La mancata perquisizione del “covo” di Totò Riina
Il pm Ingroia parla di “ragion di Stato”. Perché?
E’ solo nell’agosto del 1998, a cinque anni dai fatti, che un libro sui misteri legati all’arresto del boss Totò Riina (“C’era una volta la lotta alla mafia”, edito da Garzanti), scritto dai giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato porta all’attenzione dell’opinione pubblica l’oscura vicenda della mancata, quanto insensata, perquisizione dell’appartamento in cui viveva il boss dei boss.
A dar vigore alle rivelazioni contenute nel libro è, paradossalmente, la querela presentata dal generale dei Ros Mario Mori, dal cap. Giuseppe De Donno e dal magg. Sergio De Caprio, meglio noto come “Ultimo” l’uomo che secondo una vulgata catturrò materialemnte Totò Riina.
I tre ufficiali dei carabinieri ritengono diffamatorie alcune affermazioni contenute nel libro e contestano la ricostruzione delle vicende che ruotano proprio attorno alla cattura di Riina.
In realtà le modalità della cattura del boss di Cosa Nostra da parte del Ros dei carabinieri, avvenuta il 15 gennaio 1993, e la mancata perquisizione del covo di via Bernini, subito dopo l’arresto del boss di Corleone e sullo smantellamento dell’apparato di controllo a distanza che il Ros aveva collocato nella zona sono oggetto da diversi anni di un’indagine avviata dalla procura di Palermo. Un’indagine scaturita poco tempo dopo la cattura di Riina, quando dell’intervento di una squadra mafiosa con compiti di “pulizia” nel covo di Riina aveva parlato il “pentito” Gioacchino La Barbera, ascoltato nel ’94 dai magistrati di Palermo Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi. I due sostituti lo stavano interrogando sul contenuto di un’agendina, intestata alla Camera dei Deputati, recuperata tra gli effetti personali di Nino Gioé, il boss di Altofonte morto suicida in una cella di Rebibbia. Durante i riconoscimenti fotografici di mafiosi, La Barbera concentrò l’attenzione su di un volto: “E’ uno di quelli che ha partecipato alla pulizia della villa di via Bernini”, disse, a sorpresa, La Barbera, indicando Giovanni Grizzafi, parente di Riina. Poi raccontò nei dettagli l’operazione alla quale sostenne di avere partecipato. Appreso dell’arresto, i mafiosi ritenevano scontata un’ immediata irruzione a casa Riina e, sorpresi che ciò non fosse ancora accaduto, decisero di svuotare il covo; si diedero appuntamento al Motel Agip e si recarono in via Bernini in taxi. In quello stesso contesto, sempre in taxi, furono condotti a Corleone la moglie ed i figli di Riina. Secondo il pentito a guidare l’ operazione di svuotamento del covo fu, oltre a Grizzafi, anche Giuseppe Sansone, genero del boss Salvatore Cancemi. Sette mesi dopo Cancemi si consegnò ai carabinieri cominciando a “collaborare”. Sui motivi che indussero i carabinieri del Ros a ritardare di 16 giorni l’irruzione nel covo del capo di Cosa Nostra si sviluppò un fitto carteggio tra il procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli e il generale Mario Mori, allora a capo del Ros.
Eppure fino al libro di Bolzoni e Lodato l’inquietante vicenda rimane sotto traccia. Il 21 dicembre del 2000 a sollevare nuovamente dubbi sulla mancata perquisizione della villa di Riina dopo il suo arresto vengono dall’ex magistrato antimafia Giuseppe Di Lello, ora eurodeputato, in una intervista al Tg3 regionale. Dice Di Lello: “Ricordo che quando ho interrogato l’autista di Totò Riina, Salvatore Biondino dalle carte e dai pochissimi appunti che aveva addosso abbiamo ricavato molto, figuriamoci cosa c’era nella casa del boss. Finché non sapremo perché e come il covo di Riina non è stato perquisito e si è data la possibilità a soggetti diversi di appropriarsi di quello che c’era, è una storia irrisolta dalla quale però potrebbero dipendere tante altre risposte alla vera storia alla lotta alla mafia, o della non lotta alla mafia”.
E’ un commento, quello di Di Lello, che fa seguito a quello del procuratore generale di Palermo Vincenzo Rovello, il quale aveva ipotizzato che qualcuno possa essere entrato in possesso dell’ archivio segreto di Riina dopo il suo arresto. Il 23 dicembre la Gip Vincenzina Massa stabilisce che il gen. Mario Mori venga interrogato dai magistrati della Dda di Palermo. Tra i nuovi punti di indagine indicati dal giudice ai Pm anche l’interrogatorio di tutti i carabinieri che hanno preso parte all’arresto del boss latitante. Oltre a Mori, divenuto nel frattempo direttore del Sisde, il servizio segreto civile, i magistrati dovranno interrogare anche il capitano “Ultimo”.
La decisione del Gip viene formalizzata e notificata alla procura di Palermo.
Il 9 gennaio 2003, praticamente a dieci anni dai fatti, vengono convocati in procura per essere interrogati i fratelli Giuseppe e Gaetano Sansone, proprietari della villa di via Bernini in cui Totò Riina trascorse dieci anni di latitanza. I due imprenditori sono indagati assieme ai mafiosi accusati di aver ripulito la villa subito dopo l’arresto di Riina. I fratelli Sansone si avvalgono della facoltà di non rispondere.
L’11 gennaio dello stesso anno il “pentito” Giovanni Brusca, interrogato dal pm Antonio Ingroia riferisce: “Dopo l’arresto di Totò Riina, Leoluca Bagarella mi disse di ripulire in fretta la villa di via Bernini in cui aveva trascorso la latitanza il capomafia”.
Il 25 maggio, alla presenza del procuratore di Palermo Pietro Grasso, il pm Ingroia mette a confro il col. Domenico Balsamo, nel ’93 comandante del reparto operativo del gruppo carabinieri di Monreale, e il magg. Sergio De Caprio.
Dal confronto emergono incomprensioni lessicali, difetti di comunicazione tra ufficiali dell’Arma, tecniche dell’antiterrorismo applicate, questa volta senza successo, alla lotta alla mafia.
Balsamo e De Caprio sono i due uomini ai quali i carabinieri affidarono, nel ’93, la cattura del capo di Cosa Nostra.
