BORSELLINO/L’indipendenza della Magistratura

 

 

di Paolo Borsellino

Secondo le più recenti dichiarazioni del ministro di Giustizia egli non si sarebbe mai sognato di sfiorare il problema della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo di cui semmai si discuterà nell’ambito della revisione costituzionale demandata al prossimo Parlamento. Il problema tuttavia risulta non solo sfiorato, ma affrontato di petto da parte di autorevoli esponenti dello staff ministeriale che, con elaboratissime argomentazioni, lo sollevano su prestigiose riviste specializzate come Giustizia Penale, non omettendo di accusare l’Associazione Nazionale Magistrati di rigide chiusure corporativistiche. Gli argomenti, oltre all’insistente richiamo di diritto comparato ad altri ordinamenti statuali, sono sostanzialmente tre: la necessità che si ponga rimedio alla non soddisfacente distribuzione di magistrati del Pubblico Ministero sul territorio; la considerazione secondo cui i magistrati del pm operano già oggi scelte discrezionali in ordine all’esercizio dell’azione penale senza però risponderne ad alcuno e il difettoso coordinamento tra gli stessi organi inquirenti non realizzabile in maniera ottimale se non sottoponendolo a una unica autorità che dirigendoli possa coordinarli effettivamente nella conduzione delle indagini, specie in materia di criminalità organizzata. Questo è l’argomento preferito dalla Direzione Affari Penali del Ministero, che ne ha fatto oggetto di un articolato questionario, inviato a tutte le procure generali della Repubblica sollecitando suggerimenti e prese di posizione che comunque sono suggerite in modo abbastanza trasparente dallo stesso interrogante. E poiché il problema del coordinamento tra pubblici ministeri nella lotta alla criminalità organizzata viene ormai in modo abbastanza palese sollevato proprio insistentemente da coloro che mirano ad un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non è più esorcizzabile trincerandosi in difesa, soltanto in difesa, di già riconosciute garanzie costituzionalmente sancite. Si rischia altrimenti di perdere un’altra decisiva battaglia analoga a quella referendaria sulla responsabilità civile, che è riuscita nell’unico risultato di trasformare in un pronunciamento popolare contro la magistratura e la sua credibilità quello che i fatti successivi mi sembra lo abbiano dimostrato era un problema tutto sommato risolvibile con non dirompenti concessioni da parte della magistratura associata. Mi auguro pertanto che i Procuratori Generali e quelli della Repubblica offrano spassionatamente alla Direzione Affari Penali il loro contributo fermo nel rispetto dei principi, ma flessibile negli accomodamenti di un sistema che i principi non tocchi. Peraltro che il problema del coordinamento delle indagini nei confronti della criminalità organizzata e di quella mafiosa in particolare sia stato risolvibile, all’interno del sistema giudiziario attuale o a quello recentemente passato, senza sottoporlo a radicali sconvolgimenti, è dimostrato proprio dalle vicende, o quantomeno dalla prima fase di esse, concernenti i cosiddetti pool antimafia, con i quali senza interventi legislativi e comunque dall’alto, ma per iniziativa degli stessi magistrati, per germinazione spontanea vorrei dire, si realizzò non soltanto il coordinamento ma addirittura l’unificazione di tutte le indagini sulla criminalità mafiosa o di gran parte di essa. Sono stati commessi certamente errori di valutazione risoltisi purtroppo in una dirompente crisi di rigetto. Ma ciò, a mio parere, non perché il sistema non fosse funzionante, perché furono acquisite conoscenze prima di allora impensabili, ma a causa della supina accettazione da parte della magistratura della cosiddetta delega che il potere politico in genere ha lasciato loro, incoraggiandone il lavoro. Li lasciarono rappresentando all’opinione pubblica la lotta alla criminalità mafiosa come qualcosa che avrebbe potuto risolversi nelle aule di giustizia decretando in pubblico dibattimento, o meglio, in maxidibattimento, la fine di Cosa Nostra. Naturalmente le iniziative giudiziarie, pur incoraggiate e condotte con determinazione, non potevano incidere seriamente sulla consistenza del fenomeno che andava invece contemporaneamente e radicalmente affrontato alle sue radici con mezzi diversi da quelli meramente repressivi, con interventi sociali, economici, culturali e istituzionali dei quali non si vide traccia in quegli anni come non se ne vede seriamente traccia tuttora. Prese allora abbondantemente campo una virulenta crisi di rigetto verso quegli esperimenti che tanta parte ha avuto nella formulazione di taluni paralizzanti principi del nuovo codice di procedura penale. Basti pensare, come esempio lampante, alla drastica riduzione delle ipotesi di connessione che da un lato obbliga a processi separati anche nel caso di assoluta unicità di prova, dall’altro costringe a riproporre all’interno di ogni singolo processo la prova inerente ai fatti criminosi non più commessi ma solo collegati e comunque rilevanti per la decisione. Le pochissime autorità giudiziarie che attualmente celebrano processi per criminalità mafiosa sanno che ormai ogni processo è diventato necessariamente un maxiprocesso. Per certo la crisi della giustizia esisteva ancor prima del nuovo codice di procedura, ma non v’è dubbio che il nuovo contesto normativo e la realtà giudiziaria all’interno della quale esso è stato intempestivamente introdotto hanno cagionato, sommandosi, i paralizzanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma a fronte di questa desolante realtà, ormai unanimemente riconosciuta e non modificabile con meccanismi previsti dalla legge delega che anzi, anche per il succedersi incessante di decreti e modifiche di decreti, aggrava ancor più la situazione invece di affrontare il radicale problema ponendo mano a radicali riforme di taluni principi sanciti dal legislatore delegante, si è innescata, secondo un disegno già da alcuni ampiamente previsto, una dissennata campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale, contro l’attuale posizione istituzionale del pubblico ministero, sottolineando innanzitutto la carenza di collegamenti tra i vari organi inquirenti dispersi sul territorio nazionale.
