XIX RAPPORTO SULLE CONDIZIONI DI DETENZIONE

Antigone_XIXRapporto


Capienze e presenze
I numeri del carcere in Italia continuano lentamente, ma inesorabilmente, a crescere. A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674. Le donne, 2.480, rappresentavano il 4,4% delle presenze. Gli stranieri, 17.723, il 31,3%.
Dal 30 aprile 2022, dunque in un anno, la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è più o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva.
A fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%, oggi le regioni più affollate sono la Puglia (137,3%), la Lombardia (133,3%) e la Liguria (126,5%). Ai posti regolamentari come è noto vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646. Il tasso reale di affollamento medio sale dunque al 119% e a livello regionale le situazioni più preoccupanti si registrano in Lombardia (151,8%), in Puglia (145,7%) e in Friuli-Venezia Giulia (135,9%).

Le persone detenute
Nel frattempo l’età media della popolazione detenuta continua a crescere. Gli over 50 erano alla fine del 2022 il 29%. Dieci anni prima, alla fine del 2011, erano il 17%. Nello stesso intervallo di tempo gli over 70 sono raddoppiati, passando da 571 (1%) a 1.117 (2%). Gli under 25 dal 10 al 6%.
Le conseguenze di tutto questo sul carcere sono ovviamente prevedibili. Una popolazione detenuta più anziana da un canto ha ovviamente una maggiore domanda di salute, tasto dolente per quasi tutte le carceri italiane. E dall’altro presenta maggiori difficoltà di reinserimento sociale, soprattutto legate alla difficoltà del mercato del lavoro.
Più articolato l’andamento delle pene. Le persone in carcere per pene detentive brevi sono in aumento, come accade sempre quando crescono i numeri della detenzione. Quando il carcere è davvero extrema ratio tende ad ospitare soprattutto persone con pene lunghe, autori di fatti più gravi, ma quando i numeri della detenzione crescono, crescono anche coloro che sono in carcere per fatti meno gravi e con condanne più brevi.
Le persone in carcere con una condanna fino ad un anno sono passate dal 3,1% dei definitivi del 2021 al 3,7% del 2022, quelle con una condanna fino a tre anni dal 19,1% al 20,3%. In passato entrambi i valori erano molto più alti, nel 2011 rispettivamente il 7,2% ed il 28,3%, ma erano poi notevolmente scesi, soprattutto durante la pandemia, e tornano oggi a crescere.
Resta stabile la percentuale di persone con pena inflitta superiore ai 20 anni, il 6,6% dei definitivi (nel 2011 erano il 4,9%), mentre gli ergastolani, pur essendo leggermente cresciuti in termini assoluti, passando dai 1.810 del 2021 ai 1.856 del 2022, sono però calati in termini percentuali, passando dal 4,8% al 4,6% (erano il 4,0% nel 2011).

 