Il giorno dopo i quotidiani La Repubblica e l’Unità rivelano i contenuti di una relazione inviata dall’allora reggente della Procura Vittorio Aliquò al neo- procuratore, insediato lo stesso giorno dell’arresto di Riina, Gian Carlo Caselli. Secondo la relazione, i carabinieri del Ros avrebbero assicurato ai magistrati che il covo, il cui controllo venne abbandonato lo stesso giorno dell’arresto, era in realtà vigilato dall’Arma per sorprendere altri latitanti. Interrogati dai magistrati sulle strategie seguite all’arresto di Riina, gli investigatori dei carabinieri che agirono quel giorno di gennaio, il reparto operativo speciale guidato da “Ultimo”, e quello della compagnia di Monreale al comando di Balsamo, avrebbero offerto dettagli non concordanti. In particolare, “Ultimo” avrebbe giustificato il mancato intervento nel covo con l’applicazione delle tecniche del antiterrorismo: l’arresto di Riina, avvenuto lontano da casa sua, avrebbe consentito l’irruzione in un secondo tempo, quando, cioé, il covo si fosse “raffreddato”. Balsamo ha riferito di avere capito che, nel frattempo, l’abitazione del boss avrebbe dovuto essere controllata dai suoi colleghi del Ros. Ma nessuno lo controllò, e, secondo i due ufficiali, messi a confronto, ciò fu dovuto ad un’incomprensione. Insieme ai due confronti, i magistrati della Procura di Palermo, che hanno avviato la nuova fase investigativa su indicazione del gip Vincenzina Massa, dopo avere chiesto una prima volta l’archiviazione del fascicolo, hanno interrogato come persona informata dei fatti il direttore del Sisde Mario Mori, all’epoca vicecomandante del Ros.
Il tempo passa e l’inchiesta langue. Intanto il 10 febbraio 2004 il giudice monocratico del tribunale di Milano, Gaetano Brusa, stabilisce che i giornalisti Bolzoni e Lodato hanno esercitato il diritto di cronaca nel libro “C’era una volta la lotta alla mafia”, e per questo motivo li assolve dall’accusa di diffamazione. La querela era stata presentata da Mori, De Donno e De Caprio. I primi due avevano rimesso la querela, mentre De Caprio aveva scelto di andare avanti.
Il 16 marzo, davanti alla commissione parlamentare antimafia, il generale del Ros Giampiero Ganzer racconta che, dopo l’arresto di Salvatore Riina “vi fu effettivamente una incomprensione” tra i carabinieri e i magistrati “sulla prosecuzione delle attività di osservazione esterna di Via Bernini”.
A sostegno della tesi della semplice “incomprensione” tra giudici e investigatori Ganzer aggiunge che, siccome i carabinieri del Ros “erano giunti autonomamente ad arrestare Riina (in quanto Balduccio Di Maggio, pur collaborando e riconoscendo la Bagarella non aveva parlato di Via Bernini), non si capisce perché avrebbero dovuto fare qualche cosa di omissivo dopo aver fatto tanto per arrestarlo: secondo me non vi sono altri misteri”.
Il 15 settembre si diffonde la notizia che in luglio, per la seconda volta, il gup Vincenzina Massa non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Palermo nei confronti del direttore del Sisde, Mario Mori, e di Sergio
De Caprio nel frattempo divenuto tenente colonnello, indagati entrambi per favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra. Il cap. De Donno, nel frattempo, è uscito dall’inchiesta. Il giudice ha fissato al 7 ottobre l’udienza per decidere sull’eventuale rinvio a giudizio dei due.
Al centro dell’inchiesta rimane la ricerca dei motivi per i quali i carabinieri del Ros non eseguirono la perquisizione nella villa di via Bernini, in cui aveva vissuto fino alla cattura Totò Riina Nella loro richiesta di archiviazione i pm di Palermo avevano sostenuto che ‘”contrariamente a quanto sostenuto da De Caprio e Mori, la perquisizione in via Bernini andava senz’altro eseguita senza indugio alcuno, subito dopo l’arresto di Riina”. E aggiungono: “L’averne di fatto ostacolato l’esecuzione, determinandone il rinvio, costituì obiettivamente un’agevolazione degli uomini di Cosa nostra, che consentì loro di tornare sui luoghi ove il capo indiscusso di Cosa nostra aveva trascorso l’ultimo periodo della sua latitanza, per porre in essere le più svariate attività di inquinamento probatorio”. Ciononostante i pm non riscontrano dolo nel comportamento dei due uomini dell’Arma, ritenendo che non vi fossero “elementi soggettivi”. Da qui la richiesta di archiviazione avanzata due volte. E due volte respinta.
La richiesta d’archiviazione prosegue affermando che il 15 gennaio 1993 i carabinieri dissuasero i magistrati dal procedere alla perquisizione dell’abitazione di Riina, che era stata localizzata e tenuta sotto osservazione da alcuni giorni prima della cattura del boss. Gli ufficiali, in particolare De Caprio, con “l’avallo del generale Mori” (si legge nelle carte dei pm), avrebbero spiegato che in quel momento non era opportuno entrare nel covo perche’ volevano individuare gli eventuali altri uomini d’onore che vi si potevano recare per prelevare la famiglia del boss. Ma l’attività di controllo alla villa cessò nella stessa giornata in cui venne arrestato Riina. “Fu soprattutto la sospensione di ogni attività di osservazione – affermano i pm – a determinare un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra, consentendo a quest’ultima di trarre il massimo vantaggio possibile dalla mancata perquisizione del covo, visto che solo la prosecuzione dell’attività di osservazione, in coerenza con la scelta di arrestare Riina lontano da via Bernini, avrebbe potuto attenuare l’altissimo rischio affrontato col rinvio della perquisizione, di compromettere l’acquisizione di documenti di sicuro rilievo eventualmente rinvenibili nella villa”.
Gli investigatori sono entrati per la prima volta nell’abitazione del boss dopo alcuni mesi dall’arresto di Riina, quando tutto l’arredamento era stato portato via dagli uomini di Cosa nostra (come fu in seguito accertato anche per la testimonianza di alcuni “collaboratori di giustizia”), compreso un armadio corazzato a muro, che si trovava nella stanza da letto del capomafia. I magistrati sostengono che Mori e De Caprio non avrebbero detto la verità sui retroscena dell’arresto.
“Quali fossero i motivi di tale condotta – si legge nella richiesta di archiviazione – il tenente colonnello De Caprio e il generale Mori, nell’immediatezza dell’arresto di Riina, fornirono ai magistrati della procura indicazioni non veritiere, o comunque fuorvianti, facendo credere a tutti che l’attività di osservazione sarebbe proseguita. E, parimenti, le dichiarazioni rese dai medesimi ufficiali ai pm nell’ambito del presente procedimento appaiono non veritiere o, quantomeno, reticenti”. E allora perché chiedere l’archiviazione della loro posizione?
Il 7 ottobre, davanti al giudice per le indagini preliminari Vincenzina Massa, Mori e De Caprio fanno spontanee dichiarazioni, cercando di chiarire i motivi di quanto accaduto nel 1993. All’udienza sono presenti anche i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Michele Prestipino, titolari dell’inchiesta.
Nelle loro dichiarazioni Mori e De Caprio ribadiscono che vi fu “incomprensione” con la procura di Palermo. I sostitutidal canto loro, affermano che non è stata mai messa in dubbio la capacità e l’efficienza operativa di Mori e De Caprio e che grazie alle loro funzioni hanno contribuito nella lotta contro Cosa nostra.
Il 2 novembre il Gip ordina alla procura di formulare contro Mori e De Caprio.