Ed accusando la magistratura associata di inammissibili resistenze corporative all’ipotesi di radicali riforme in questa direzione. Resistenze asseritamente corporative che in realtà si risolvono nella doverosa difesa di principi costituzionalmente garantiti. L’obbligatorietà dell’azione penale indispensabile per assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è, senza gravissimi danni, removibile dal nostro sistema, a nulla rilevando in contrario i dotti richiami di diritto comparato riferibili a sistemi politici costituzionali profondamente diversi dal nostro. Ed a nulla vale l’ossessivo richiamo alla cosiddetta discrezionalità di fatto che indurrebbe il Pubblico Ministero a operare comunque scelte discrezionali delle quali non risponderebbe ad alcuno. E’ vero che l’estensione a dismisura della tutela penale conseguentemente all’enorme numero di procedimenti che grava sul sistema giudiziario penale impedisce di fatto agli organi di accusa di perseguire ogni caso con eguale sollecitudine, ma resta sempre da dimostrare che da parte dei pm vengano di fatto operate vere e proprie scelte discrezionali, nel senso che l’attività repressiva venga deliberatamente omessa in casi nei quali potrebbe realmente essere dispiegata. Solo scelte siffatte potrebbero essere correlate ad una responsabilità politica quale è quella prefigurata dall’organo di accusa mentre invece la soluzione sta a monte espellendo dal sistema penale le miriadi di piccoli reati che estendono a dismisura una tutela che dovrebbe essere riservata, secondo quanto ci hanno insegnato, ai fatti di più apprezzabile rilevanza. E d’altra parte un legislatore, abituato da decenni a vanificare con ricorrenti provvedimenti di amnistia, l’incessante lavoro della magistratura per tener dietro a migliaia di ipotesi di reato ben più efficacemente perseguibili in via amministrativa, non è poi per certo legittimato ad addebitare alla magistratura la responsabilità di avere adottato asserite irresponsabili scelte che in realtà sono poi soltanto la risultante di un’intollerabile sproporzione fra quantità di casi penali da un lato, termini e mezzi per occuparsene dall’altro. Se pertanto è pretestuoso invocare la cosiddetta discrezionalità di fatto, cui può porsi rimedio per altra più accettabile via, per richiamare invece ad una responsabilità politica del pm e se pertanto l’azione penale è, e deve restare obbligatoria, non vi è più motivo che un organismo soggetto soltanto alla legge debba essere invece posto alle dipendenze dell’esecutivo. Resta però, specie in materia di indagini sulla criminalità organizzata, il problema del collegamento fra i vari organi del pm, che in tale indagine hanno l’obbligo della direzione. Ma il problema è tecnico, non politico, a meno che l’insofferenza verso qualsiasi forma di direzione dell’esecutivo, e anche verso quelli che non intacchino l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero, non finisca per precludere alla magistratura associata qualsiasi possibilità di manovra. La criminalità organizzata spazia con la sua attività ben oltre i limiti angusti delle circoscrizioni, che nella quasi totalità dei casi sono addirittura meno ampie delle stesse province. Il pool antimafia di Palermo intuì questa innegabile realtà con riferimento a Cosa nostra e ritenne di risolvere il problema attuando quella radicale forma di collegamento costituito dalla unificazione di tutte le indagini su questa più grave forma di criminalità. A seguito di note decisioni della Suprema Corte, si ritornò al nefasto sistema delle indagini parcellizzate e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse del ministro Vassalli, il problema dei pool, che è poi quello del collegamento delle indagini, non venne affrontato legislativamente se non con inconcludenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale esortanti al coordinamento volontario. Nessuno tuttavia può realmente coordinare, se non dirigendo. Il radicale ridimensionamento contenuto nel nuovo codice di procedura penale e dei principi gerarchici all’interno degli uffici di procura, fra le procure generali e quelli della repubblica, ha reso di fatto impossibile coordinare alcunché. Queste gerarchie vanno ricostituite, almeno a livello di procure generali, esistenti su base regionale, ove dovrebbero essere accentrate, ripristinando i poteri di allocazione, le indagini sulla criminalità organizzata operante oltre le sedi circoscrizionali. Il rifiutare anche questi accomodamenti interni irrispettosi dei principi in cui tutti crediamo rischia di avere un unico sbocco, che è quello perseguito, più o meno dichiaratamente, dal potere politico.