41 BIS

Il caso Cospito ha acceso un ampio dibattito sul regime 41-bis sia a livello istituzionale che nell’opinione pubblica. Al fine di contribuire alla corretta informazione sul regime e sul caso specifico, in questi mesi Antigone ha pubblicato diversi documenti fra i quali si trovano un dossier sul caso Cospito, una ricerca sul regime 41 bis presentata in occasione di un recente convegno e un articolo di sintesi riguardante l’ultimo rapporto sul regime speciale pubblicato dal Garante Nazionale.
Il regime ha subito nel corso del tempo vari interventi normativi, gli ultimi dei quali risalgono al 2009 e al 2020. Le restrizioni a cui sono sottoposti i detenuti al 41-bis sono molte e non tutte sono contenute nella legge. Altre sono invece disposte da una circolare apposita emanata dal DAP nel 2017 al fine di normare in maniera molto, se non troppo, dettagliata i contenuti del regime.
Nel corso degli anni sul regime è intervenuta varie volta sia la Corte di legittimità, che la Corte Suprema, ma anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Per esempio la Corte Costituzionale nel 2013 è intervenuta sul diritto alla difesa abolendo i limiti ai colloqui (sia telefonici che in presenza) con i difensori che inizialmente erano limitati dal punto di vista numerico e di durata.
L’imposizione della misura si effettua tramite decreto del Ministro della Giustizia e la sua durata è pari a quattro anni la prima volta che viene imposto, mentre le proroghe seguenti sono di due anni. “La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno”, tale capacità non può essere esclusa tramite “il mero decorso del tempo”.
La modifica del 2009 ha individuato come un unico tribunale competente a ricevere il ricorso del detenuto il Tribunale di Sorveglianza di Roma. Il ricorso deve essere inviato entro venti giorni dalla comunicazione dell’imposizione della misura e il tribunale deve decidere entro dieci giorni dalla ricezione del ricorso; tuttavia, questo in pratica non avviene e per questo motivo la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia varie volte per violazione dell’Articolo 13 della Convenzione (right to an effective remedy) il diritto a un rimedio effettivo, per la mancata pronuncia in tempi brevi, che di fatto vanificava il reclamo stesso, e
per violazione dell’articolo 6 della CEDU, quando il Tribunale di Sorveglianza non prendeva nemmeno in esame il ricorso a causa della sua inammissibilità, in quanto il provvedimento ministeriale su cui si basava era già decaduto.
Le restrizioni previste dal regime devono essere “necessarie per il soddisfacimento” delle esigenze di ordine e sicurezza e hanno lo scopo di “impedire i collegamenti con l’associazione” a cui la persona sottoposta al regime appartiene. Siamo dunque arrivati a uno dei punti cruciali delle discussioni sul 41-bis.
Questo regime viene infatti troppo spesso chiamato “carcere duro” come a indicare che lo scopo del regime sia quello di punire più duramente le persone che vi sono sottoposte, quando invece la ratio è quella di impedire le comunicazioni e rescindere i collegamenti con le associazioni mafiose di appartenenza. L’idea contemporanea di pena detentiva è che la privazione della libertà sia la pena e che altre punizioni aggiuntive siano contrarie a questo principio. Proprio per questo motivo il Garante raccomanda di astenersi dal riferirsi a questo regime come “carcere duro”.
Intanto i detenuti sottoposti al regime sono separati dagli altri detenuti in apposite sezioni collocate in alcuni specifici istituti penitenziari e trascorrono la gran parte della giornata (21 o 22 ore) in cella, rigorosamente singola.
Al loro ingresso vengono inseriti in “gruppi di socialità” formati da al massimo 4 persone all’interno dei quali è possibile comunicare liberamente sia durante l’apertura delle porte blindate (a meno che nella stessa sezione non siano presenti detenuti appartenenti ad altri gruppi di socialità) sia durante le ore da trascorrere fuori dalla cella. Le comunicazioni con appartenenti ad altri gruppi di socialità sono vietate.
Rispetto alle comunicazioni con il mondo extra carcerario, i colloqui con i familiari sono limitati a uno al mese e sono della durata di un’ora. I colloqui vengono effettuati con il vetro divisore e soltanto i minori di 12 anni possono passare dall’altro lato del vetro e stare a contatto con il proprio genitore detenuto. Anche le telefonate sono limitate al caso in cui non si usufruisca del colloquio di persona e la telefonata è una e della durata di 10 minuti. Sia i colloqui che le telefonate sono registrati.
Altre restrizioni riguardano aspetti della vita quotidiana che poco hanno a che fare con le esigenze di sicurezza, quanto con quelle di uniformare il regime. Da qui hanno origine alcune restrizioni che sembra abbiano più lo scopo di infliggere maggiori vessazioni piuttosto che garantire la sicurezza o le interruzioni dei contatti con le associazioni di appartenenza. Alcuni esempi sono la grandezza delle pentole consentite o il numero e la grandezza di foto e di libri che possono essere tenuti in cella. Fino al 2018 i detenuti non potevano nemmeno cuocere cibi in cella, ma soltanto riscaldarli ed è dovuta intervenire la Corte Costituzionale per rimuovere questa restrizione.
Un’altra criticità (lungi da essere l’ultima) su cui ci si vuole soffermare è rappresentata dalla presenza delle c.d. “aree riservate”, sezioni che rappresentano una specificità ancora più specifica del 41-bis, a cui sono destinate le persone ritenute figure apicali delle associazioni. La funzione delle aree riservate però si sovrappone a quella che è la funzione del 41-bis stesso oltre che essere un regime più afflittivo per due detenuti, uno dei quali si trova all’interno dell’area riservata soltanto per fare “da compagnia” a un altro.

Al 27 febbraio 2023, come riportato dal Garante Nazionale, erano 740 i detenuti sottoposti al 41-bis di cui 728 uomini e 12 donne,

