Quel giorno con Paolo Borsellino

 

Falcone era stato ucciso pochi giorni prima. Incontrammo Borsellino nella sede della Mondadori, assediata da giornalisti, cineoperatori, curiosi

di Paola Scaramozzino 29 maggio 1992 TELEVIDEO

La sede della Mondadori a Roma è in via Sicilia, una traversa di via Veneto. E’ il pomeriggio del 29 maggio 1992, tutta la strada è affollata di giornalisti, cineoperatori, curiosi. Le forze dell’ordine hanno circondato il palazzo e una parte della zona è stata isolata. L’evento è importantissimo per noi giornalisti di cronaca: a una settimana dall’ attentato a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e alla scorta, avvenuto sull’autostrada all’altezza di Capaci, il 23 maggio 1992, questa è la prima uscita in pubblico di Paolo Borsellino, il magistrato che con Falcone ha condiviso la lotta a Cosa Nostra e con il Maxiprocesso ha fatto condannare oltre 360 boss . L’occasione è un incontro per l’uscita del libro di Pino Arlacchi, “Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita di un grande pentito: Antonino Calderone”, ma noi tutti aspettiamo di potergli fare delle domande sulla strage, Falcone e la Superprocura. Ed è proprio così . Tanti quesiti e le sue risposte pacate ma con parole forti senza alcun cenno di cedimento che tutti noi ascoltiamo in un silenzio pieno di tensione. Al tavolo siedono anche il ministro della Giustizia Martelli e degli Interni Scotti che pubblicamente propone a Borsellino la Superprocura, il posto che è stato di Falcone. Nella sala scende il gelo. Occhi puntati sul giudice che tradisce con il rossore la rabbia ed è chiaro a tutti che accettare quell’incarico significherebbe firmare la sua morte. Accenna un sorriso ma si adombra subito: “Non so….”,risponde. Alla fine della conferenza, ressa di personalità e curiosi, clima torrido dentro la non grande sala stampa e un commento che molti di noi fanno a denti stretti, vedendolo uscire coperto dalla scorta, con la solita sigaretta fra i denti: sarà il prossimo ad essere colpito dalla mafia. E ancora ricordo il brivido che mi ha attraversata.

“Borsellino sapeva di essere l’altro bersaglio da colpire”, il ricordo di Francesco La Licata
A un mese dall’attentato a Falcone, il 23 giugno, Borsellino ricorda Falcone, l’amico scomparso, la moglie e la scorta, nella chiesa di San Domenico a Palermo. Il 25, ventiquattro giorni prima della sua di morte, Borsellino fa una seconda uscita per intervenire ad un dibattito organizzato dalla rivista Micromega, alla biblioteca di Palermo. Chiediamo a Francesco La Licata, il maggior esperto di storia di mafia, allora inviato della Stampa, se era nell’aria la fine imminente di Paolo Borsellino.

“Borsellino – ci racconta – lo sapeva di esser destinato a morire presto. Anzi, me lo aveva detto lui stesso: “Devo fare in fretta perché ho poco tempo”. Era venuto casualmente a sapere da Liliana Ferraro, braccio destro di Falcone, che i carabinieri l’avevano informata che era in progetto un attentato su di lui. Poco dopo, all’aeroporto Borsellino incontra il ministro della Difesa, Salvatore Andò che gli fa la stessa rivelazione e quando si accorge che proprio lo stesso magistrato non era stato avvertito, in imbarazzo, gli chiede scusa. Tanto che Borsellino protesta sull’accaduto con il procuratore della Repubblica, Piero Giammanco con il quale ci sarà sempre un forte attrito . Borsellino ha fretta perché più che la Superprocura Antimafia che era uno degli obiettivi di Falcone, vuole lavorare e mettere le mani sull’altro argomento che stava a cuore ad entrambi: la ricostruzione dei legami fra la mafia e gli appalti. Non è riuscito a farlo”.

Come non ha avuto il tempo di indagare su una notizia che gli era arrivata pochi giorni prima di essere ucciso: la trattativa fra uomini di Stato e la mafia per mettere fine alle stragi. A 20 anni di distanza è cambiato qualcosa? – chiediamo a La Licata. “Sì, dire di di sì. Intanto i maggiori capi di Cosa nostra sono in carcere anche se non si deve dimenticare che questa organizzazione mafiosa è la più potente del mondo perché ha valenze politiche e invade la finanza, l’economia, il tessuto sociale. Fino a quando in Sicilia per aprire un’attività si deve pagare il pizzo, non possiamo proprio dire che la mafia è sconfitta.”.