Il 22 novembre la procura chiede al presidente dei Gip, Giuseppe Rizzo di fissare l’udienza preliminare nei confronti di Mori e De Caprio. La procura ha riformulato il capo di imputazione.
Il 3 febbario 2005, all’apertura dell’udienza preliminare, la difesa dei due militari chiede al Gup Marco Mazzeo di citare in aula l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. I pm si oppongono. Il Gup rigetta la richiesta.
La procura inoltre insiste sul tema dell’archiviazione e chiede al Gup il “non luogo a procedere perchè il fatto non costituisce reato”. Ad avanzare la richiesta è il pm Ingroia che, in subordine, chiede la prescrizione del reato nell’ipotesi in cui l’aggravante di aver favorito la mafia venisse meno.
Nel frattempo anche il tribunale di Sciacca, nell’agrigentino, sollevano dubbi sulle modalità con le quali è avvenuto lo “svuotamento” della villa di Riina. I giudici, nelle motivazioni alla sentenza di condanna che riguarda l’ing. Giuseppe Montalbano, al quale lo scorso anno sono stati inflitti sette anni e sei mesi di reclusione per concorso in associazione mafiosa, ricordano che l’imputato era proprietario della villa di Palermo utilizzata da Riina. I giudici scrivono che “lo svuotamento della casa” è avvenuto “inspiegabilmente, senza alcun controllo da parte della polizia giudiziaria che avrebbe dovuto sorvegliare l’obiettivo”. Il tribunale ricostruisce l’arresto del boss e rilevato che l’arrivo dei carabinieri nella villa di via Bernini si è registrato “soltanto il 2 febbraio 1993”, 18 giorni dopo. I giudici si chiedono cosa sia successo fra il 15 gennaio e il primo febbraio 1993. “L’immobile – scrivono i magistrati – doveva essere controllato dal Ros dei carabinieri, invece (il maggiore dei carabinieri Minicucci non ha saputo fornire sul punto ulteriori spiegazioni) fu sottoposto a vigilanza soltanto per ventiquattro ore e poi rimase assolutamente alieno da qualsivoglia controllo, per cui oggi non è dato sapere cosa effettivamente sia successo nel periodo compreso tra il 15 gennaio e la mattina del 2 febbraio 1993”.
L’ing. Montalbano viene indicato dai giudici come “un soggetto insospettabile, anche per la sua storia familiare e personale legata ai comunisti da sempre contrari alla mafia, ma al contempo molto legato a Giuseppe Lipari da ripetuti rapporti economici e quindi vicino all’organizzazione Cosa nostra”.
La storia processuale di Montalbano inizia vent’anni fa, e viene fatta incrociare con gli affari illeciti di Riina e Bernardo Provenzano, passando per Angelo Siino e Giuseppe Lipari. Emerge così che Montalbano, oltre alla villa data in “affitto” a Riina durante la latitanza, avrebbe avuto rapporti d’affari anche con la moglie di Provenzano, Ninetta Palazzolo, passando per il commercialista Giuseppe Mandalari, indicato come il contabile di Cosa nostra.
Il giorno dopo, il 18 febbraio, il Gup di Palermo stabilisce che sarà un giudice monocratico a processare il direttore del Sisde, Mario Mori, e il tenente colonnello dei carabinieri, Sergio De Caprio. Un’accusa pesante come un macigno per entrambi. La Dda, per la terza volta, aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta perche’ non era stato riscontrato dolo nel comportamento dei due ufficiali dell’Arma. Il giudice Marco Mazzeo ha invece deciso di rinviarli a giudizio.
Intanto si apprende che la procura di Palermo ha un’altra indagine aperta sul prefetto Mario Mori, nell’ambito di una inchiesta riguardante il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Oltre al direttore del Sisde sono indagati il generale dei carabinieri Antonio Subranni, ex comandante del Ros e della divisione “Palidoro”, e il col. Mauro Obinu. Al centro dell’inchiesta un altro mancato blitz, quello del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso che avrebbe potuto portare all’arresto di Provenzano. L’indagine è stata avviata in seguito alle dichiarazioni del col. Michele Riccio. I tre indagati, secondo quanto raccontato da Riccio, sarebbero stati presenti alla riunione a Roma, durante la quale lo stesso ufficiale avrebbe informato i suoi superiori del Ros della possibilità di arrestare Provenzano il 31 ottobre 1995, in occasione di un summit di mafia fissato dai capimafia in un casolare di Mezzojuso,. In quell’ occasione, secondo Riccio, Subranni non si sarebbe adoperato per organizzare un blitz, motivando il rifiuto con la mancanza di mezzi tecnici necessari all’operazione. La presenza di Provenzano era stata riferita a Riccio dal suo confidente, il boss Luigi Ilardo, assassinato alcuni mesi dopo il mancato arresto, e alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione.
Mori, in seguito a queste dichiarazioni, presentò una querela nei confronti di Riccio, imputato a Genova per traffico di stupefacenti. Il numero uno del servizio segreto civile venne anche interrogato e in quella occasione ha respinto punto per punto le accuse di Riccio mettendone in evidenza alcune contraddizioni
I tre carabinieri coinvolti nell’inchiesta della Procura di Palermo sono accusati di favoreggiamento personale, aggravato dall’aver agevolato l’associazione mafiosa.
Il 22 febbraio, sul settimanale Gente, compare una dichiarazione del pm Antonino Ingroia: “La condotta di Mori e De Caprio fu intenzionale e consapevole. Si è accettato il rischio di favorire la mafia per altre ragioni, forse di Stato”. Un frase alquanto criptica che non viene spiegata. “La mancata sorveglianza del covo, la perquisizione avvenuta con grande ritardo – spiega il magistrato – hanno prodotto un favoreggiamento oggettivo di Cosa Nostra, ma non si voleva favorire la mafia. Tuttavia una cosa va chiarita. Non è vero che quanto successo è stato frutto di un equivoco come dichiarato da Mori e De Caprio. Quella condotta è stata intenzionale consapevole. Si è accettato il rischio di agevolare la mafia per altre ragioni. Forse ragioni di Stato non chiarite, rimaste oscure”. Quanto ai motivi che hanno portato lui e il collega Michele Prestipino a chiedere per due volte l’archiviazione delle accuse di favoreggiamento mosse contro i due ufficiali dei carabinieri che catturarono Riina, Ingroia dice: “Non c’erano elementi per provare l’aggravante del favoreggiamento mafioso, ovvero elementi che potessero far pensare a una condotta per rafforzare Cosa Nostra. Tutt’al più c’era il favoreggiamento semplice, un reato prescritto”.
