“Io sono un imprenditore che vive sotto scorta, le mie aziende sono presidiate dall’Esercito.
Con le mie denunce ho fatto arrestare degli estorsori.
Ultimamente, vengo a sapere dagli organi di informazione che c’è un progetto omicidiario con l’utilizzo di armi da guerra, bazooka e bombe, per fare saltare le auto blindate di alcuni testimoni di giustizia che hanno fatto condannare una cosca criminale.
La storia di Antonino De Masi, quando i “giusti” vivono sotto scorta
Era il 13 Aprile 2013 quando spararono 44 colpi di kalashnikov al portone della sua azienda, mettendogli anche 3 proiettili davanti alla porta d’ingresso.
Sembra una scena di una fiction, ma non lo è.
È una storia invece molto reale e recente, la storia di Antonino De Masi, un imprenditore calabrese originario di Rizziconi (RC), un piccolo centro della Piana di Gioia Tauro.
Qui De Masi porta avanti le aziende della propria famiglia, che hanno alle spalle 55 anni di attività e un percorso di continua innovazione e internazionalizzazione, basato su forti principi di legalità (vedi www.demtech.it).
Una dichiarazione di guerra che ha avuto il suo inizio molti anni prima, nel 2001, quando durante la costruzione dei propri stabilimenti, De Masi si oppose alle estorsioni messe in atto dalla famiglia Crea, una delle più feroci e potenti cosche di ‘ndrangheta, denunciandoli.
Da quel momento, la sua vita è stata costantemente messa in pericolo, fino a giungere al terribile attentato del 2013.
Infatti, da allora, De Masi vive sotto scorta e la sua azienda è presidiata giorno e notte dall’esercito. La sua famiglia è stata allontanata dalla Calabria, ma lui non ha nessuna intenzione di lasciare la sua terra.
Se ci si pensa però, De Masi è “semplicemente” un cittadino che ha fatto e fa il suo dovere, quello che ogni cittadino responsabile dovrebbe fare davanti a un crimine. Intervistato da Stampo Antimafioso, De Masi ha raccontato: “Io sono cresciuto da sempre illuso di essere un uomo libero.
Mi sono tornati in mente i film in cui si rappresentava la schiavitù nei paesi del sud degli USA, dove era normale che un padrone avesse il diritto alla vita del suo schiavo, un essere umano. Ho sofferto quei racconti, ho ‘odiato quel mondo’ per poi capire che vivevo anche io in un mondo in cui vi erano dei soggetti (i criminali) che avevano il diritto sulla vita degli altri cittadini. Da questi esempi ho capito di essere uno schiavo anche io e come tale mi sono rifiutato di esserlo, combattendo per la mia libertà.”
De Masi ha deciso quindi di compiere una scelta di libertà e ha denunciato chi cercava di imporre una legge propria, in contrasto con quella dello Stato e basata sull’intimidazione e la violenza. Ma in Italia ancora oggi per compiere questa scelta e denunciare ci vuole coraggio, il coraggio di dire no alla mafia e di pagarne a lungo le conseguenze. E allora forse è dovere di tutta la comunità pretendere che questa scelta sia rispettata e difesa come merita.
Forse si dovrebbe partire riflettendo sul perché le mafie attaccano con così tanta ferocia i testimoni di giustizia. La risposta è semplice: sono la cosa che temono di più, sono lo strumento più efficace per squarciare il velo di omertà che permette alla mafia di agire indisturbata e permeare la nostra società. Ma se sono così preziosi, è normale che debbano poi vivere in queste condizioni? In un paese civile, chi difende la legalità non dovrebbe rischiare la pelle ogni giorno.
