il racconto di ANGELO CORBO, sopravvissuto alla strage di Capaci

 

 

Angelo Corbo,  poliziotto della scorta del giudice

Giovanni Falcone,

sopravvissuto alla Strage di Capaci.
Ha ricostruito la strage mettendo in evidenza gli aspetti critici.
Nato nel 1965 nel quartiere Noce di Palermo, frequentò la scuola elementare “Edmondo De Amicis” e quindi la scuola media “Principessa Elena di Napoli”.
I suoi genitori, originari di Canicattì, temevano l’ambiente palermitano e tendevano ad isolarlo, ma al tempo stesso lo educarono a rigorosi valori morali e di legalità[1].
Divenne agente di polizia nel 1987 e fu deputato a sorvegliare l’abitazione di Sergio Mattarella. Successivamente passò alla scorta di Giovanni Falcone.
Dopo la strage di Capaci, ottenne il trasferimento alla polizia scientifica. Attualmente prosegue la battaglia contro la mafia parlando ai ragazzi delle scuole[2].

La strage di Capaci

Il 23 maggio 1992, essendo il più giovane degli uomini di scorta, si trovava nella Fiat Croma azzurra che seguiva il giudice, seduto dietro, incaricato di controllare il lato posteriore.
I tre uomini della sua auto riportarono gravi ferite, ma sopravvissero: con Angelo Corbo, c’erano Gaspare Cervello e Paolo Capuzza.
Sopravvisse anche l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, che si trovava seduto dietro, nella automobile guidata dal giudice Giovanni Falcone.
Morirono i tre agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, oltre a Giovanni Falcone e alla moglie Francesca Morvillo. Angelo Corbo fu testimone di quanto avvenne quel giorno, poiché riuscì ad uscire subito dall’auto, benché ferito[3].

Pubblicazioni

Angelo Corbo ha pubblicato, nel 2016, il libro Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze.
Nell’opera egli analizza gli aspetti umani della strage, le emozioni di quel momento, e soprattutto apre una finestra sull’atteggiamento dello stato italiano verso le vittime, sviscerandone alcuni aspetti critici. Descrive la vita quotidiana degli uomini che prestano servizio di scorta. Illustra anche le ragioni che lo hanno indotto ad entrare in polizia: nell’istituto superiore “Ettore Maiorana” subì gravi atti di bullismo, che lo costrinsero a marinare la scuola, e che si sommarono alle prepotenze già subite da bambino. Inoltre, fu scosso dall’uccisione di Claudio Domino, undicenne che conosceva bene.

Onorificenze

Medaglia d’oro al valor civile
«”Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.” Quirinale»
 

Note

  1. ^ Angelo Corbo, Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze., Firenze, Diple edizioni, 2016.none
  2. ^ “Vivo da allora con il senso di colpa”, in LaStampa.it. URL consultato il 17 novembre 2017.none
  3. ^ Strage di Capaci, il racconto dei sopravvissuti, in l’Espresso, 20 maggio 2016. URL consultato il 17 novembre 2017.none

Bibliografia

  • Angelo Corbo, “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze“, Diple edizioni, 2016.

Collegamenti esterni


PROCESSO STRAGE SI CAPCI – Audio deposizione di Angelo Corbo 


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“Falcone era vivo, ci chiedeva aiuto con lo sguardo”: il racconto del sopravvissuto a Capaci

 

“Dovevamo accompagnare Giovanni Falcone a Favignana a vedere la mattanza dei tonni. Ma l’abbiamo vista in anticipo la mattanza. E i tonni eravamo noi”.
È questo quello che racconta Angelo Corbo, uno dei poliziotti sopravvissuti a Capaci, in un’intervista esclusiva contenuta nelle nuove puntate di Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano. Vengono pubblicati oggi, infatti, altri due episodi, che chiudono il primo blocco della serie, quello che racconta delle vicende relative alla strage alla di Capaci: tutte le puntate sono disponibili gratuitamente su ilfattoquotidiano.it, su Spotify, Apple podcast e Amazon music.