Una dichiarazione piuttosto inquietante e che tra le righe lascia intendere l’esistenza di una strana trama tra Stato e Cosa nostra, forse la famosa trattative di cui si parla da tempo e che verrà alla luce anni dopo. Lo stesso giorno Ingroia smentisce lintervista: “Non ho mai rilasciato alcuna intervista al settimanale Gente sul procedimento relativo alla mancata perquisizione del covo del boss Salvatore Riina. Non è mio costume rendere dichiarazioni sul merito dei processi penali”. Ma la direzione del settimanale, in una nota: “conferma che le dichiarazioni rese dal pm Antonio Ingroia corrispondono, parola per parola, a quanto da egli detto alla giornalista Antonella Mascali, telefonicamente, sabato 19 febbraio, nella tarda mattinata. La conversazione, su esplicita richiesta del magistrato (come tra l’altro è detto chiaramente nell’articolo), non andava intesa come intervista, ma come spiegazione tecnica della richiesta di archiviazione presentata dallo stesso Ingroia e dal suo collega Michele Prestipino. La giornalista ha chiesto espressamente l’autorizzazione a pubblicare quelle frasi su Gente; la risposta è stata: “Purcheé non sia presentata sotto forma di intervista, ma di spiegazione. Che è esattamente quel che è stato fatto”.
Il 24 marzo la procura di Palermo annuncia che saranno 29 i testi che vuole ascoltare nell’ambito del procedimento contro Mori e De Caprio. Si tratta dei vertici dei carabinieri e dei magistrati che hanno ricoperto un ruolo nella cattura di Riina e nella mancata perquisizione della vlla di via Bernini. I pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino hanno poi inserito nella loro lista testi i nomi di otto “pentiti” e di alcuni giornalisti. Saranno chiamati a deporre i generali dell’Arma Giorgio Cancellieri, Domenico Cagnazzo, Antonio Subranni, Francesco Delfino; i colonnelli Mauro Obinu, Domenico Balsamo, i maggiori Marco Menicucci e Giuseppe De Donno, e alcuni marescialli del gruppo di De Caprio. Saranno sentiti come testi i tre magistrati che svolsero un ruolo-chiave nella vicenda: il Pg di Torino Giancarlo Caselli, l’avvocato dello Stato Vittorio Aliquò, all’epoca procuratore aggiunto di Palermo, che nel suo diario annotò la sequenza delle riunioni con i carabinieri sulla gestione del covo’, e Luigi Patronaggio, all’epoca sostituto di turno, oggi presidente di sezione presso il tribunale di Agrigento. Gli otto “pentiti” chiamati a deporre sono Mario Santo Di Matteo, Balduccio Di Maggio, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè, Giusto Di Natale, Gioacchino La Barbera, Giuseppe La Rosa e Michelangelo Camarda. Anche tre giornalisti nella lista dei testi della Procura: sono Saverio Lodato, dell’Unità, Attilio Bolzoni e Alessandra Ziniti dela Repubblica.
Davvero il prefetto Mori non è fortunato con le querele ai giornalisti. Il 6 aprile si apprende infatti che non sarà un gudice monocratico ma la terza sezione del tribunale a celebrare il processo. A deciderlo il presidente del tribunale Giovanni Puglisi che dispone un provvedimento di riassegnazione del processo ad una sezione collegiale, così come tecnicamente richiesto dalla imputazione di vofavoreggiamento aggravato dall’art. 7, che individua l’agevolazione a Cosa Nostra.
Il 13 aprile il gip del tribunale di Roma, Pierfrancesco De Angelis, archivia una querela per diffamazione presentata dal direttore del Sisde Mario Mori nei confronti del giornalista di Repubblica, Attilio Bolzoni. In un articolo pubblicato il 28 giugno 1998 Bolzoni aveva scritto che la magistratura aveva avviato u’inchiesta e che esisteva il “fondato sospetto” che l’arresto di Riina fosse il frutto di una “lunga trattativa tra Cosa nostra e pezzi dell’ apparato dello Stato”. Per due volte il pubblico ministero Giuseppe Cascini aveva chiesto l’archiviazione della querela. Il Gip stabilisce che in effetti la notizia era vera e di “ovvio interesse pubblico”. Il giornalista aveva dunque esercitato un diritto di cronaca.
Il 3 maggio 2005, finalmente, si apre il processo a Mori e De Caprio. davanti ai giudici della terza sezione del tribunale di Palermo presieduta da Raimondo Lo Forti. Sostengono l’accusa sempre Antonio Ingroia e Michele Prestipino.
In apertura d’udienza il difensore di De Caprio, Francesco Romito, chiede che il processo si svolga a porte chiuse, oppure che venga consentita la partecipazione del suo assistito in videoconferenza: “Il mio assistito ha un problema obbiettivo nel prendere parte al processo: è sottoposto infatti a misure di protezione e per questo motivo bisogna trovare una soluzione che salvaguardi la sua sicurezza”. I difensori di Mori, Piero Milio ed Enzo Musco, chiedono al tribunale di vietare l’ingresso in aula delle telecamere: “Pur riconoscendo che questo è un processo di grande interesse, l’interesse per la sicurezza è da considerarsi prioritario”. L’accusa respinge la richiesta di un procedimento a porte chiuse. Lo stesso fa la corte che rigetta entrambe le richieste della difesa degli imputati.
Nella stessa udienza, a sorpresa, viene chiamata a testimoniare la “pentita” Giusi Vitale la quale afferma: “Se si fosse fatta la perquisizione nella villa di Totò Riina dopo il suo arresto ci sarebbe stato il finimondo”. Secondo la Vitale, all’interno della villa del capo di Cosa Nostra “c’erano documenti che avrebbero potuto rovinare uno Stato intero”. La “collaboratrice” riferisce anche di avere appreso dal fratello Vito, capo della cosca di Partinico, che la mancata perquisizione del covo di Riina venne considerata un ‘”bene” da Cosa nostra, in quanto all’interno dell’appartamento erano custoditi “numerosi documenti ritenuti imbarazzanti per diversi uomini delle istituzioni”.
Nella sua relazione introduttiva il Pm Antonio Ingroia annuncia che l’accusa intende fare chiarezza “su quel che accadde dopo la cattura di Totò Riina, sui colloqui tra i magistrati della Procura e gli investigatori dell’Arma e sulle ragioni che provocarono la sospensione della attività di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini nello stesso pomeriggio del 15 gennaio
1993, nonostante fossero state date assicurazioni ai magistrati di Palermo che invece l’osservazione sarebbe proseguita”.
Gli avvocati difensori, Piero Milio ed Enzo Musco, dal canto loro, affermano che ricostruiranno le ragioni del differimento della perquisizione “che non fu un’ispirazione estemporanea di Ultimo o di Mori, ma una valutazione investigativa”.
Il 9 maggio la corte ammette la testimonianza del procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo a Palermo. Il tribunale decide anche di non consentire l’acquisizione di un appunto manoscritto attribuito all’ex procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquò nel quale venivano ricostruiti i colloqui tra magistrati e carabinieri dopo la cattura di Riina.