Ma Antonino De Masi non vuole essere commiserato. Piuttosto chiede che questo sacrificio fatto per difendere lo Stato e la democrazia, che egli considera “una cosa seria” che merita rispetto, non gravi sulle spalle di pochi, ma che sia invece un peso condiviso da tutta la collettività. E per fare ciò bisogna tornare a parlare di mafia, pubblicamente ed insistentemente. Perché la macchina Stato fa, i processi e le indagini ci sono. Ma questo non basta. La società civile non si indegna e non si parla più di mafia. Questo il grido d’allarme lanciato da De Masi.
Quale è il rischio altrimenti? Che la ‘ndrangheta rialzi la testa, nella pericolosa indifferenza della società civile e assenza delle istituzioni centrali. Questa lotta non può gravare interamente “sulle spalle di procuratori della Repubblica e di Prefetti e di funzionari dello Stato che da soli stanno combattendo una delle più grandi organizzazioni criminali al mondo”, afferma De Masi in un suo intervento al programma televisivo Otto e Mezzo su La7. E neanche sui cittadini onesti della Calabria, terra da cui questo fenomeno ha origine ma che non è mai stata l’unica sede di esso. La Calabria ha già pagato un prezzo altissimo, è una terra in cui si sente la forza di resistenza e la tanta voglia di cambiamento, che deve essere presa di esempio e posta come “generatrice di una rivoluzione culturale”, creando dei ponti con le altre regioni italiane.
“È un falso problema che la mafia è un fenomeno del sud Italia” dichiara inoltre De Masi.
Oggi come non mai abbiamo infatti l’evidenza dell’infiltrazione ormai condizionante del fenomeno criminale mafioso nel sistema economico e sociale del Nord, che si è ritrovato “il nemico dentro casa”.
La Mafia deve tornare dunque a essere una priorità nazionale, non deve più passare in secondo piano. “Come se ne esce?” si chiede De Masi, “non lo so, certamente parlandone, spiegando che siamo davanti ad un fenomeno criminale che ammazza non solo le persone ma la speranza di ognuno di noi.
Stiamo normalizzando la mafia”, rischiando di abituarci ad essa. Solo così si formeranno delle generazioni di ragazzi che avranno le conoscenze e le capacità di ribellarsi, di dire no. E allora forse, di Antonino de Masi ce ne saranno tanti, troppi per i mafiosi e nessun uomo giusto dovrà più vivere sotto scorta. Stampo Antimafioso di Giulia Chiodini
“Chiedo attenzione su un fenomeno che credo sia andato in secondo piano. Di lotta alla mafia si incomincia a non parlare più”. Lo ha affermato, nel corso della trasmissione di la7, “Otto e Mezzo”, l’imprenditore Antonino De Masi, che da anni vive sotto scorta. L’imprenditore che ha denunciato e fatto condannare esponenti della ‘ndrangheta, tramite le colonne del quotidiano “Domani”, ha lanciato in questi giorni un appello al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e al premier Mario Draghi, affinché vengano in Calabria per dare un segnale forte contro la criminalità organizzata.
“Io sono un imprenditore che vive sotto scorta, le mie aziende sono presidiate dall’Esercito.
Con le mie denunce ho fatto arrestare degli estorsori.
Ultimamente, il 4 ottobre, vengo a sapere dagli organi di informazione che c’è un progetto omicidiario con l’utilizzo di armi da guerra, bazooka e bombe, per fare saltare le auto blindate di alcuni testimoni di giustizia che hanno fatto condannare una cosca criminale.
Stiamo parlando della stessa cosca criminale – ha spiegato De Masi – che ho denunciato e ho fatto condannare per 43 anni.
Nel mirino ci sono testimoni di giustizia, cittadini che hanno fatto il proprio dovere. Mi chiedo se nel 2021 è normale che qualcuno pianifichi una strategia per ammazzare con i bazooka dei testimoni di giustizia, facendo saltare in aria la auto blindate con i carabinieri e le forze dell’ordine”.
De Masi ha ringraziato il ‘sistema Stato’: “Sono stati capaci di intercettare dei messaggi criptati su una piattaforma olandese – ha aggiunto – in cui stavano organizzando questo attentato.
