzazione di cui faceva parte, quali l’omertà, la segretezza, il rifiuto dell’autorità dello stato, decideva di collaborare con l’Autorità Giudiziaria, offrendo una chiave di lettura, dall’interno, del fenomeno mafioso, delle vicende dell’organizzazione, delle sue strutture, degli appartenenti ad essa e delle loro principali attività criminose.

Tale collaborazione, iniziata con l’interrogatorio del 16 luglio 1984, proseguiva pressocché ininterrottamente sino al settembre dello stesso anno.

Durante tale periodo, si acquisivano agli atti il procedimento penale contro ignoti imputati dell’omicidio di Spica Antonino e Romano Pietro, nonché la copia degli atti del procedimento penale contro Lo Presti Gaetano + Il, imputati dell’omicidio di Marchese Pietro.

Inoltre, a conclusione di approfondite indagini bancarie, venivano sentiti Trombetta Guido, sulla negoziazione di titoli per 600 milioni circa ad opera di impiegati della SATRIS S.P.A., e Di Pace Giuseppe, in relazione al riciclaggio di ingenti quantitativi di dollari statunitensi.

Veniva, quindi, nuovamente interrogato dal G.I., in data 31 agosto 1984, Perina Giovanni, il quale, dopo iniziali resistenze, finiva con l’ammettere di essere chiamato “Ciccio” e decideva di collaborare con l’Autorità Giudiziaria, confermando quanto già dichiarato da Azzoli Rodolfo e cioè che per un periodo di tre-cinque mesi, a partire dal 1978, aveva ricevuto dallo stesso alcune partite di eroina come intermediario nei traffici di stupefacenti della “famiglia” Grado.

Venivano, altresì, acquisite in copia le dichiarazioni rese al P.M. da Coniglio Salvatore il 10, 14, 17 e 27 luglio 1984 ed il 5 settembre 1984, che avevano consentito l’instaurazione del procedimento penale contro Anselmo Vincenzo + 46 (processo cosi’ detto di “Nonna eroina”), per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti.

Il Coniglio Salvatore, interrogato poi direttamente dal G.l., in data 21 settembre 84, nel confermare le precedenti dichiarazioni, forniva importanti elementi di prova circa un’imponente attività di approvvigionamento, distribuzione e spaccio di eroina e cocaina tra Palermo ed altre città del Nord, tra cui principalmente Milano, da parte di una organizzazione che presentava tra i suoi elementi di spicco personaggi collegati all’organizzazione mafiosa.

A seguito, poi, delle dichiarazioni di Buscetta Tommaso, che aveva posto in risalto l’unitarietà dell’organizzazione e la riconducibilità ad essa ed ai suoi capi di tutti i delitti connessi alla “guerra di mafia”, con provvedimento del 28 settembre 1984, veniva ordinata la riunione di vari procedimenti la cui istruzione si era svolta separatamente, ed in particolare: il procedimento contro ignoti imputati dell’omicidio in persona di Ienna Michele ed i relativi accertamenti balistici, secondo cui tale omicidio e quelli di Teresi Francesco Paolo e Di Fresco Francesco, erano stati commessi con la stessa arma; il procedimento contro. ignoti imputati di minacce a Procaccianti Paolo perito dell’Istituto di Medicina Legale dell’università di Palermo; il procedimento contro ignoti imputati di omicidio in persona di Badalamenti Agostino, figlio di Badalamenti Natale; il procedimento contro ignoti imputati di omicidio in persona di Badalamenti Silvio, nipote di Badalamenti Gaetano; infine, i procedimenti contro ignoti imputati degli omicidi di Mineo Giuseppe e Mineo Antonino, di Mazzola Paolo, di Buscetta Benedetto e Buscetta Antonino, di Pesco Vincenzo, di La Mattina Nunzio, di Badalamenti Salvatore, di Bellini Calogero, nonché di tutti gli ulteriori omicidi ricollegabili alla “guerra di mafia”.

Sulle tracce del misterioso “Roberto”, al secolo Tommaso Buscetta

Venìvano, altresì, acquisiti gli atti del procedimento contro Santagatì Filippo ed altri, istruito dal G.I. di Torino, dai quali si evidenziavano gli intercorsi rapporti tra Buscetta Tommaso, allora in stato di semi-liberta’ a Torino, e Faraone Nicola, documentati dal foglio di un taccuino, sequestrato alla convivente di quest’ultimo, Colizzì Anna, ove risultava annotato il nome del Buscetta, il soprannome Roberto, sotto il quale costui si celava, ed il nome del dì lui suocero Guìmares.

Quest’ultimo elemento si rilevava senz’altro una traccia molto interessante e decisiva per lo sviluppo delle indagini del presente procedimento, tant’è che a seguito di una serie di accertamenti esperiti in Brasile, come riferito con rapporto della Criminalpol del 15 dicembre 1983, veniva tratto in arresto Buscetta Tommaso e con lui Badalamenti Leonardo, Sansone Fabrizio Noberto ed altri.