Il 16 maggio il ten. col. De Caprio rende una dichiarazione spontanea: “Quando mi resi conto che volevano svolgere una perquisizione in via Bernini, compresi subito che l’iniziativa poteva arrecare grave pregiudizio alle indagini. Per questo motivo feci la proposta di rinviare quella perquisizione, cosicché si potessero proseguire le indagini, soprattutto le indagini sui Sansone, e sulle loro numerose attività economiche, per non pregiudicare possibilità e interessanti sviluppi. Questo e solo questo è il senso della mia proposta”.
A proposito del servizio di osservazione predisposto con una telecamera a bordo di un furgone di fronte al cancello di ingresso del residence di via Bernini, De Caprio rileva che “da quella postazione non si era in grado di osservare chi entrava e usciva dalla casa di Riina. Quando mi resi conto che volevano svolgere una perquisizione in via Bernini, compresi subito che l’iniziativa poteva arrecare grave pregiudizio alle indagini”.
Stessa posizione quella del ten. col. Domenico Balsamo: “occorreva salvaguardare un’inchiesta che avrebbe potuto portare risultati importanti. I boss non sapevano che avevamo individuato il covo e vi sarebbero potuti tornare. Speravamo di catturare in questo modo anche Bagarella e Brusca che, allora, erano latitanti. Eravamo pronti a partire per via Bernini nel cortile della sede del Ros- Al comando regionale dei carabinieri, c’era un clima di agitazione, tutti parlavano tra loro. Qualcuno, credo De Caprio, suggerì di non fare subito la perquisizione per continuare ad osservare il residence e vedere chi entrava e chi usciva”. E alla proposta di rinviare il sopralluogo aderirono anche l’allora procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquò ed il pm di turno Luigi Patronaggio.
Una perquisizione, in realtà, i militari, subito dopo l’arresto del padrino, la fecero ma nel fondo Gelsomino, presentato alla stampa come il covo di Riina. “Era un depistaggio per i giornalisti – racconta Balsamo – che si decise sulla base dell’erronea convinzione che l’osservazione del vero covo da parte del Ros stesse proseguendo”. Invece il servizio era stato sospeso. “Che non tenevamo più sotto controllo il residence – aggiunge – lo venni a sapere alla fine di gennaio, poco prima della perquisizione del covo di via Bernini che fu poi fatta tra l’1 e il 2 febbraio del ’93”.
Tra i primi ad entrare nel nascondiglio del capomafia fu il maresciallo Rosario Merenda, passato poi alla Dia di Palermo e nel ’93 in servizio presso il Nucleo operativo dei carabinieri del gruppo 2, anche lui teste nel processo: “Fui tra i primi a scavalcare il cancello, la villa sembrava abbandonata, da alcuni giorni era disabitata, c’erano lavori di muratura in corso, sembrava in fase di ristrutturazione: nel bagno i sanitari e alcune mattonelle erano stati addirittura rimossi”.
Nell’udienza del 25 maggio depone il ten. col. Marco Menicucci: “Fu De Caprio a dirmi di non fare la perquisizione, per consentire l’osservazione degli accessi al residence di via Bernini. Quella mattina ho ricevuto l’incarico di formare una squadra per effettuare la perquisizione nel residence di via Bernini, l’obiettivo era di rintracciare, all’interno del residence, l’abitazione di Riina. Ho formato una squadra di 15-20 uomini poi ho incrociato De Caprio. Mi disse che bisognava riflettere, che era meglio aspettare, parlò con i suoi superiori, con il maggiore Obinu, col colonnello Mori. Erano presenti alcuni magistrati. Mi disse di fermarmi, per continuare l’attività investigativa sui Sansone, proprietari del residence”. Ribatte l’avv. Francesco Antonio Romito, legale di De Caprio: “La decisione di rinviare la perquisizione fu presa da De Caprio insieme ai suoi superiori e ad alcuni magistrati che erano presenti nel cortile della caserma dei carabinieri, in modo da proseguire l’attivita’ d’ indagine sui Sansone, proprietari del residence”. Il legale precisa poi che “come è emerso nell’udienza di oggi nel residence dove si nascondeva Riina c’era un secondo ingresso nella parte posteriore della struttura, scoperto dagli investigatori solo dopo l’arresto del boss. Ciò significa che le osservazioni sull’ingresso principale sarebbero state comunque inutili”.
“Il furgone utilizzato per l’osservazione da parte dei carabinieri era troppo vicino al cancello d’ingresso del residence di via Bernini e si rischiava di essere scoperti”, aggiunge l’avv. Romito, citando una dichiarazione fatta in aula dal teste Giuseppe Coldesina, appuntato dei carabinieri. Il difensore di De Caprio rileva anche che il militare, rispondendo ad una domanda, aveva detto che la posizione del furgone era così evidente a chi transitava in via Bernini che prolungare l’appostamento “avrebbe portato a svelare il luogo di osservazione”.
Il 6 giugno torna a parlare De Caprio: “Dovevo sospendere l’osservazione del covo di via Bernini, non potevo mantenere per più di due giorni il furgone parcheggiato a pochi metri da quel cancello, era troppo rischioso, sia per il personale sia per l’indagine”.
De Caprio per la prima spiega perché ordinò di spostare il furgone con a bordop la telecamera: “Quando la sicurezza viene messa a repentaglio si perde il senso dell’attività di polizia giudiziaria, la cui essenza è quella di non essere svelata”. De Caprio spiega come la cattura di Riina fu, praticamente, un evento imprevisto e imprevedibile: “Noi seguivamo i Sansone (i costruttori del complesso residenziale ndr). I Sansone erano l’obiettivo della nostra indagine. Per noi era imprevedibile che da quel cancello uscisse Riina”. E poi sottolinea che l’Arma territoriale e il Ros agivano in perfetta reciproca autonomia: “Tanto che quando l’Arma perquisì il covo, io non venni neppure interpellato”.
Un concetto precisato anche dal prefetto Mori, che prende il microfono per la prima volta dall’inizio del processo, per ribadire che “il Ros non è mai intervenuto nè nella fase di preparazione, nè di organizzazione, nè di esecuzione delle perquisizioni effettuate sia in via Bernini che nel fondo Gelsomino”.
Nella stessa udienza, il generale Giorgio Cancellieri conferma che “il rinvio della perquisizione nel covo di Riina era stato suggerito proprio da De Caprio”, precisando che “la ragione era quella di non disturbare l’attività di indagine che era ancora in corso. Nella mia coscienza mi resi conto che quella decisione aveva una sua logica, e d’altra parte Ultimo lo vedevo come una persona competente e scrupolosa, quindi non vedo perchè avrei dovuto dubitare di una sua indicazione così precisa”.
Il 15 giugno al centro dell’udienza c’è la ricostruzione dell’arresto di Totò Riina. La fanno i due sottufficiali dei carabinieri che hanno collaborato con l’allora cap. Sergio De Caprio
I militari, che provenivano da Milano e Torino e facevano parte del gruppo operativo al comando di “Ultimo”, ricordano le fasi delle indagini, gli accertamenti e i pedinamenti, fino alla mattina del 15 gennaio, quando è stata messa la parola fine alla lunga latitanza di Riina. I due sottufficiali, Pinuccio Calvi (che ha materialmente messo le manette al capomafia insieme a De Caprio) e Riccardo Ravera. Nessuno dei due testi sa spiegare per quale motivo è stata interrotta l’osservazione davanti alla villa dopo l’arresto di Riina. Calvi avanza l’ipotesi che per De Caprio “non vi erano più le condizioni per proseguire l’appostamento”. Mori e De Caprio sono presenti in aula protetti da un paravento per non essere inquadrati dalle telecamere.