Questo attentato è stato bloccato, ma mi domando: è normale tutto questo? Di fronte a un atto di guerra come questo come si pone lo Stato? Non chiedo pietà e commiserazione a nessuno. Sto ponendo un problema: davanti a queste aggressioni che si stanno paventando è il caso che qualcuno si occupi della lotta alla ‘ndrangheta. Tutto questo non può stare solo sulle spalle di procuratori della Repubblica e funzionari dello Stato”. IL DISPACCIO 9.12.2021
Il testimone di giustizia De Masi scrive a Draghi e Mattarella: «Venite in Calabria»
“EGREGIO presidente della Repubblica Mattarella, egregio presidente del Consiglio Draghi, venite in Calabria per fare sentire la vostra vicinanza e quella dello Stato Italiano, a noi che abbiamo affidato le nostre vite e quelle delle nostre famiglie alle istituzioni. L’autorevolezza dello Stato è l’unica arma per riappropriarsi di questi territori“.
E’ quanto scrive Antonino De Masi, imprenditore calabrese di Gioia Tauro e testimone di giustizia, in una lettera aperta pubblicata dal quotidiano “Il Domani” a Mattarella e Draghi. De Masi è da anni sotto scorta dopo aver subito diversi atti intimidator
“Il 4 ottobre le Procure di Reggio Calabria, Ancona e Brescia – scrive De Masi – hanno arrestato dei pericolosi esponenti della ‘ndrangheta in quanto stavano organizzando un attentato ai danni di soggetti che hanno causato la condanna dei membri della consorteria mafiosa. L’attentato prevedeva persino l’utilizzo di armi da guerra (bazooka e bombe) contro le auto blindate che proteggono tali persone”. Al di là dei destinatari civili di queste azioni (“io o altri soggetti sotto scorta”) si parla di “un attacco allo Stato, al pari di quanto già avvenuto nelle stragi in Sicilia“.
“Il progetto di ammazzare dei testimoni di giustizia che, in un contesto sociale come quello calabrese hanno portato con le loro denunce all’arresto di pericolosi criminali – evidenzia ancora l’imprenditore – è un fatto gravissimo che mina i valori democratici di uno Stato”.
Da qui l’appello: “Credo che il paese, il governo, le massime istituzioni tutte debbano urgentemente venire in Calabria, nei luoghi in cui questi barbari criminali vivono, per prendere visione della realtà in cui viviamo e rimarcare il pensiero espresso con forza dal procuratore Antimafia Federico Cafiero De Raho in occasione della visita nella mia azienda dopo che contro la stessa avevano sparato 44 colpi di Kalasnikov: Chi tocca i cittadini, tocca lo Stato e sarà guerra”. QUOTIDIANO DEL SUD 8.12.2021
L’imprenditore Antonino De Masi si arrende allo Stato italiano. È questa la decisone che il famoso imprenditore di Gioia Tauro ha deciso di attuare a seguito del mancato riconoscimento del mutuo antiusura previsto dalla legge 108/1996 da far valere sul Fondo di solidarietà per le vittime di racket e usura. Con un missiva del 28 Giugno dal tenore rassegnato e deluso, indirizzata alle massime autorità politiche e istituzionali, dal Presidente della Repubblica al Presidente del Senato, dal Prefetto alle rappresentanze sindacali, l’imprenditore ha deciso che dal 10 di luglio cesserà l’attività dello stabilimento per crimini di Stato.