Le nuove puntate del podcast – Quando Giovanni Falcone tornò in Siciliaquel sabato pomeriggio del 23 maggio di trent’anni fa, infatti, era stato invitato ad assistere alla tipica pesca dei tonni che da centinaia di anni si svolgeva sull’isola in provincia dei Trapani. È per questo motivo che abbiamo scelto di intitolare questa serie così: Mattanza, il luogo dove Falcone doveva andare a passare la domenica. Solo che lo hanno ucciso il sabato.
Un piano di morte clamoroso e difficilissimo quello studiato da Cosa nostra. Per definirlo i boss crearono un neologismo: l’Attentatuni, cioè il grande attentato. E in effetti quello organizzato per assassinare Falcone è un attentato senza precedenti. Nel marzo del ’92 Totò Riina ordina la fine della missione romana: nella Capitale, infatti, il giudice si muove spesso senza scorta. Un commando guidato da Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano era stato inviato a Roma per eliminarlo: ai mafiosi avevano detto che Falcone andava spesso a mangiare al Matriciano, in via dei Gracchi, nei pressi della corte di Cassazione. Lì però non lo trovano perché quell’informazione è falsa: il giudice a Roma andava spesso a mangiare a Campo dei fiori, al ristorante La Carbonara, un posto che ha il nome di un altro piatto tipico della cucina romana. Quello è un errore banale, quasi comico. È un errore che forse cambia la storia delle stragi. Dopo pochi giorni, infatti, il capo dei capi annulla tutto: richiama i suoi e gli spiega chebisogna tornare in Sicilia, dove avevano trovato “cose più grosse”. Quali? Il pentito Gaspare Spatuzza individua in quel cambio di strategia un passaggio fondamentale: “La genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra”.
Ma se non è solo Cosa nostra allora cosa altro è?
Un attentato come quello dell’Eta – Di sicuro c’è solo che con la strage di Capaci, la mafia cambia per la prima volta strategia: blocca quello che sarebbe stato un semplice omicidio a colpi di arma da fuoco. E organizza un attentato in grande stile, difficile da preparare e che non assicura di eliminare l’obiettivo. Dopo trent’anni forse non ci facciamo più caso ma quella di Capaci è una strage con un’altissima probabilità di fallimento: il commando guidato da Giovanni Brusca decide di imbottire di esplosivo un’intero pezzo di autostrada. Per trovare un precedente simile bisogna tornare indietro al 1973, all’attentato compiuto dai terroristi dell’Eta a Madrid: allora il bersaglio era Luis Carrero Blanco, il delfino del generale Francisco Franco. Ma l’auto sul quale viaggiava procedeva a passo d’uomo. A Capaci, invece, le macchine di Falcone e della scorta viaggiano a tutta velocità. Sono tre Fiat Croma blindate: la prima è marrone e a bordo ci sono gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. La seconda è quella bianca del giudice che quel giorno si è messo alla guida. Lo fa sempre quando con lui c’è la moglie, Francesca Morvillo: soffre il mal d’auto e ha bisogno di sedersi davanti. L’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si accomoda dunque sui sedili posteriori. La terza auto è di colore azzurro e trasporta altri tre poliziotti: Gaspare Cervello, Paolo Capuzza e Angelo Corbo.
