GIUSEPPE D’AVANZO, 24 giugno 1990 LA REPUBBLICA
Francesco Marino Mannoia, sulle prime, non rispose. Prese tempo, accese una sigaretta, ne seguì con assoluta concentrazione le volute di fumo, guardò negli occhi Giovanni Falcone. Poi, si decise a parlare: Dottore, si può anche morire di rimorso. Di rimorso, secondo il pentito di mafia, morì Rosario Nicoletti. Il 17 novembre del 1985 Rosario Nicoletti aprì la finestra della cucina nel suo appartamento all’ ottavo piano di via Lincoln 19 e si gettò nel vuoto. Morì sul colpo. Aveva 53 anni. Era stato segretario della Dc siciliana a cavallo di un maledetto 1980. Fu il garante dell’ esperimento della solidarietà autonomistica, leader di una Dc decisa ad aprire la porta al Pci al Comune come alla Regione, il mediatore di un rinnovamento che aveva portato Piersanti Mattarella alla presidenza della Regione siciliana e Michele Reina alla segreteria provinciale di Palermo. Reina fu ucciso il 23 marzo del 1979. Mattarella fu ammazzato il 6 gennaio del 1980. Quale fu il rimorso che uccise Rosario Nicoletti? E’ una domanda che conduce nel cuore dell’ ordito mafia-politica-affari di Palermo. La risposta ha confermato ai giudici alcune certezze che sono oggi il canovaccio investigativo per la catena di delitti politici ed eccellenti che hanno insanguinato dal 1979 al 1982 la città siciliana: Reina, Boris Giuliano (21 luglio 1979), Cesare Terranova e Lenin Mancuso (25 settembre 1979), Mattarella, Emanuele Basile (4 maggio 1980), Pio La Torre (30 aprile 1982). Indizi (o coincidenze che possono presto diventarlo), testimonianze, ammissioni, riscontri documentali hanno convinto i giudici di Palermo che esiste, nella Sicilia occidentale, una centrale unica che dirige l’ assegnazione degli appalti e regola l’ esecuzione dei lavori e che ha come presupposto il controllo del territorio. Non c’ è appalto che la mafia non controlli. Non c’ è appalto, controllato dalla mafia, che non sia diretto dalla Commissione che decide chi, come, quando, a quale prezzo, profitto e percentuale debba farne parte. Non è una regola di oggi né una regola di ieri. E’ una regola politica che ha almeno quarant’ anni. E’ il prezzo hanno saputo più chiaramente i giudici dopo i lunghi interrogatori di Vito Ciancimino che la Dc siciliana ha dovuto pagare alla mafia per scioglierne l’ esercito separatista, annacquarne le velleità indipendentiste, vincerne l’ antistatalismo. E’ il prezzo sostengono i giudici di Palermo che tutti i partiti, nessuno escluso, hanno voluto pagare alla Commissione. Chi ha tentato di ricontrattarne il potere, come Reina, è morto. Chi, come Mattarella, voleva tagliare di netto questo cordone ombelicale, per le istituzioni e la Dc soffocante come la corda per l’ impiccato, è stato ucciso. Chi, come Pio La Torre, ha voluto riprovarci lasciando aperta la porta a quell’ esperimento politico è stato ammazzato. Tutti coloro che si sono avvicinati troppo alla verità sono stati liquidati (Giuliano, Terranova, Basile). Francesco Marino Mannoia ora è in silenzio. Guarda Falcone per valutare l’ effetto delle sue parole. Sa, Falcone, che le risposte di un mafioso non sono mai dirette. Sa che girano in tondo. Il giudice aveva chiesto del movente, del possibile movente, del delitto Mattarella. Veda, dottore prosegue lentamente Mannoia Nicoletti lo dovevo ammazzare io. Me lo chiese Stefano Bontade. Era il 1980. Tieniti pronto, mi disse, dovrai ucciderlo: quello è ormai nelle mani dei corleonesi. Furono più lesti i corleonesi ad uccidere Stefano Bontade, era il giorno del suo quarantaduesimo compleanno, il 23 aprile del 1981. Né, peraltro, Nicoletti era davvero nelle mani dei corleonesi. Il segretario regionale della Dc aveva stretto un patto politico con Ciancimino, ma Ciancimino, sì, era nelle mani dei corleonesi. E tanto bastava a don Stefano Bontade, che della Commissione faceva parte, per sapere che non c’ era una vera differenza: se Nicoletti si era alleato con Ciancimino, avrebbe presto dovuto garantire gli affari dei corleonesi e, di conseguenza, assottigliare la fetta di appalti e spesa pubblica destinata alle casse della famiglia di Villagrazia. Lo si doveva levare di mezzo. Subito. Ma Nicoletti non fu ucciso. Il rimorso lo ha ucciso, ripete Mannoia a Falcone. Il rimorso di aver stretto quel patto con i politici in mano ai corleonesi, un’ alleanza che votava al fallimento il tentativo di rinnovamento politico-istituzionale della Regione avviato da Mattarella, che condannava alla sconfitta anche la più modesta ricerca di nuovi equilibri