Non nuovo alle battaglie per la legalità ed un esempio di imprenditorialità sana e non corrotta, Antonino De Masi è proprio stanco di una vicenda che l’ha visto protagonista sin dal 2003. Decine di processi penali, civile ed amministrativi stanno a testimoniare la tenacità dell’Uomo-imprenditore. In quel di Gioia Tauro, uno dei porti più grandi del Mediterraneo, l’impresa di costruzioni De Masi s.r.l. ha operato per oltre cinquant’anni, l’ha fatto con onestà e sacrificio in una realtà di ‘ndrangheta, intimidazioni e tentativi di estorsioni culminati con l’ultimo e più eclatante attentato al suo stabilimento, 44 colpi di kalashnikov sparati contri il capannone della Global Repairs, un’azienda del gruppo De Masi. E come sempre avviene in questi casi, tutti si sono premuniti di manifestare vicinanza all’imprenditore, l’hanno fatto i politici, l’hanno fatto le istituzione e l’hanno fatto le associazioni antimafia, tra cui non può non spiccare l’appello lanciato per l’occasione dall’associazione Libera.
La vicenda che ha portato l’imprenditore ad accusare lo Stato italiano di crimini di Stato parte da lontano. Nel 2003 l’imprenditore scopre che dai conti sociali dell’impresa mancano 6 milioni di euro, il frutto d’un tasso d’usura che gli istituti bancari avevano applicato nei rapporti con l’impresa. Nasce una querelle giudiziaria che culmina in una famosa sentenza della Cassazione del 2011 che riconosce anche in capo al presidente e al C.d.a degli istituti bancari la responsabilità penale nell’applicazione di tassi usurai nei rapporti con i correntisti. Forte di questa decisone della Cassazione scatta la recente richiesta di risarcimento del danno per circa 200 milioni di euro introitata dalla De Masi innanzi al competente tribunale ed ancora in una fase procedurale iniziale.
In sede penale l’impresa formalizza regolare denuncia per usura ed è per questa via che De Masi nel 2006 formalizza la domanda di mutuo antiusura di cui alla legge 108/96. Si tratta di un prestito decennale a tasso zero, pari agli interessi usurai che sono stati pagati, finalizzato a consentire il reinserimento della vittima d’usura nell’economia legale. Per questo motivo la domanda di concessione del mutuo deve contenere un piano di investimento con l’indicazione dell’utilizzazione delle somme richieste e che il De Masi indica “nella costituzione di una Newco con l’acquisizione del ramo di azienda dalla esistente società, per consentire la ripartenza dell’attività imprenditorialee nel pagamento degli stipendi agli operai”.
La vicenda diventa pirandelliana e tra decreti di diniego del mutuo, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, sentenze di Cassazione e atti dilatatori e defatigatori dell’ufficio del Commissario antiracket, si riesce a non riconoscere un euro all’imprenditore che oggi dice basta. Sentito in merito alla vicenda che l’ha riportato ancora una volta alla ribalta nazionale l’imprenditore ha precisato: Vi sono 14 provvedimenti del TAR e del Consiglio di Stato che dicono che qualcuno non ha rispettato le norme e le leggi. Chi è che non ha rispettato le norme ? Punto di domanda. E’ il Commissario Antiracket… Probabilmente ignorano la Legge e sei lei legge le lettere che le ho inviato, tenendo conto che quelle sono lettere molto morbide rispetto a tutto quello che avrei voluto dire, ma rispettando le istituzioni debbo essere moderato nei termini e nei modi, ho detto in modo forte e chiaro quali sono le norme e lo spirito della legge che non hanno applicato.
La normativa a cui si riferisce l’imprenditore è quella che specificatamente prevede la possibilità d’ottenere l’anticipazione del 50% quando ricorrano situazioni di urgenza specificamente documentate, anche senza la necessità che il mutuo venga concesso solo in seguito al decreto di rinvio a giudizio dei responsabili d’usura.
Allora le nel 2006, quando ha presentato la domanda, lei ha pensato che gli usurai erano gli istituti bancari e il consiglio d’amministrazione?
No, No. Io ho denunciato un reato e quindi dico alla Procura della Repubblica: guardate mi sono accorto che qualcuno mi ha fatto un furto, qualcuno mia ha rubato dei soldi. Quindi non sono io che dico chi è stato, io denuncio il fatto. E’ la Procura della Repubblica che va ad individuare chi sono i colpevoli.