Ulteriori elementi sulla presenza di Buscetta a Torino nel 1980 erano forniti da Fragomeni Armando, il quale, interrogato dal G.I. di Palermo il 19 dicembre 1983, nella qualità di imputato di reati connessi, nell’ammettere di essere uno spacciatore di droga operante sulla piazza di Torino e Milano, riferiva di avere conosciuto il gestore di un maneggio a Moncalieri a nome Vessichelli Antonio, che gli aveva presentato Buscetta Tommaso, vantandone la potenza nell’ambito delle organizzazioni mafiose.

Il Vessichelli si era offerto di rifornirlo stabilmente di cocaina e ne aveva, in effetti, ceduto una partita, presentandogli, successivamente, Procida Salvatore e Faraone Nicola, con i quali aveva poi intensificato i suoi rapporti di approvvigionamento di sostanze stupefacenti, soprattutto dopo un significativo episodio avvenuto in Palermo nel mese di agosto 1980.

A seguito di tale dichiarazione veniva emesso il mandato di cattura n.32/84 del 2 febbraio 1984, del G.I. del Tribunale di Palermo, nei confronti di Procida Salvatore e Vessichelli Antonio, contestando loro i reati di associazione per delinquere aggravata e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.

Nel corso dell’istruttoria venivano poi acquisite numerose dichiarazioni di soggetti appartenenti alla “camorra” napoletana, che avevano deciso di collaborare con la Giustizia, ed, in particolare, gli interrogatori resi il 17 novembre 1983 al G.I. di Milano da parte di Barra Pasquale, Incarnato Mario e D’Amico Pasquale.

Costoro, interrogati particolarggiatamente dal G.I. del Tribunale di Palermo, riferivano poi sui rapporti esistenti tra la mafia palermitana e le famiglie napoletane dei Nuvoletta, Zaza e Bardellino, soprattutto nell’ambito del contrabbando dei tabacchi lavorati esteri e del traffico di droga.

L’esistenza di tali organici rapporti veniva confermata, altresì, da Melluso Giovanni, il quale, così come avevano già fatto Incarnato Mario e D’Amico Pasquale, forniva interessanti elementi sui comportamenti tenuti e sulle dichiarazioni fatte da soggetti ritenuti appartenenti alle organizzazioni mafiose palermitane nel corso della comune detenzione ed in particolare da parte di Fidanzati Gaetano.

Sulle voci correnti nell’ambito carcerario nei confronti di personaggi aventi spessore mafioso, veniva sentito dal G.I. di Palermo, in data 24 febbraio 1984, anche Maltese Salvatore e, sulle indagini concernenti il traffico di stupefacenti organizzato dai fratelli Grado, venivano sentiti, in data 15 marzo ’84, nella qualità di indiziato, Perina Giovanni e nella qualità di imputati di reati connessi (ex art.348 bis C.P.P.), D’Arcangelo Romolo e Crespiatico Agostina.

Tutti i segreti di Cosa nostra e la “lettura dall’interno” di don Masino

Il traffico internazionale di stupefacenti (soprattutto di eroina) è in atto, senza dubbio, l’affare più lucroso della organizzazione mafiosa siciliana. È sorto come naturale evoluzione del contrabbando di tabacchi, del quale utilizza sempre più integralmente le strutture, e lo ha gradatamente sostituito quasi per intero.

Dal complesso delle risultanze probatorie acquisite nel presente procedimento, si può trarre la conclusione che nel traffico di stupefacenti vi sono membri di “Cosa nostra” impegnati operativamente, che si organizzano, associandosi, entro determinati limiti, anche con persone non appartenenti all’associazione, e che tutta “Cosa nostra” partecipa finanziariamente al traffico, nei modi stabiliti dalla “commissione” e dai “capi famiglia”.

Sulla base della constatata gestione unitaria del traffico dell’eroina da parte della associazione mafiosa, appare indispensabile, ai fini delle conseguenze giuridiche da trarre in ordine ai delitti di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti e di traffico di droga, per i quali sono stati condannati taluni imputati, innanzitutto stabilire come sia strutturato tale traffico.

A prima vista, sembrerebbe ovvio che, essendo il traffico di stupefacenti tra le finalità primarie di “Cosa nostra”, chiunque appartenga a tale associazione mafiosa debba rispondere, per ciò stesso, anche dei reati concernenti gli stupefacenti, a prescindere da qualsiasi suo accertato e specifico coinvolgimento nel traffico stesso.

Una attenta verifica delle risultanze processuali consente, tuttavia, di affermare che l’equazione mafioso= trafficante di droga non può accettarsi. Soccorrono, al riguardo, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il quale ha consentito una “lettura dall’interno” della struttura e del funzionamento di “Cosa nostra” anche in relazione al traffico di stupefacenti.

