14.11.2023 Quotidiano di Sicilia – ROBERTO GRECO
Arriva la pronuncia della Cassazione sul caso Trattativa Stato-mafia: si chiude un lungo capitolo della storia dell’antimafia.
“Servono prove, non indizi”. Sembra questo il monito che aleggia nella sentenza sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia emessa dalla Corte di Cassazione lo scorso 27 aprile e le cui motivazioni sono state depositate il 10 novembre.
Nelle 95 pagine della sentenza scritte dal consigliere estensore Fabrizio D’Arcangelo, viene evidenziato che, per gli ermellini, gli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, andavano assolti in via definitiva, non perché il fatto non costituisce reato.
Il processo penale ha la funzione di accertare se un determinato fatto costituente reato sia stato commesso e se l’imputato cui è attribuito l’abbia effettivamente compiuto. Per accertare la fondatezza della pretesa punitiva la prova, nel processo penale, costituisce l’elemento su cui deve basarsi il convincimento del giudice. Il giudice terzo e imparziale dovrà valutare le prove acquisite nel contraddittorio tra le parti e darne atto nella motivazione del provvedimento giurisdizionale. Le prove sono le circostanze che dimostrano un fatto, un elemento utile a ognuna delle parti per appurare la fondatezza delle sue affermazioni, ossia l’innocenza dell’imputato per la difesa o la colpevolezza per il pubblico ministero. Gli indizi, o prove indiziarie, sono relativi a quel ragionamento che da un fatto provato, ossia la circostanza indiziante, ricava l’esistenza di un altro fatto da provare, attraverso una deduzione basata su una massima di esperienza o su di una legge scientifica.
Trattativa Stato-mafia: “Servono prove, non indizi”
Nelle motivazioni della sentenza si legge che esiste “un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”. Proprio perché in nessuno dei due gradi di giudizio precedenti sono state presentate prove “provate”, “risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso – scrivono i supremi giudici – Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a ‘Cosa nostra’ è, all’evidenza, insussistente”.
Ultimo capitolo, quindi per il teorema “trattativa”, definitivamente smentito dagli ermellini che indicano come “la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi essere stata idonea ex se a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo, in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come auto evidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”. Pertanto, risulta evidente che gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, non hanno veicolato la minaccia mafiosa al Governo ma, anzi, “l’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”.
I Ros volevano “decapitare” l’ala stragista di Cosa nostra
Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, “un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di un’obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”. E i giudici chiosano scrivendo che “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può, pertanto, essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”.
Nessuna minaccia comunicata
I giudici, poi, smentiscono che il generale Mori abbia riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra – altre stragi se non si fossero migliorate le condizioni carcerarie dei boss detenuti – fino al cuore del Governo, cioè all’allora guardasigilli Giovanni Conso, attraverso Francesco Di Maggio, che era il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa era per questo motivo che a un certo punto il ministro della Giustizia aveva lasciato scadere più di trecento provvedimenti di 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Anzi, più che smentire, la Suprema Corte boccia le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello, accusata di aver “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio“. Secondo gli ermellini, in pratica, i giudici del processo di secondo grado non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”.
Forza Italia garantista, non minacciata dalla mafia
A proposito, invece, della figura di Dell’Utri, già assolto in Appello dall’accusa di aver trasmesso al primo esecutivo di Silvio Berlusconi le minacce mafiose, i giudici scrivono: “Entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi” e che “secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con l’intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.
Trattativa Stato-mafia, il commento finale dopo la sentenza
La Cassazione formalizza che “fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve tuttavia rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Ma anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale – critica la Cassazione – l’accertamento del giudice penale non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale”.
Secondo la Suprema corte è evidente che la decisione dei carabinieri di parlare con Ciancimino non provocò in Riina la volontà di minacciare lo Stato con altre bombe. “Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo – si legge nella sentenza sulla Trattativa Stato-mafia – bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali”
Specificano, inoltre che “le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio” e che “la Corte di assise di appello, dunque non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, in quanto ha posto a fondamento della dimostrazione dell’avvenuta consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di adeguata efficacia dimostrativa, quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo”.