tutte ristrette nella Casa Circondariale di L’Aquila, in cui è presente l’unica sezione femminile del regime 41- bis. Rispetto all’andamento delle presenze dei detenuti ristretti in questo regime, negli ultimi anni il dato sembra essersi stabilizzato fra le 740 e le 750 unità.
I reparti 41-bis sono in totale 60 distribuiti su 12 istituti, le aree riservate sono 11 in cui sono ristrette 35 persone. Come si evince dal grafico, i detenuti sono distribuiti in maniera poco uniforme fra i vari istituti. L’istituto con più detenuti in regime speciale (150) è quello dell’Aquila mentre quello che ne ha meno (3) è la Casa Circondariale di Nuoro-Baddu e Carros in Sardegna.
La maggior parte dei detenuti sono definitivi (613) mentre 92 non sono definitivi. Di questi ultimi 15 sono in attesa di primo giudizio, 33 sono appellanti e 44 ricorrenti. Infine 29 sono misti senza definitivo e 6 sono in misura di sicurezza in regime 41- bis. Gli ergastolani sono 204.
Rispetto alle fasce d’età, visto il ruolo ricoperto dalle persone soggette al 41-bis all’interno delle organizzazioni criminali e le pene lunghe a cui sono condannati, è chiaro come la maggioranza dei detenuti abbiano fra i 50 e i 69 anni.
Alta sicurezza
Non meno problematica è la situazione delle persone in Alta sicurezza. L’Alta sicurezza non è infatti un “regime detentivo”, bensì un “circuito” regolato non dalla legge, ma da una serie di circolari dell’Amministrazione penitenziaria.
Per essere considerati detenuti ad “alta pericolosità” rileva il solo reato commesso per cui si è condannati o accusati. Se è uno dei reati previsti nel (sempre più lungo) elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, allora si entra automaticamente in questo circuito. C’è in effetti una remota possibilità che la collocazione avvenga per decisione dell’Amministrazione penitenziaria, ma si tratta di casi residuali. I circuiti di Alta sicurezza, regolati dalla già citata circolare dell’Amministrazione penitenziaria del 2009, sono suddivisi in tre livelli (Alta sicurezza 1, 2 e 3).
L’AS1 è dedicato alle persone detenute detenute ed internate nei cui confronti sia stato dichiarato inefficace il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis o.p. (i c.d. declassificati); l’AS2 è invece pensata per detenuti accusati i condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento diatti di violenza. L’AS3 è invece dedicato ai detenuti per delitti di cui agli art. 416 bis c.p (associazione di stampo mafiosi, ma senza ruoli apicali) o reati connessi all’organizzazione per lo spaccio di stupefacenti.
Non essendo stati pubblicati recentemente dati ufficiali che possano darci un’indicazione quantitativa delle persone presenti in ciascun circuito, ci affidiamo ai nostri dati, in modo da restituire una fotografia almeno parziale della situazione. Secondo i dati raccolti dal nostro Osservatorio, durante le 97 visite effettuate negli istituti penitenziari (circa la metà degli istituti) sono state rilevate 4.756 persone in AS3, 39 in AS2 e 146 in AS1.

SUICIDI

Il 2022 è passato alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sono state 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso dell’anno1), una ogni quattro giorni.
Un numero così alto non era mai stato registrato prima, tanto da far parlare di una vera e propria “emergenza suicidi”. Anche nel 2023 si continua a guardare al fenomeno con grande preoccupazione, con 22 casi accertati avvenuti tra il mese di gennaio e il mese di maggio.
A raccontare l’emergenza del 2022, no


Nelle celle 2.163 detenuti in più del previsto. E tra i primi dieci istituti italiani con troppi “ospiti” otto sono in regione. A Lodi il tasso di sovraffollamento è del 182%, a Brescia del 181. È come se, in metafora, all’interno di un’automobile da cinque posti ci fossero sette persone.
Sarebbe un viaggio scomodo e pericoloso, stretto e angusto.
La calda estate delle carceri lombarde è questa: 8.320 detenuti presenti a fronte di 6.157 posti regolamentari, 2.163 in più di quanti ce ne dovrebbero essere (+358 in un anno), e un tasso di affollamento del 135%.
La fotografia che il ministero della Giustizia scatta periodicamente, ora aggiornata al 30 giugno, consegna un bilancio irto di criticità per la Lombardia.
Tutti e 18 i penitenziari lombardi accolgono più detenuti di quanti ne preveda la capienza; nelle prime dieci carceri italiane per tasso di affollamento (cioè il rapporto tra i detenuti presenti e la capienza regolamentare), ben otto istituti sono lombardi: Lodi è quello più critico in assoluto in Italia (82 detenuti per 45 posti, affollamento del 182%), poi Brescia-Canton Mombello (affollamento del 181%) e

Como (affollamento del 178%)