Ha, infatti, riferito testualmente il Buscetta: “La S.V. mi chiede di quali notizie io sia in possesso in ordine al traffico di stupefacenti e di eroina in particolare. Al riguardo, mi risulta quanto segue.

Ritornato a Palermo, nel giugno 1980, mi accorsi che un grande benessere investiva un pò tutti i membri di Cosa nostra. Stefano Bontate mi spiegò che ciò era la conseguenza del traffico di stupefacenti. Egli che concordava con me nel ritenere che il traffico di stupefacenti avrebbe portato alla rovina Cosa nostra mi disse che all’origine vi era stata l’iniziativa di Nunzio La Mattina. Il contrabbando di tabacchi cominciò ad essere abbandonato da Cosa nostra all’incirca verso il 1978, sia per gli aumentati rischi sia per le beghe interne che spesso mandavano a monte affari importanti. Il La Mattina che, quale contrabbandiere, aveva avuto modo di avvicinarsi alle fonti di produzione e di approvvigionamento della materia prima per la produzione dell’eroina, ritenne di tentare la sorte e riuscì a convincere gli esponenti più autorevoli di Cosa nostra.

Ad un certo punto, avvenne che l’approvvigionamento della materia prima era riservato all’attività di Tommaso Spadaro, Nunzio La Mattina e Pino Savoca, i quali, però, lavoravano ognuno per conto proprio, mantenendo gelosamente segreti i propri canali.

Gli altri partecipavano solo finanziariamente a tale lucrosissima attività nel senso che si quotavano per finanziare l’acquisto e la raffinazione dell’eroina, ritirando, poi, dai laboratori palermitani il prodotto finito. Ed è da rilevare che in questo settore, come già del resto nel contrabbando, le divisioni delle varie famiglie non operavano più, nel senso che ognuno si poteva associare con chi voleva. lo, forse, sono stato l’unico uomo d’onore di Palermo a non avere mai avuto alcuna parte in tali traffici, sia perché, come ho già detto, ne vedevo l’estrema pericolosità per la stessa sopravvivenza di Cosa nostra, sia perché, anche per effetto della mia carcerazione, ero stato tenuto in disparte.

Stefano Bontate sosteneva anche egli di essere estraneo, ma, per amore di verità, non saprei se quanto egli diceva corrispondeva al vero, poiché, nella materia, ognuno si teneva per sè quanto faceva. Vero è che l’uomo d’onore ha l’obbligo di dire sempre la verità ma solo per la materia attinente a Cosa nostra; gli affari, invece, non riguardavano la mafia ed ognuno può associarsi con chi vuole. Va da sè, però, che se ci si associa fra uomini di onore, si ha l’obbligo di comportarsi correttamente e di dire sempre la verità anche nei rapporti di affari che riguardino tali uomini di onore.

Ricordo, in proposito, che Pippo Calò tolse a Masino Spadaro la qualifica di vice capo di Porta Nuova perché lo Spadaro si era comportato scorrettamente in affari di contrabbando di tabacchi che riguardavano anche altri uomini d’onore e, precisamente, lo stesso Pippo Calò. Se, invece, lo Spadaro avesse frodato persone non mafiose, nessun uomo d’onore avrebbe potuto chiedergli nulla e, soprattutto, lo Spadaro non avrebbe avuto l’obbligo di dire la verità.

Altro uomo d’onore che non avrebbe potuto partecipare al traffico di stupefacenti era Gaetano Badalamenti, il quale, per altro, mi ha sempre detto di essersi mantenuto estraneo.

E ciò, non perchè il Badalamenti non volesse partecipare, ma perchè, essendo stato “posato”, non avrebbe potuto in alcun modo prendere contatti con gli uomini d’onore che gestivano il traffico. Tuttavia, proprio per le considerazioni testè fatte, non so dire se quanto riferitomi dal Badalamenti risponde al vero. C’è da dire, però, che se ha partecipato clandestinamente a tale attività, prendendo contatti con uomini d’onore che nemmeno avrebbero dovuto avvicinarlo, ciò significa che veramente il danaro ha corrotto tutto e tutti, poichè sarebbe stata commessa una gravissima violazione. C’è da dire, ancora, che, per le esigenze del traffico, è stato necessario ricorrere anche ad uomini non mafiosi e ciò è stata causa non ultima della confusione che si è venuta a creare.

In buona sostanza, quando sono arrivato a Palermo ho trovato, accanto ad una incredibile ricchezza, una altrettanto grave confusione nei rapporti fra le varie famiglie e gli uomini d’onore, tanto che mi sono reso subito conto che i principi ispiratori di Cosa nostra erano definitivamente tramontati ed era meglio per me che me ne andassi via da Palermo al più presto, non riconoscendomi più in quella organizzazione cui avevo creduto da ragazzo. DOMANI