Considerate le novità, anche giuridiche, della vicenda, non può essere che questo abbia creato qualche problematica al Commissario nel riconoscimento del mutuo? Certo che ha creato qualche problema al Commissario Antiracket però purtroppo per lui, il commissario non conosce la legge…l’art 644 del c.p. parla di aggravanti nei confronti di chi commette usura nell’esercizio dell’attività bancaria. Non si parla di fare degli sconti alle banche ma di aggravanti.
Allora parla di un soggetto specifico, di una individualità, questo intende lei. Ma guardi, io da cittadino non parlo, io non, io non…personalizzo le cose…perché se io dovessi personalizzare le cose dovrei entrare nelle polemiche per dire che c’è stato un Commissario Antiracket che è stato arrestato e condannato in via definitiva perché dava il muto a chi si prostituiva con lui, …potrei dire tante altre cose, ma io queste cose lo non le dico, capisce?
E quindi in questa situazione come imprenditore lei non c’è la fa più. Quando si denuncia una illegalità, la nostra indole qual è? Io ho fiducia nella giustizia e aspetto i tempi della giustizia a costo di mangiare pane e cipolla. Siccome mi hanno rubato dei soldi, ho accusato che qualcuno ha leso un mio diritto e il mio diritto era quello di avere il mutuo…siccome questo signore ha leso i miei diritti io sto aspettando i tempi della giustizia. E poiché la giustizia ha tempi lunghi ed ho impiegato sette anni circa alla fine io…la mia resistenza è finita. Perché materialmente non c’è la faccio più a sopportare queste angherie, capisce? E quindi ora basta.
Questo discorso vale anche economicamente come impresa o proprio non c’è la fa più? No, no. Certo economicamente, perché io come impresa che bussa alle porte per avere un beneficio di legge perché ne aveva disperato bisogno, quindi motivo urgente, dopo sette anni le mie sopportazioni materiali sono finite. Io sono andato in giro e ho bussato alle porte di amici, parenti, mi sono venduto l’auto…tutto quello che avevo per arrivare a questo fatidico giorno (20 di Giugno data dell’ultima sentenza del Tar di Reggio Calabria, la 14° che riconosce il diritto dell’imprenditore a vedersi riconosciuta la concessione del muto di cui alla domanda del 2006).
Senta e per quanto riguarda le pressioni della criminalità organizzata? Ma allora non conosce la mia Storia…spero che non ne arrivino altre, perché…una stanchezza fisica… io non posso litigare con i criminali e con lo Stato, capisce qual è il discorso. Scusi ma dopo che aveva ricevuto quella famosa intimidazione dei 40 colpi di kalashnikov, non aveva deciso di chiudere ? Avevo deciso di chiudere ma mi è stato detto che io non posso mollare. Perché se mollo io perde lo Stato e quindi è per questo che ancora sono qui.
Ed è per questo che lei oggi parla di crimini di Stato? Certo che parlo di crimini di Stato. Ma mi scusi, Io con chi me la prendo? Non può da una parte lo Stato dirmi lei rimanga qui, faccia l’eroe e dall’altra parte lo Stato violare le (sue) leggi.Di Pietro Giunta – 2 Luglio 2013 IL CARRETTINO DELLE IDEE
Professione imprenditore, coniugato e padre di Giuseppe, Michele e Cristina, vive a Rizziconi, un piccolo centro della piana di Gioia Tauro (RC).
Sin dalla giovane età Antonino De Masi segue il padre Giuseppe nell’attività imprenditoriale da quest’ultimo fondata nel campo della meccanizzazione agricola e le vicende che vedono la famiglia De Masi agli onori della cronaca per il suo impegno contro la criminalità.