“Così ci andiamo ad ammazzare” – È Corbo che racconta gli ultimi attimi prima dell’esplosione, quando a un certo punto l’auto guidata da Falcone rallenta: “Una macchina di scorta è difficile che scente sotto i 150, 160 chilometri orari e questa era l’andatura che noi tenevamo. Arriviamo però a un punto dove vediamo che la macchina di Falcone, la Croma Bianca, decelera. Passa dai 170, 160-170 chilometri orari ai 120. Il mio autista lo nota ed esclama: ma perché sta rallentando così tanto?”. Già perché rallenta così tanto? Corbo e i suoi colleghi che lo scopriranno soltanto tempo dopo, quando a raccontarlo sarà l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Dice che aveva chiesto a Falcone, che era alla guida, di lasciargli le chiavi dell’auto una volta giunti a destinazione. Falcone, evidentemente, era sovrappensiero. “Commetteun’imperizia notevole – continua Corbo – spegne la macchina, vuole togliere le chiavi dal chiavistello nel cruscotto, nella sua testa è togliere quelle, prendere le sue, rimettere in moto come se nulla fosse successo… sappiamo tutti che è una cosa da pazzi, perché la macchina tra l’altro in velocità, una macchina super corazzata come quella sua, significa non poterla più riprendere. Perché si inserisce il servofreno, si inserisce il servosterzo, la macchina è incontrollabile. Tant’è che mentre spegne e sta per togliere le chiavi, Giuseppe Costanza gli dice: Dottore ma che fa? Così ci andiamo ad ammazzare”.
“Lì ho schiacciato il telecomando” – Che Falcone ha rallentano se ne accorge anche Brusca, il boss che i suoi sodali chiamavano ‘u verru, il porco. Brusca ha anche un altro soprannome che non ha bisogno di traduzioni: ‘u scannacristiani. Dopo aver organizzato l’attentato, si è sistemato su una collinetta da cui può dominare l’autostrada che collega Palermo col suo aeroporto, all’altezza dello svincolo che conduce a Capaci. Nel podcast si può ascoltare la cronaca che Brusca fa di quei secondi, quando Nino Gioè lo invita a premere il telecomando che aziona l’esplosivo: “Gioè mi diceva, quando ha visto arrivare il corteo “vai” … perché di colpo la macchina e il corteo avevano rallentato, si vedeva ad occhio, io non schiacciavo, Gioé mi ripeteva la seconda volta ‘Vai‘ e io non lo facevo, la terza volta mi dice un’altra volta ‘Vai‘ e lì ho schiacciato il telecomando“. È in quel momento che Corbo sente un boato: “La mia sensazione è quella di planare, alzarci completamente da terra. Poi ricadere violentemente in quello che rimaneva dell’asfalto e continuare a sentire questi grandi rumori di massi, macigni che ci cadevano addosso”, spiega. Poi racconta gli attimi immediatamente successivi all’esplosione: “Il cratere è indescrivibile, si è aperto un enorme vulcano e non si riusciva a vederne la fine. Ricordo un’atmosfera spettrale, lunare, tutto sembrava tranne che un’autostrada”.
“Falcone era ancora vivo” – Corbo e gli altri due colleghi che viaggiavano con lui rimangono feriti, ma scendono subito dall’auto con l’obiettivo di andare a proteggere Falcone da un possibile secondo attacco. “Siamo tutti sanguinanti, doloranti. Io avevo il naso rotto, quindi perdevo sangue.
In ogni caso ci armiamo, ognuno come poteva. Ricordo Capuzza che scende dalla macchina e impugna la pistola con un braccio fratturato”. In queste condizioni i tre poliziotti si dirigono verso l’auto di Falcone, che è ancora vivo. “Ci mettiamo a fare scudo intorno alla macchina e vediamo l’espressione degli occhi di Falcone che era in vita. Ci guarda fissi: ricordo che non aveva sangue sul volto o alcuna traccia visibile di ferite. Falcone continua a guardarci e con gli occhi chiede aiuto. Ma noi quell’aiuto non lo riuscivamo a dare”. Dopo la strage il poliziotto ha raccontato di avere appreso della morte di Schifani, Dicillo eMontinaro – i colleghi che occupavano la prima auto di scorta del corteo – solo molte ore dopo, in ospedale: “Pensavamo che fossero riusciti a passare, schivando l’esplosione. Io credevo che a chiamare i soccorsi fossero stati proprio loro. Ma non era così e a darci questa notizia tremenda fu un infermiere, che ci disse semplicemente: voi siete stati fortunati, dei vostri colleghi è stato trovato ben poco ”.


