AUDIO – deposizioni di Umberto Sinico ai processi
Le rivelazioni del colonnello dei carabinieri Sinico sentitocome teste al processo Mori
Paolo Borsellino sapeva di dover morire, ma andò incontro al suo destino senza sottrarsi, senza indietreggiare. Fa effetto ascoltare dalla voce di chi col giudice ucciso in via D’Amelio ha condiviso gli ultimi giorni la cronaca di una sorta di «sacrificio» annunciato. Dal banco dei testi per deporre al processo per favoreggiamento al generale dei carabinieri Mario Mori, il colonnello Umberto Sinico, ricorda commosso «la lucida consapevolezza» con cui il magistrato affrontò la sua sorte.
«Dopo l’uccisione di Falcone aveva fretta – racconta ai giudici – sapeva di essere il prossimo obiettivo e di non avere tempo». Ma continuava una corsa contro il tempo per cercare di capire cosa ci fosse dietro l’uccisione del collega. Sinico usa un termine forte, parla di «sacrificio» e quasi con rabbia ricorda quando, a fine giugno del 1992, poco prima dell’eccidio di via D’Amelio, andò insieme a due sottufficiali nel carcere di Fossombrone a incontrare un confidente, Girolamo D’Anna. Un mafioso di rango, nonostante fosse stato ’posatò da Cosa nostra, e di grande carisma. Fu lui a dirgli che nell’ambiente carcerario si parlava di un imminente attentato a Borsellino. «Ci disse che era arrivato l’esplosivo – racconta – E noi tornammo sconvolti a Palermo e andammo dal giudice a riferirgli tutto». «”Lo so”, ci rispose, “ma devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia”». Un modo per far capire che avrebbe lasciato allentare le maglie della sicurezza esponendosi per tutelare i suoi.
Ma il colonnello, per lunghi periodi all’Anticrimine a Palermo, del giudice ucciso nel ’92 dice anche altro: «Col Ros aveva un rapporto ottimo. Tanto che dopo la sua morte i familiari ci vollero durante il sopralluogo della polizia nella sua abitazione». Un legame quello con il Raggruppamento, ma soprattutto con Mori, fatto di fiducia e stima reciproca. Per la difesa del generale è un argomento forte contro la tesi della Procura che vede proprio nella trattativa con la mafia, condotta per i pm da Mori per conto dello Stato, la causa della strage di via D’Amelio. «Il Ros era Mori – dice Sinico – L’unico obiettivo che avevamo dopo la cattura di Riina era l’arresto di Provenzano». «Fu mai ostacolato dal generale Mori nelle indagini per arrivare al capomafia?», chiede il legale del generale. «Mai», risponde netto Sinico smentendo che sul piatto della trattativa, in cambio della fine delle stragi, il Ros avesse messo l’impunità del padrino di Corleone. E dell’impegno dei vertici e degli uomini del Raggruppamento nelle ricerche del boss parla anche un altro teste: il maggiore Giovanni Sozzo, al Ros a Palermo per anni.
Sinico ricorda con precisione tutte le indagini svolte come tessere di un puzzle che poi portò all’arresto del capomafia. E del mancato blitz di Mezzojuso, quando i militari non sarebbero intervenuti pur essendo a un passo dalla cattura e che secondo i pm sarebbe la prova dell’accordo tra mafia e Stato, parla sorridendo. «Era una sorta di caso di scuola – dice – citato per spiegarci come si procede quando un confidente dà un input». Non si rischia, non si agisce d’impeto, ma si entra in azione, quando si è certi di raggiungere l’obiettivo e ci sono le condizioni giuste. Nessun dolo, dunque, nella decisione di non intervenire a Mezzojuso nonostante le indicazioni del confidente Luigi Ilardo. Una scelta strategica che nulla aveva a che fare con l’aiuto a Provenzano.
“Borsellino sapeva dell’attentato ma si sacrificò per la famiglia”, lo rivela Umberto Sinico
Il magistrato era consapevole del destino che lo attendeva ma scelse di sacrificarsi e di non opporsi alla sua sorte: queste le parole del colonnello Umberto Sinico che ha testimoniato al processo Mori. Secondo le sue dichiarazioni i carabinieri avevano riferito a Borsellino che era in preparazione un attentato.
Lo so, lo so: devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia.
Una consapevolezza che non gli risparmiò la vita: il magistrato Borsellino fu ucciso, infatti, il successivo 19 luglio in via D’Amelio a Palermo, con lui morirono cinque uomini della sua scorta in un sacrificio che, stando appunto alle dichiarazioni di Sinico, doveva mettere al riparo la sua famiglia da eventuali ritorsioni. Erano insomma necessari, secondo Borsellino, dei momenti di tregua che, in qualche modo, avrebbero potuto effettivamente consentire quello che poi è accaduto.
Umberto Sinico ha raccontato che l’informatore fu Girolamo D’Anna, boss di Terrasini, “persona di grande carisma che veniva interpellato dai vertici della sua parte criminale”, e che era in contatto con il maresciallo Antonino Lombardo morto suicida nel 1995. Lombardo sarebbe stato il solo a parlare direttamente con D’Anna che gli disse dell’idea dell’attentato contro Paolo Borsellino.
A sentire D’Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io, Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con D’Anna, che disse dell’esplosivo e dell’idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio.
L’ultima testimonianza di Sinico diventa importante anche perché, di fatto, smentisce l’ipotesi di contrasti tra Borsellino e la sezione Anticrimine dei carabinieri di Palermo e la tesi secondo cui al magistrato possa essere stata nascosta la notizia dell’arrivo in città dell’esplosivo che il 19 luglio lo avrebbe ucciso.