Un uomo dalla cultura umanistica e dai forti valori cristiani. Diverse esperienze professionali internazionali lo hanno molto formato e,
dopo aver conseguito il diploma in discipline economiche, ha avviato diverse nuove attività imprenditoriali in un’area geografica, come quella della Piana di Gioia Tauro. Vicende che hanno profondamente condizionato la crescita e gli obbiettivi della sua vita professionale, dandogli una carica sempre più forte per seguire i principi della legalità.
Da otto anni è sotto scorta ed Interris.it lo ha raggiunto telefonicamente per ascoltare la sua testimonianza. Un racconto fatto di principi e valori, una vita dedita alla famiglia e al sacrificio per mantenere sempre alta la dignità.
La prima fase “Nel 2001 ho costruito degli stabilimenti industriali su Gioia Tauro. Questo è il primo pezzo del puzzle. In quegli anni, durante la costruzione di questi stabilimenti industriali importanti, all’azienda che conduceva questi lavori sono state fatte delle estorsioni. I proprietari me ne hanno parlato ed io li ho accompagnati a denunciare tutto quello che era avvenuto.
Gli estorsori sono stati arrestati con i soldi in mano, ma il sistema del territorio si è rivoltato contro di me perché sono stato visto come il responsabile dell’arresto dei padri di famiglia al di là del fatto che quei padri di famiglia avessero il pacco dell’estorsione in mano.
Da quel momento la macchina burocratica amministrativa si mise di traverso. Io avevo fatto investimenti importanti e le banche dall’oggi al domani me li eliminarono. Chiesi conto di ciò e scoprii che su delle linee di credito da 12milioni di euro mi avevano applicato 6milioni di interessi. Mi attivai prima con delle lettere e poi con degli atti giudiziali per chiedere spiegazioni e tutto ciò portò a una sentenza definitiva della Cassazione dove si è sancito che io sono stato usurato”.
La seconda fase “Il secondo pezzo del puzzle risale al 2013 quando spararono 44 colpi di kalashnikov al portone della mia azienda mettendomi anche tre proiettili davanti alla porta d’ingresso. Era il 13 aprile 2013.
Tenga in considerazione che quando nel 2001/2002 iniziò questa storia, non era ancora scoppiato neanche il primo scandalo della Parmalat. A quei tempi parlare della banche era come bestemmiare perché erano viste come delle strutture intoccabili.
All’epoca dall’analisi delle carte però si capì come venivano manomessi i conti. In una di quelle sentenze si è detto che l’errore fosse stato compiuto dal pc e l’errore delle banche si giustificava con un errore di calcolo.
C’è qualcosa che le ha fatto dubitare della buona fede della banca? “Questa storia è stata compiuta a ridosso di un’estorsione. Io non so perché, ma so per certo che le banche sono delle strutture serie, che però a volte vengono governate da uomini che hanno giurato fedeltà non alla banca, ma ad altro tipo di potere. Io ad oggi non ho le prove, le cose le ho denunciate e sono stati aperti altre tipologie di procedimenti civili e penali.
Ad ogni modo l’innesco della mia sentenza bancaria nasce contestualmente all’estorsione subita. Inoltre dagli atti processuali emerge che un funzionario di quella banca mi ha chiamato: ‘guardi De Masi stia attento perché abbiamo avuto ordine di distruggerla’. Queste furono le parole confermate anche alla Procura di Reggio Calabria. Inoltre quando il funzionario interferì con la magistratura, risposte che le politiche creditizie spettavano a lui e non alla magistratura. Cosa voglia dire ciò non lo so, fatto sta che ho messo tutto a verbale in alcune deposizioni. Le ho scritte, poi non hanno avuto alcun tipo di risvolto, ma sono fatti che sono accaduti”.
La vita oggi di De Masi “In questo momento io credo di essere uno dei pochi imprenditori in un paese occidentale che ha l’azienda presidiata dall’esercito. C’è un chek point militare all’ingresso. Lei, quando viene da me, deve passare un chek point militare. In più vengo chiamato come testimone di giustizia, ma io mi definisco un cittadino che ha fatto e che fa il suo dovere”.