(7 giugno 1991 Vasto Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati “il giudice fra crisi della giurisdizione e problemi…”) di Paolo Borsellino

 

Io sono stato sempre estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non lo chiamerei tanto parallelo, lo chiamerei alternativo al sistema dello Stato perché è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. E in particolare nell’ordinamento, nel nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, così come organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi sono negli altri stati, ma il nostro, mi pare, che sia, credo, l’unico stato in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. E perché? Perché probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente, e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticare, che si continua a porre come un sistema alternativo, un sistema alternativo che offre dei servigi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua, anche se probabilmente in diminuzione – traeva i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti quelli che abbiamo partecipato a quella esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, tanto che anche in quei momenti, anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia di miliardi, se non migliaia, dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali, perché la droga non lo era e non lo è mai stata, essenziale alla criminalità mafiosa. Cioè quella di continuare ad esercitare, quella che è la caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, e che comunque si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire io di essere un territorio, così come il territorio è parte essenziale dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, perché è una sua componente essenziale, dico la famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Poiché si determina naturalmente un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, con mezzi diversi ma una analoga sovranità, si determina questo conflitto. E questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma normalmente si compone attraverso il condizionamento dall’interno delle persone, o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere, delle persone fisiche atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. Naturalmente, naturalmente la risoluzione finale del problema, consiste nel chiudere… naturalmente la risoluzione finale del problema, la finalità a cui deve tendere chi veramente intende, cioè le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere, di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso il quale la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, o coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, vengono condizionate da questa istituzione alternativa. Il chiudere come? Perché ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che tutti abbiamo talvolta la sensazione che le istituzioni pubbliche non vengano considerate tanto dalle forze politiche organizzate in partiti come quelle istituzioni dove andare attraverso i partiti a scegliere i migliori che vanno a impersonarne la volontà di queste istituzioni, ma le istituzioni pubbliche vengono considerate normalmente come teatri o agoni di lobbies che li dentro si azzuffano e si scornano per impossessarsi, quanto più possibile, di fette di questo potere e di esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di esercitarlo in funzione di interessi particolari. E questo è l’accusa che da più parti politicamente si fa a quella che viene chiamata, da tutti dispregiativamente, ma da tutti sostanzialmente sopportata, “partitocrazia”. Cioè l’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche, delle istituzioni pubbliche il che naturalmente crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni pubbliche si formino quelle volontà che non sono dirette al bene pubblico ma sono dirette ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, evidentemente significa chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno di questo tipo di organizzazione. E sicuramente questo deve farsi salvando, è logico, i princìpi democratici che reggono, oggi, pressoché tutte le nostre istituzioni. Però, ad esempio, la sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono la legislazione che regola, ad esempio, gli enti locali è chiaro che è una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto al migliore dei modi, trancerà, chiuderà, impedirà l’accesso all’interno di questi enti locali di queste lobbies che andranno lì dentro, o di queste lobbies o comunque di queste infiltrazioni che possono provocare, provocano normalmente la possibilità che… le volontà di persone a cui è attribuito il potere di esprimere la volontà di queste istituzioni siano rivolte non al bene pubblico, ma siano rivolte agli interessi particolari di questa o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa.

(27 marzo 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino in occasione di una tavola rotonda sul tema mafia, criminalità, giustizia, magistratura, superprocura). di Paolo Borsellino

 

La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno.
[…] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni.

di Paolo Borsellino