Il 29 giugno tocca al col. Mauro Obinu in servizio al Sisde il quale spiega che le tecniche utilizzate dal Ros a Palermo non erano finalizzate, semplicemente, alla cattura dei latitanti mafiosi: “Forte del successo ottenuto dal Ros nella lotta al terrorismo, De Caprio prescindeva da eventi e circostanze del momento. Si mirava ad individuare la struttura criminale, i suoi vertici, le modalità con cui si muovevano, operavano, prendevano decisioni, le dinamiche interne ed esterne, le connessioni economiche finanziarie nell’ambito in cui Cosa nostra si muoveva. Per perseguire questo obiettivo era importante, fin quando possibile, non destabilizzare le indagini con arresti o altre operazioni eclatanti”. Secondo Obinu, tutte le attività investigative portate avanti dal Ros sono state “vanificate” dopo la perquisizione del 21 gennaio al fondo Gelsomino e del 2 febbraio 1993 nel residence di via Bernini. Emerge così che il 22 e il 26 gennaio 1993 l’allora cap. De Caprio chiese l’autorizzazione alla procura di eseguire diverse intercettazioni su utenze ritenute “importanti per le indagini”.
Tornando alla sospensione dell’osservazione alla villa di via Bernini, l’ufficiale dice: “Nessuno a me personalmente, presentò mai una richiesta formale di prosecuzione dell’attività di osservazione di via Bernini. Si potrebbe parlare di ipotesi. Ma, questo è ed era il mio pensiero, si trattava di una ipotesi ineseguibile. Impossibile, perché con la tecnologia dell’epoca il rischio di essere scoperti era altissimo”.
Il 29 giugno a deporre è il gen. Antonio Subranni, ex comandante del Ros secondo il quale ci sarebbe solo un “fraintendimento” alla base del corto circuito esploso tra la Procura di Palermo e i vertici del Ros per la sospensione dell’attività di sorveglianza del covo del boss.
“Gli uomini che effettuarono la cattura di Riina a Palermo – dice Subranni – erano militari più che capaci. Senza Mori l’operazione non si sarebbe mai potuta realizzare”. L’alto ufficiale aggiunge di aver saputo che l’osservazione era stata sospesa solo dalla lettera inviatagli il 12 febbraio ’93 dall’allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. A Caselli, che chiedeva una relazione sull’attività di osservazione, Subranni rispose con un dettagliato rapporto, accompagnato da una nota personale: “In quella nota espressi il mio rammarico e il mio malumore Per me De Caprio, quel pomeriggio della cattura di Riina, suggerendo di rinviare la perquisizione del covo, altro non fece che ricordare come quella mattina anche Caselli era d’accordo sulla necessità di soprassedere”.
Subranni riferisce poi che a Caselli ricordò come “durante le numerose riunioni, mai i magistrati intervennero per modificare le attività prospettate dai carabinieri, generando la convinzione che la procura fosse d’accordo con la loro impostazione dell’indagine. Caselli alla fine mi ringraziò, dicendo che aveva finalmente capito le ragioni del grosso equivoco”.
Per il col. Mauro Obinu, sentito subito dopo, la sospensione dell’osservazione fu “un atto fisiologico. Stiamo parlando del quartiere Uditore dove la dominanza di Cosa nostra era ovvia. Occorreva far raffreddare l’area; mantenere il furgone dopo l’arresto di Riina avrebbe vanificato le indagini”.
Sulla mancata comunicazione ai magistrati della sospensione dell’attività di osservazione, Obinu replica: “Anche questo è ovvio, la nostra era una normale condotta nel contesto di una precisa logica investigativa”.
Nell’udienza del 26 settembre è il magistrato Luigi Patronaggio a gettare nuova luce sulla vicenda. Interrogato dalla corte, Patronaggio spiega che i carabinieri erano pronti ad intervenire nel residence di via Bernini. Ma il capitano “Ultimo” chiese ed ottenne dall’allora colonnello Mario Mori di far bloccare dal procuratore Gian Carlo Caselli il blitz che stava per scattare. I militari del reparto territoriale, diverso da quello che ha effettuato l’arresto del boss, volevano individuare la villa del latitante, coordinati proprio da lui, il pm della Dda Luigi Patronaggio che il 15 gennaio 1993 era di turno. Ma il blitz venne bloccato quando le auto erano già incolonnate e gli elicotteri pronti ad alzarsi in volo per accerchiare la zona in cui aveva vissuto il capomafia corleonese insieme alla sua famiglia. E Giancarlo Caselli, dopo aver parlato con Mori, chiese a Patronaggio, ora giudice ad Agrigento, di rinviare tutto.
“Fui avvisato dell’arresto di Riina – racconta Patronaggio – direttamente da Caselli che aveva ricevuto una telefonata dai carabinieri del Ros con i quali era in contatto diretto. Caselli ha gestito tutta l’operazione, ed era solo lui quello che aveva rapporti con Mori e De Caprio e tutti quelli del Ros. Quando Caselli mi disse di non effettuare la perquisizione mi spiegò che la richiesta arrivava dal Ros e siccome c’era e c’è fiducia totale in De Caprio e Mori e l’indicazione proveniva da due operatori qualificati, non ho avuto nulla da obiettare”.
“Caselli – aggiunge l’ex Pm – mi parlò di mezzi tecnici di osservazione, facendomi intendere che la villa era sotto controllo”.
Rispondendo alle domande del pm Antonio Ingroia, Patronaggio spiega ancora: “Credevo che il gruppo del capitano Ultimo in quelle ore stesse svolgendo altre attività operative”. La procura, invece, riteneva, secondo quanto emerge dall’accusa, che il blitz venne sospeso perché l’attività di controllo e osservazione al covo sarebbe proseguita. Patronaggio sottolinea anche che vi furono molte perplessità espresse dai carabinieri del reparto territoriale di Palermo sul fatto che la villa non sarebe stata perquisita. Inoltre, l’ex pm ricorda che dopo due giorni dall’arresto di Riina in Procura iniziarono ad esserci “campanelli di allarme” su quanto era avvenuto subito dopo la cattura del boss latitante. A tutto ciò si aggiungeva anche l’arrivo a Corleone della moglie di Riina, Ninetta Bagarella, insieme ai figli. “Questo episodio – evidenzia Patronaggio – ci fece allarmare perché da quel momento in procura venne alla luce che dietro l’arresto c’era qualche problema”. Inoltre la procura, dopo l’arresto di Riina, sollevò alcuni dubbi sull’attività svolta dai carabinieri del Ros guidati dal capitano “Ultimo” nell’ambito dell’attività che portò alla cattura del latitante: “Il filmato girato dal Ros davanti l’ingresso del residence in cui si vedeva uscire Riina, si fermava lo stesso giorno dell’arresto del latitante. Il video venne visionato allora dal collega Vittorio Teresi e anche lui, come noi, ha avuto delle perplessità, perché ad un certo punto del pomeriggio del 15 gennaio la registrazione si interrompeva”.