Com’è la sua vita oggi? Cosa significa vivere sotto scorta? “C’è una precondizione che va utilizzata senza la quale non c’è una spiegazione al come io e la mia famiglia stiamo conducendo la vita. Oggi come oggi la vita di tutti noi si muove su due binari uno il materialismo dell’avere dei soldi, il materialismo del successo. L’altro, invece, è il binario della razionalità, dell’essere figli di una concretezza, di una logica di una ragione e sono elementi che una persona che vive una realtà come la mia avrebbe dovuto fare scelte diverse. Sono otto anni che vivo sotto scorta costringendo anche la mia famiglia a lasciare la propria terra ed andare oltre, perché voglio lottare per i miei valori e per i miei principi. Voglio continuare a stare in Calabria a fare impresa. Non ho attuato strategie di logica perché la logica sarebbe quella di aderire ad un programma di protezione oppure di trasferire la mia famiglia fuori da qui.
Il materialismo è anche scendere a compromessi con i criminali come dicono molti miei colleghi, ma io non ho accettato. “Non puoi vivere così – mi dicono – adeguati, paga quello che devi pagare così puoi condurre una vita come quella degli altri. In questo modo metterei sotto i piedi valori e dall’altra parte farei scelte razionali.
Poi ci sono quei valori che fanno parte della mia vita, della mia libertà e della mia fede e da qui la consapevolezza di prendermi l’onore e la responsabilità di dare un futuro ai miei figli e alla mia terra.
Voglio lottare per quella libertà che oggi ho perso perché io vivo condizioni in cui mi sono venuti a mancare i miei diritti fondamentali, farmi una passeggiata, andare a mangiare una pizza con mia moglie ed i miei figli in libertà e tranquillità.
Io accetto queste privazioni perché davanti ho un bene maggiore che sono il bene della mia dignità di uomo libero e combatterò questa battaglia fino alla fine dei miei giorni. Lei sa bene cosa vuol dire mettersi contro le cosche criminali, vuol dire mettere a repentaglio anche la propria vita, ma alla fine penso che se anche dovessi pagarne il prezzo, il mio sacrificio deve servire anche ai miei figli e alle future generazioni per cambiare le cose”.
In più interviste si è definito “un morto che cammina” che quasi potesse pagare lo scotto della sua battaglia per la legalità, è mai riuscito a pensare di mollare tutto? “Tempo fa ho letto le intercettazioni tratte dalla conversazione in un carcere tra un boss e la moglie. In quelle intercettazioni il boss ha dato indicazioni di ammazzarmi, indicando anche il nome del killer che avrebbe dovuto farlo. Di tutte queste situazioni sono andato a parlarne con il procuratore della repubblica e gli ho detto che ci sono due strade una che mi prosti ai piedi di questa gente, elemosinando il diritto alla vita. La seconda opzione è che se vogliono la guerra facciamo la guerra.!Io ricordo che subito dopo aver letto queste cose andai in un’intervista al tg1 che feci il giorno di Natale del 2017 in cui dissi che in questa intercettazione parlavano di me come se io fossi l’autore delle loro prigioni e delle loro sofferenze.,Mi hanno chiamato tragediatore ma in realtà, come dichiarai durante l’intervista, loro stanno pagando le conseguenze del loro vivere, del loro aver scelto di fare i delinquenti e non certo per le mie denunce perché io ho scelto di fare un altro mestiere. Loro hanno scelto di fare i criminali.?Io sono convinto che la logica della razionalità delle menti distorte dei criminali sta nel controllo del territorio e nell’imporre a quel territorio le loro scelte, la loro tracotanza, il loro essere barbari assassini.!Per questo sono certo che nella messaggistica criminale loro a me dovranno dare un segnale, perché toccando me significherebbe normalizzare tutti gli altri, ma questo non mi porta a vivere in un modo diverso quello che io sto vivendo. Mi porta sicuramente a essere attento, ad avere anche paura ed essere consapevole che sulle mie spalle c’è la scelta delle future generazioni perché girarmi dall’altra parte significherebbe andare ad inginocchiarmi davanti il vitello d’oro, davanti a satana ed io non mi inginocchierò mai davanti a questa gente”.