interni tentata da Reina. Un abbraccio che isolava l’ uno e l’ altro, che li designava come ostacoli da rimuovere per non intralciare le decisioni della Commissione. E’ per questo, secondo i giudici, che Mannoia replica trasversalmente ad una domanda sulla morte di Mattarella con una risposta sulla morte di Nicoletti. Nel puzzle che, lentamente e a fatica, si sta componendo dinnanzi agli occhi dei giudici, le parole di Francesco Marino Mannoia sono l’ ultimo tassello di un lavoro investigativo che ha maturato come certezza quella che finora era stata soltanto un’ ipotesi: c’ è sempre un interesse criminale dietro ogni delitto, d’ ordinaria violenza o eccellente che sia, perchè sono la politica e i politici subalterni alle volontà mafiose e non il contrario. Negli archivi del Palazzo di Giustizia di Palermo si stanno negli ultimi mesi accumulando rapporti e dossier sugli appalti e la spesa pubblica in Sicilia. Decine di volumi. Sono indagini a campione, a volte il risultato della confessione di un amministratore, a volte lo scenario illuminato dalle ammissioni di un imprenditore che vuota il sacco. Tutti i racconti coincidono, tutti i riscontri si sovrappongono geometricamente alle aree di potere delle famiglie e della Commissione. Come ha ammesso il cavaliere di Catania Gino Costanzo, non c’ è appalto in Sicilia che non passa nelle mani della mafia. Un’ appropriazione che avviene in una gradualità di poteri criminali che vede in azione il boss delle famiglie nel loro territorio di competenza per gli appalti più ordinari, il capo mandamento per gli impegni di spesa pubblica più consistenti, la Commissione per le opere più imponenti finanziate con cifre a undici zeri. Sui tavoli del Palazzo di Giustizia di Palermo ci sono le tracce che, per ogni livello d’ intervento, la mafia sceglie il suo interlocutore politico. Può bastare anche un consigliere comunale per un piccolo appalto nella provincia di Palermo. Non basta un assessore se l’ opera da appaltare è consistente. Bisogna volare a Roma, nei palazzi della politica e dei ministeri, per decidere dove, come, quando, a favore di chi, secondo quali procedure, una gara d’ appalto potrà essere convocata. Nessuno e niente, sostengono i giudici, sfugge a questa logica di potere. Né le piccole ditte né le società europee. In tutti i casi che finora sono stati esaminati, i giudici si sono imbattuti in vincitori decisi in anticipo, in una permeabilità dell’ amministrazione dello Stato che assicura ai manager di Cosa nostra accesso agli uffici, a documenti e notizie riservate. Ma nelle carte giudiziarie di Palermo c’ è un’ altra controprova del primato criminale sul livello politico e la si rintraccia in una girandola di sei morti uniti da un unico filo. Una storia tutta da raccontare. Era il 12 gennaio 1988, due ragazzi a bordo di un vespino affiancano la Fiat 132 di Giuseppe Insalaco, dell’ uomo cioè che per quattro mesi era riuscito ad essere sindaco di Palermo contro la volontà di Vito Ciancimino. Gli sparano dal finestrino e lo uccidono sul colpo. Poi fuggono, lasciano poco lontano la Vespa, i caschi, gettano sotto un’ auto una pistola che non ha sparato. Quella pistola è diventata un’ utilissima traccia per gli investigatori. Una perizia balistica ha dimostrato infatti che quella stessa arma ha ucciso nel 1982 il capitano dei carabinieri Salvatore D’ Aleo che aveva voluto tenacemente riprendere le indagini del colonnello Emanuele Basile là dove le aveva lasciate prima di essere ammazzato. I killer di Insalaco dicono gli inquirenti pagarono a caro prezzo quell’ errore. Subito dopo la morte dell’ ex sindaco, furono a loro volta uccisi in un mercatino di viale Francia. I killer che li fecero fuori fuggirono a bordo di una moto che fu trovata bruciata alla periferia di Palermo. Accanto una bottiglia ancora piena di benzina. Sulla bottiglia, un’ impronta digitale. L’ impronta digitale di un mafioso, Salvatore Madonia dei Madonia di Resuttana, i più fedeli alleati palermitani dei corleonesi, lo stesso killer che uccise all’ Arenella il collaboratore del capo della squadra mobile Ninni Cassarà, Natale Mondo. Un’ unica mano, dunque, per un regolamento mafioso (i carusi del mercatino), per un delitto politico (Insalaco), per due punizioni preventive (D’ Aleo e Mondo). Ai giudici non è sfuggito che nel territorio dei Madonia, a Resuttana, nel breve spazio di un chilometro quadrato sono caduti negli anni: Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Boris Giuliano, Michele Reina, Cesare Terranova, Ninni Cassarà.