Nell’udienza del 3 ottobre comincia ad incinarsi il rapporto tra investigatori e magistrati. Ecco uno dei passi della deposozione dell’ex procuratore aggiunto Vittorio Aliquò: “Il colonnello Mori si decise a comunicarci ufficialmente che il servizio di osservazione del covo di Riina di via Bernini era stato sospeso soltanto il 30 gennaio, a distanza di 15 giorni, cioé, dalla cessazione dell’attività. Prima di quella data aveva semplicemente accennato alla possibilità di interrompere l’osservazione”.
“Nel corso di un incontro che si svolse il 27 gennaio – precisa Aliquò – Mori parlò semplicemente dell’eventualità di sospendere l’attività facendo riferimento allo stress a cui erano sottoposti gli uomini impegnati nel servizio ed anche al possibile rischio che venissero scoperti”.
Ma a contestare la ricostruzione cronologica dei giorni che seguirono la cattura del capomafia di Corleone, fornita dal teste, è lo stesso Mori che, al termine della deposizione, chiede la parola per rendere dichiarazioni spontanee: “Il 27 non ero a Palermo perché impegnato a Roma. Incontrai i magistrati della procura solo il 30 e comunicai l’interruzione del servizio solo allora perché fino a quella data nessuno mi aveva chiesto nulla”.
Aliquò, invece, nella sua deposozione aveva più volte ribadito che in diverse occasioni, tra la cattura del boss e la comunicazione della cessazione dell’attività da parte di Mori, la procura si era rivolta ad ufficiali dell’Arma per sapere a che punto fosse il servizio di osservazione, non riuscendo mai ad avere risposte:
“Chiedemmo più volte – racconta – ma questi filmati quando ce li date? Nessuno ci rispose che non ci avrebbero dato più nulla perché avevamo già tutte le immagini riprese. Noi non avevamo motivo di fare pressioni. Volevamo solo sapere gli esiti dell’indagine”.
L’ex procuratore aggiunto, che coordinò le indagini sulla cattura di Riina, aveva in precedenza ricostruito tutte le fasi che seguirono all’arresto del boss: “La mattina del 15 gennaio mi chiamò il gen. Cancellieri dicendomi di andare in caserma perché aveva qualcosa da mostrarmi senza specificare di cosa si trattasse. Arrivato seppi dell’arresto, rimasi molto sorpreso e mi complimentai con gli ufficiali”. Il teste si era poi soffermato sulle vicende relative alla decisione di non perquisire immediatamente il covo: “Eravamo a pranzo con gli ufficiali che si erano occupati dell’arresto. C’era molta concitazione. Le squadre erano pronte per raggiungere il covo quando l’allora capitano De Caprio ci chiese accoratamente di aspettare. Sembrava sconvolto, ci disse che se avessimo perquisito la villa avremmo pregiudicato le indagini e che sarebbe stato meglio proseguire il servizio di osservazione (cominciato il giorno precedente alla cattura n.d.r.). Eravamo perplessi ma stimavamo De Caprio, che era appoggiato anche dal suo comandante, e così decidemmo di attendere 48 ore. Per questo dicemmo a Patronaggio, che era il pm di turno e stava per andare ad eseguire la perquisizione con i militari, di rientrare, convinti che il servizio di osservazione avviato dai carabinieri continuasse”.
I primi dubbi sulla presenza dell’attività di sorveglianza del covo i magistrati di Palermo li hanno quando apprendono che, nel frattempo, la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, che insieme al boss aveva vissuto nel covo di via Bernini, aveva fatto rientro a Corleone con i suoi figli: “Ricevemmo una telefonata dal Comando Generale. Mi dissero che la Bagarella era tornata nella casa di Corleone. Chiedemmo conto a tutti gli ufficiali come avesse fatto ad uscire dal covo senza essere vista. Nessuno ci diede spiegazioni. Pensai: ‘come è possibile? Deve essere passata sotto al naso di qualcuno'”. Nessuno – secondo la ricostruzione del magistrato – specificò in quell’occasione esplicitamente che la casa era ancora tenuta sotto osservazione: “Pensavamo che fosse nelle cose. Avevamo questa convinzione e nessuno ci disse il contrario”. Il 26 le perplessità dei magistrati determinate dal ritorno a sorpresa della Riina a Corleone ebbero una parziale conferma. “Il colonnello Cagnazzo – dice ancora Aliquò – mi disse durante una riunione a cui mancavano solo gli ufficiali del Ros che l’osservazione poteva essere non più in atto”.
Nell’udienza del 21 ottobre sono di scena tre “pentiti”: uno ritratta la sua versione, l’altro rivela un piano per uccidere anche Totò Riina e l’altro ancora nega su tutta la linea.
Il primo a rispondere alla domande dei pm è Giuseppe La Rosa. E’ lui, “collaboratore di giustizia” dal dicembre del ’97, a rivelare in aula un retroscena sconosiuto: Balduccio di Maggio non solo voleva uccidere Giovanni Brusca ma anche Totò Riina: “Nel Natale del ’92 Di Maggio progettava di venire giù (da Borgomanero in provincia di Novara, ndr.) per fare del male a Brusca e Riina”.
Un piano che poi cambiò perché Di Maggio, arrestato il 9 gennaio del 1993, cominciò a “collaborare” e qualche giorno dopo, portato in via Bernini a Palermo, riconobbe il boss e lo fece arrestare. La Rosa riferisce infatti che nell’agosto del ’93 Di Maggio, già nella lista dei “pentiti”, “faceva intendere che aveva fatto un gioco: non quello di eliminare Riina ma di farlo arrestare”.
E’ poi il turno di Santino Di Matteo, uomo d’onore dal ’71, che ritratta una delle parti più importanti della deposizione messa a verbale nel novembre del ’97. Allora aveva rivelato alcuni particolari di un certo peso. Aveva sostenuto che Di Maggio, “un anno addietro” gli aveva confidato che, chiamato a Palermo per un interrogatorio, temeva di essere arrestato. E, quindi, “se ciò fosse accaduto”, aveva avvisato suo figlio di andare a parlare al “generale Delfino, avvertendolo che se qualcosa fosse successo, il Di Maggio avrebbe spiattellato tutto”. “Gli butto anche il processo di Andreotti per terra”, aveva detto Di Maggio secondo quella testimonianza. In sostanza, secondo quanto riferito da Di Matteo, Di Maggio avrebbe ricattato Delfino, e “voleva tirare in ballo anche qualche dirigente della Procura di Palermo” grazie a un segreto che lui conosceva. E ancora, Di Maggio gli aveva detto che all’interno della casa di Riina si trovavano “documenti scottanti”, e che quando il boss venne arrestato “nel frattempo qualcuno dei carabinieri era andato a svuotare la casa dei documenti più rilevanti”.