Come sta cambiando il modo di fare criminalità? “Oggi c’è una costante rispetto a prima che è la presenza dello stato. Oggi le istituzioni tutte, la polizia, la guardia di finanza, la magistratura, sono presenti sul territorio, quindi c’è un ipotetico scenario dove da una parte c’è lo stato, il bene che combatte il male rappresentato dall’antistato. C’è però la società civile che non ha avuto anche il coraggio di scegliere da che parte stare perché spesso è andata a fare il tifo per i vincitori, stato o antistato. Questi criminali sanno che ammazzare qualcuno oggi porterà immediatamente una reazione dello stato e quindi ci pensano due volte. Il loro tentativo per distruggere qualcuno non è più quello di ucciderti con il piombo ma quello di isolarti, farti sentire come se tu fossi un appestato e qui finisce il ruolo della società civile. Anche la Chiesa che dovrebbe essere meno Don Abbondio, più presente in questo territorio con messaggi forte, cosa che stava già accadendo prima anche con i messaggi di Karol Wojtilya e ora di Papa Francesco. Oggi la società civile è stata spettatrice passiva tra stato e antistato, con il demonio che vuole vederci prostrare ai suoi piedi”.
Si può sperare ancora nella legalità? “La legalità passa da un passaggio fondamentale che è quello del risvegliare le coscienze. Dobbiamo riappropiarci dei valori, perché finché il nostro vivere quotidiano sarà legato al materialismo, continueremo ad essere schiavi di Satana. Noi ci siamo venduti l’anima al diavolo e abbiamo lasciato il nostro percorso di valori e di principi. Abbiamo aperto le braccia al denaro, figlio del male, dei compromessi con la nostra vita ed è da qui che nasce la corruzione.
28 anni fa sono morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si diceva “mai più stragi come queste” eppure le cosche continuano a vivere e a rigenerarsi…perché? “Il 23 dicembre del 1990, mio padre avevo 58 anni. Quell’anno ci misero l’ennesima bomba alle 14.30 del pomeriggio. Ci distrussero la casa. Mio padre il 24 dicembre del 1990 va a Rai due e in un’intervista di 10 minuti alle 19.45 dice ‘io chiudo l’azienda per mafia perché non ce la faccio più’. Siamo stati la prima azienda in Italia ad aver chiuso per mafia. Io dopo 30 anni, rivedendo lo stesso film, con la stessa cosca criminale, mi sono promesso che questa vicenda non posso lasciarla così, non posso lasciare ai miei figli la stessa eredità che ho avuto io. All’epoca mio padre chiuse l’azienda per paura che potessero fare del male ai suoi figli. Ad oggi io sto vivendo la stessa situazione vissuta da mio padre e non posso lasciare loro la possibilità che tra vent’anni i figli di questi boss continueranno a fare ciò che hanno fatto a me e mio padre”.
Come si sconfigge la legalità se non c’è un ruolo attivo della società civile? Questa deve capire che l’omertà sta distruggendo la speranza dei nostri figli. O tutti capiscono che questa quotidianità sta facendo di fatto terra bruciata, desertificando le speranze delle future generazioni oppure non si capirà che ci stanno prendendo in giro. Certamente lo stato e le istituzioni possono certamente fare tanto, ma non possiamo assistere in silenzio. La società civile gioisce anche quando il male segna un goal e non è possibile. La Chiesa deve ancora forzare la mano, il cristiano gioca e agisce per il bene e per l’amore verso il prossimo altrimenti non c’è storia”. IN TERRIS