 
 
 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
Angelo Corbo, racconta la sua vicenda umana e professionale, di agente di scorta di Giovanni Falcone e sopravvissuto alla strage di Capaci. Lo fa a distanza di tempo per riprendere quel filo della memoria che sbiadiva fino a perdersi e porre dinanzi a noi squarci improvvisi su alcuni aspetti ancora oscuri della strage di Capaci e della protezione di Giovanni Falcone. Angelo è riuscito ad emergere dal suo nascondiglio, dallo spazio protetto del suo lavoro e dei legami forti della sua famiglia che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Vi si era rifugiato pagando il caro prezzo degli incubi e delle paure e confidando nella smemoratezza degli uomini, anche e soprattutto di quelli delle Istituzioni che, prima, si erano scordati del suo trasferimento a Firenze e, poi, della sua stessa esistenza. Leggere la sua testimonianza aiuta a decifrare il lavoro faticoso degli agenti di scorta, la necessità di una preparazione professionale sempre al passo con i tempi, proprio per garantire al meglio l’incolumità di chi è sottoposto quotidianamente al rischio per il semplice motivo di compiere il proprio dovere, e offre un contributo prezioso a fare chiarezza sulle modalità con cui le grandi scelte si riverberano sulle vicende quotidiane di chi opera in contesti mafiosi. Scorrendo il testo, è molto forte l’impressione che l’esperienza di ogni giorno potrebbe essere molto utile per comprendere e contrastare meglio le organizzazioni criminali, mentre chi decide sembra muoversi secondo altre logiche, legate molto spesso, negli ultimi tempi, alle cosiddette economie, termine con cui si mascherano semplicemente dei tagli alle risorse per opporsi alla mafia. Le sue parole restituiscono alcuni tratti della vicenda con una luce nuova. Ne indichiamo solo due perché sono quelli più ricorrenti nel racconto: se vi era la convinzione che il pericolo per Giovanni Falcone fosse attenuato tanto da rinunciare alla scorta specifica per lui, dopo l’attentato di Capaci possiamo legittimamente chiederci su quali elementi era fondata tale convinzione, chi ne erano gli autori e come giudicarli? Ancora: mentre si sottolinea quanto sia importante, oltre la preparazione e la professionalità degli uomini della scorta, il loro affiatamento, come si giustifica la composizione di quella del 23 maggio? A questi interrogativi che ci suggerisce il racconto di Angelo e che mantengono intatta la loro forza e urgenza, perché non hanno avuto risposta plausibile a distanza di anni, si aggiunge, ad inquietarci, il ricordo del primo soccorritore. Dopo essere arrivato sul luogo dell’attentato e aver scattato alcune foto gli è stato sottratto il rullino da due “agenti di Polizia”. Dei due sorprende innanzitutto la celerità con cui sono giunti sul teatro dell’attentato, molto prima dell’intervento di Polizia e Carabinieri, e sorprende che la loro preoccupazione di entrare in possesso di un documento utile alle indagini non abbia avuto seguito con la consegna agli investigatori. I modi bruschi per appropriarsene e la scomparsa del rullino accrescono ombre e ipotesi che gravano anche questo passaggio cruciale della nostra storia. I mafiosi autori della strage e i complici fuggono dopo il terribile boato, come ci ricordano i pentiti, e quindi occorre cercare in altre direzioni per dare un volto ai due e tornano in mente le parole del pentito Gioacchino La Barbera, che vi erano uomini estranei alla mafia nei preparativi all’attentato. Qualcuno che era sul luogo e cercava qualcosa fra le rovine dell’esplosione e non gradiva essere ripreso!