completano il podio italiano, Varese è 4° (177%), Brescia-Verzano 6° (170%), Busto Arsizio 7° (170%), Bergamo 8° (167%), Monza 10° (165%). Anche per questo “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione radicale impegnata su giustizia e carceri, sta compiendo proprio in questi giorni un viaggio negli istituti lombardi, insieme agli avvocati delle Camere penali. Venerdì erano in visita a Brescia, ieri a Bergamo, da lunedì si riprenderà con Monza, Lecco e San Vittore: “A ogni convegno – rileva Rita Bernardini, presidente dell’associazione, al termine della visita nella casa circondariale di Bergamo -, la politica afferma che il carcere deve essere l’extrema ratio e che occorre dare maggiori possibilità d’accesso alle misure alternative. Poi ci confrontiamo con i numeri e vediamo invece che in carcere si entra come opzione privilegiata, anche per chi deve scontare pene brevi”.
Più della metà dei condannati definitivi in Lombardia ha infatti pene residue inferiori ai 4 anni: teoricamente potrebbero andare in misura alternativa, ma non accade. “C’è un intasamento burocratico per le misure alternative”, segnala Stefania Amato, vicepresidente della Camera penale della Lombardia orientale.
L’ultima fotografia del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riporta che il 43,8% dei reclusi in Lombardia ha un problema di tossicodipendenza. Senza contare, i problemi di salute mentale che si acuiscono in situazioni di difficoltà. Eppure, anche nelle situazioni più critiche c’è lo sforzo delle direzioni, del volontariato, della polizia penitenziaria.
Elementi messi in rilievo anche ieri a Bergamo, dove la direttrice Teresa Mazzotta ha accompagnato la delegazione dell’associazione e degli avvocati, insieme alla garante dei detenuti Valentina Lanfranchi: “La direttrice – segnala Bernardini – ha mostrato un grande impegno, alcune aree sono state recentemente ritinteggiate col lavoro retribuito dei detenuti, un segnale molto importante”. Alla visita ha partecipato anche Marina Cavalleri, giudice del Riesame di Brescia: “È stata un’esperienza preziosa – rimarca il magistrato – sarebbe utile rendere obbligatorio per tutti gli operatori di giustizia una visita periodica nelle carceri per constatare direttamente la situazione”.
Uno dei problemi, riconosce la giudice, “è il bassissimo accesso alle misure alternative. Le tempistiche lunghe non aiutano, queste misure sarebbero da incentivare ma c’è un oggettivo carico burocratico.
A ciò si aggiunge una questione sociale, legata alle difficoltà di molti detenuti che non hanno casa o lavoro e non riescono ad accedere alle misure alternative benché ne abbiano i requisiti”. Così, il carcere diventa l’unico rifugio, sempre più intasato e sempre più critico. di Luca Bonzanni.Avvenire, 30 luglio 2023


Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… Si può!


di Davide Ferrario Corriere della Sera, 16 agosto 2023

Un’inefficienza totale che ricade sull’ultimo anello della catena: i detenuti. Con doversi ostaggi della situazione: polizia penitenziaria e dirigenti. Serve un cambiamento vero, che non arriva: né da destra né da sinistra.

Un giorno il direttore del carcere di Torino, dove ho fatto il volontario per una decina d’anni, si fermò davanti a una porta in un corridoio, la aprì e mi disse: “Guarda dentro”. Lo spazio era quello di un salotto piuttosto ampio, pieno fino al soffitto di rotoli di carta igienica non confezionati. “È roba fallata che la ditta non può mettere in commercio, allora me la sono fatta dare”.

Ecco, fuori dai convegni, dai paroloni della politica e dai picchi drammatici di questi giorni, il carcere in Italia è questo: un rifiuto tra i rifiuti, dove ci si arrangia giorno per giorno. Finché l’inefficienza del tutto finisce per scaricarsi sull’anello più debole della catena: i detenuti, come dimostrano i due suicidi di venerdì proprio a Torino e, lo stesso giorno, quello di via Gleno.

Ma assieme ai prigionieri, ci sono anche gli ostaggi di questa situazione: personale e dirigenti, alcuni dei quali sono straordinari esempi di “servitori dello Stato”, come si diceva una volta. Anche se immagino che talvolta non si sentano servitori, ma veri e propri servi. Gli agenti, per esempio, sono tra i lavoratori regolari più sfruttati e sottopagati in circolazione.

Il carcere mette in cortocircuito la politica, sia di sinistra che di destra. La sinistra perché, pur essendo consapevole dei problemi (come dimostra l’intervento sulla Stampa di Giorgio Gori di due settimane fa), non ha il coraggio né la forza di andare contro un’opinione pubblica forcaiola e giustizialista. La destra perché a parole difende l’istituzione carcere in quanto tale, ma nei fatti se ne frega ampiamente, sia di chi ci langue sia di chi ci lavora, come stanno accorgendosi anche i sindacati del personale, che pure sono un naturale bacino elettorale di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e soci.

E così, a cicli periodici, si ripete la solita messa in scena: che talvolta è commedia, più spesso dramma. Intanto, in galera continua a starci gente che, come i tre suicidi di questi giorni, dovrebbe stare in un altro posto, perché il loro problema non è la violenza, ma la tossicodipendenza o il disagio sociale. Il che non significa “liberi tutti”, ma affrontare i problemi per quelli che sono. Altrimenti il carcere continuerà a essere come un ospedale dove si entra, si resta senza cure, e si viene dimessi facendo finta di essere guariti. A spese dei contribuenti.

 


 

 

 

 

 

CASA CIRCONDARIALE DI COMO

 

 

LA STRAGE SILENZIOSA: un suicidio in cella ogni cinque giorni