 

 

 

 

 

 

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Strage di Capaci, a Bari la testimonianza dell’agente Angelo Corbo sopravvissuto all’attentato

Angelo Corbo era l’agente più giovane della scorta. Si trovava a bordo di una Fiat Croma azzurra insieme a Gaspare Cervello e Paolo Capuzza. Sopravvissero tutti e tre. Era il 23 maggio 1992, il giorno della strage di Capaci. Morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Quel giorno, nella memoria e nella vita di Angelo Corbo, ha segnato uno spartiacque

 

 

La mia vita dopo Capaci: parla Angelo Corbo, agente di scorta a Falcone

Stato Donna, 19 novembre 2022. Incontro straordinario ad Ascoli Satriano, giovedì 17 novembre presso il Polo Museale e venerdì 18 con gli studenti del Liceo classico Lanza. Su iniziativa di Lino Santoro, ex consigliere comunale ed esponente dell’associazione A.R.C.I.  di Foggia, la comunità ascolana ha ospitato l’Ispettore Capo della Polizia di Stato Angelo Corbo, il sopravvissuto alla strage di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, sua moglie, e gli agenti colleghi di Corbo.
Nel silenzio ammutolito e commosso sono risuonate le parole di ricordo e di testimonianza di Angelo, al tempo dei fatti un giovanissimo agente di scorta, messo a lavorare in un mondo più grande di lui senza alcuna preparazione, come sottolinea più volte nel corso della conversazione. Con un tono scanzonato, che non inganna nessuno dei presenti quanto a commozione, con il sorriso di chi sa che sta parlando di una delle grandi tragedie nazionali, Angelo risponde alle domande fondamentali: ti senti un eroe?  Cosa ti ha spinto a fare non l’agente di pattuglia ma l’agente di scorta?
L’incoscienza, dice e conferma più volte. Solo i pazzi e gli incoscienti possono vivere accanto ad ‘un uomo morto che cammina’, sapendo di essere destinati alla stessa fine. Lui, sopravvissuto e ferito insieme ad un altro collega, mentre l’asfalto dell’autostrada gli esplodeva intorno e le macchine della scorta e del giudice erano scaraventate in alto o sotterrate da cumuli di cemento, lui e l’amico si sono rialzati e, pur feriti, hanno raggiunto l’auto di Falcone morente per difenderlo da eventuali altri assalti, perché si sa, dice, la mafia si accerta sempre se il lavoro è stato portato a termine nel migliore dei modi. Quindi poteva colpire ancora.
Nessuno in quell’inferno sapeva nulla di chi era vicino. Ognuno sperava che qualcuno si fosse salvato. Prima dell’arrivo dei soccorsi la morte ha aleggiato sui corpi come bambole di pezza delle vittime e sui feriti che aspettavano a loro volta il colpo di grazia. “Eravamo incoscienti”, ripete. In realtà dal suo racconto emerge un’altra grande verità. La sua vita in un quartiere di Palermo ad alta densità mafiosa, dove per non avere a che fare con certi ambienti bisognava stare chiusi in casa; la prepotenza degli arroganti sulla gente semplice, che non poteva sperare di vivere tranquillamente del suo lavoro; l’ottimo lavoro della scuola media inferiore, in cui già si parlava di mafia: queste le ragioni che da bambino hanno condizionato le sue scelte di giovane adulto.
Non è morto con Falcone e con i suoi colleghi l’ispettore Corbo ma è comunque morto, perché la sua vita precedente è morta con loro a Capaci. Il suo lavoro dopo è stato quello di restare nella polizia e di parlare ovunque. La sua missione è stata ed è questa. Alla medaglia d’oro al valore civile ricevuta per la tragedia di Capaci preferisce quella che gli riconosce il lavoro di testimonianza attiva. Perché Falcone non lo si è voluto salvare, esplicita con una rabbia celata dietro un sorriso gentile verso gli astanti: una scorta di giovani senza nessuna esperienza, composta di ragazzi entusiasti ma che avrebbero dovuto improvvisare in mancanza di quegli accorgimenti che sono di fatto mancati; nessun elicottero nella trasferta palermitana del giudice, quando un elicottero avrebbe potuto fare la differenza, permettendo di  vedere senza ombra di dubbio le persone acquattate sulle alture in attesa di far saltare in aria le vittime designate; nessun mezzo, neppure una radiolina di contatto con gli altri. Cui si aggiunge l’invidia, l’animosità dei colleghi del giudice; la stolidità di cittadini normali che si lamentavano del subbuglio nel quartiere di Falcone quando si presentava la scorta.La cattiveria di chi rimproverava a Falcone di aver distrutto con le sue indagini una economia fiorente. L’ipocrisia del dopo morte, quando tutti si dichiaravano amici del defunto magistrato, anche chi lo aveva osteggiato. Sono spuntati come funghi anche sedicenti agenti di scorta, racconta amareggiato Angelo … ‘Le falconiadi’, le chiama, quelle inutili cerimonie dalla lacrimuccia strizzata, con cortei e striscioni che servono a ben poco. La memoria rituale ogni anno rasenta la presa in giro. Falcone lo dobbiamo ricordare ogni giorno, dice.
Tutti gli oratori presenti, tra i quali la dott.ssa Angela Barbato, Commissario Prefettizio Città di Ascoli Satriano, sottolineano il difficile ruolo della convivenza con ambienti mafiosi;  il compito dei dirigenti scolastici (dott. Laura Flagella, dirigente a Lucera), ai quali spetta il difficile equilibrio di pesare ogni parola di fronte  ai bambini che conoscono la criminalità e per quelli che ne sono lontani; la difficoltà dei sindaci (Francesco Miglio, sindaco di San Severo) a tradurre sul territorio le risposte, anche nuove e  più efficaci, con cui la prefettura cerca di stornare dal riciclo dei soldi sporchi gli imprenditori di capitanata; la difficoltà dei penalisti (avv. Francesco Paolo De Sanctis) ad assicurare un processo giusto anche agli accusati di mafia, senza uscire fuori dai limiti del giusto, nel ricordo comunque di Falcone e Borsellino come modelli per tutti gli studenti di legge.
Emerge la buona notizia che la provincia di Foggia, con le sue diversità anche criminali, ora non è più sottovalutata come in passato, soprattutto dai fatti di San Marco in Lamis del 2017, la Capaci di Capitanata, quasi uno spartiacque fra un prima e un dopo, quando, per uccidere un boss, persero la vita degli innocenti. La pericolosità emerse in tutta la sua evidenza di fronte alla mafiosità che si erge per statuto a stato che comanda in un territorio, al posto dello Stato vero.
L’Ispettore Capo Angelo Corbo ha negato ripetutamente a se stesso l’appellativo di eroe. Forse aveva ragione Sofocle quando diceva che bisogna aspettare la fine della vita per vedere come usciamo da questa vita, per vedere di cosa ciascuno di noi è capace nel momento di maggiore pericolo. Forse l’appellativo eroe potrebbe appartenere a tanti di fronte ad emergenze simili (e la Capitanata ha i suoi morti, che hanno rifiutato la connivenza col sistema mafioso). Ma tutti coloro che sono usciti da questo incontro erano consapevoli di aver incontrato in Angelo Corbo un eroe.  Maria Teresa Perrino, 19 novembre 2022 STATO DONNA

Gli Angeli custodi di Giovanni Falcone