Ma nel corso del suo interrogatorio la versione di Di Matteo cambia, anche se solo in parte: “Il segreto tra lui e Delfino, di Maggio non me l’ha detto” e riguardo alla sottrazione delle carte “forse mi sono sbagliato. So solo che Bagarella portò via la moglie e i figli di Riina e si occupò di far svuotare la casa delle cose che interessavano”.
A sua volta Balduccio Di Maggio, che arriva in aula su una carrozzella per problemi di salute, smentisce tutto quanto affermato da Giuseppe La Rosa e Michelangelo Camarda, un altro “collaboratore” interrogato durante l’udienza. Quest’ultimo aveva detto fra l’altro, a proposito della cattura e delle fasi successive all’arresto di Riina: “L’impressione che ci fosse qualcosa di losco era evidente a tutti”.
Visti i contrasti fra quanto detto dai tre e da Di Maggio, i pm chiedono ai giudici un confronto fra Di Maggio e gli altri “pentiti”.
Il 22 ottobre è di notevole interesse la deposizione del “pentito” Antonino Giuffrè secondo il quale Bernardo Provenzano era un confidente dei carabinieri. E erano queste le “voci” – spiega il “pentito” – che negli anni ’90 “serpeggiavano” all’interno di Cosa nostra e che oggi, accanto ai rapporti della “primula rossa” con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, vegnono di nuovo ricordate da Giuffré. Davanti ai giudici della terza sezione penale del Tribunale di Palermo, in trasferta a Milano, Giuffré, uomo del boss latitante e “collaboratore di giustizia” dal 2002, traccia un nuovo spaccato di Cosa nostra, arricchendolo con qualche particolare del tutto inedito. Da dietro il paravento piazzato nell’aula bunker, Giuffré torna a parlare dei “due schieramenti, il gruppo di Provenzano da una parte, e il gruppo di Riina dall’altro”, e delle contrapposizioni sorte nel 1987 e proseguite dopo la cattura di “per la sua successione”.
Giuffré spiega poi i rapporti tra Provenzano e le istituzioni: “All’interno di Cosa Nostra serpeggiava una voce, c’erano sospetti: alcune persone mettevano in dubbio l’integrità di Provenzano, come se fosse stato confidente dei carabinieri”. Voci che agli inizi degli anni ’90 circolavano “negli ambienti mafiosi di Catania”, provenivano dai Mazzei, da Eugenio Galea, uomo di Nitto Santapaola, ma anche “tra i palermitani”, come Pietro Aglieri, Carlo Greco e Domenico e Raffaele Ganci. “Su questo fatto – aggiunge Giuffé – c’era uno scambio di pensieri. Provenzano mi ha chiesto più di una volta se io credevo in questa voce. Ho detto di no, che non ci credevo”.
Giuffré parla poi dei rapporti tra l’ex sindaco di Palermo e Provenzano: “Ciancimino era uno dei personaggi più importanti per Provenzano. Era una di quelle persone a cui era particolarmente legato. All’interno di Cosa Nostra si diceva che avesse avuto contatti con personaggi delle forze dell’ordine. Per queste voci feci una domanda ben precisa a Provenzano: ‘ma Ciancimino come è combinato?'”. La risposta fu che l’ex sindaco era “andato in missione dalle forze dell’ordine per sistemare la situazione all’interno di Cosa Nostra che in quel momento era complicata”.
Riguardo alla ritardata perquisizione della casa di Riina, Giuffreé rivela che “Provenzano fece un respiro di sollievo perché, mi disse, per fortuna non era stato trovato niente”, e che i documenti “scottanti” “pensava fossero finiti a Matteo Messina Denaro”.
Sempre sulle carte custodite dal padrino di Corleone nel covo di via Bernini, Giuffre’ dichiara di sapere che Riina e Provenzano si scrivevano e che Riina “aveva corrispondenza con altri uomini d’onore e con personalità nel campo imprenditoriale”. Quindi un particolare inedito: “Ricordo che Riina portava sempre con sé una borsa”, tipo cartella, con dentro block notes per gli appunti che “era solito prendere durante le riunioni”. Dentro c’erano anche biglietti che gli venivano consegnati “da imprese e uomini d’onore. Mi venne detto che aveva anche agende elettroniche”. Quella borsa, forse, il boss l’aveva anche il giorno del suo arresto in quanto doveva recarsi a una riunione con altri capi.
Nella stessa udienza viene ascoltato un altro “collaboratore”, Giusto Di Natale, imprenditore che si legò a Cosa Nostra. Di Natale per circa un anno e mezzo custod’ nel suo magazzino parte degli arredi fatti sparire dalla casa di Riina prima della perquisizione avvenuta 19 giorni dopo l’arresto del boss. Si trattava di una decina di quadri di valore, bronzi, tappeti, argenteria e piatti. Ma nel ’96, dopo il suo arresto, Di Natale fece sapere a Guastella che era necessario portare via quegli oggetti per timore di una perquisizione e del loro rinvenimento. Come già accaduto nel covo di Riina, anche nella villa dell’imprenditore ci si preoccupò di far sparire tutto. Infatti quando nel carcere dell’Ucciardone Di Natale si incontrò con Giovanni Riina, il figlio del boss gli disse che “sarebbero venuti a prenderli (gli arredi, ndr.) anche se ebbe a lamentarsi per la mancanza di qualche quadro”.
Nell’udienza del 7 novembre è la volta dell’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli che liquida l’ogetto del processo con una frase perentoria: “La Procura aveva deciso di perquisire l’immobile in cui aveva vissuto Riina, ma la perquisizione non venne fatta su richiesta motivata dei carabinieri del Ros”.
“La perquisizione – afferma Caselli, che è teste sia dell’accusa che della difesa – venne sospesa su richiesta dei carabinieri, nella convinzione che l’immobile sarebbe rimasto sotto osservazione. Risulterà poi che il controllo era stato sospeso senza che la Procura ne fosse informata. L’allora colonnello Mori e il capitano De Caprio riferirono che l’attività di osservazione era cessata nel pomeriggio del 15 gennaio 1993 nel corso di una riunione che si è svolta il 30 gennaio dello stesso anno. Il Ros spiegava che l’osservazione veniva sospesa perché il personale era stato notato, e ciò comportava rischi per l’incolumità dei militari”.
L’ex procuratore, rispondendo alle domande del pm Antonio Ingroia, aggiunge: “Non ho ricordi personali di quei periodi. Tutto ciò che posso dire anche per evitare strumentalizzazioni sulla mia persona è legato alle note acquisite in questo dibattimento”. Caselli, tuttavia, un ricordo personale lo riferisce. E’ legato al momento in cui entrò nella vila di Riina: “Ero molto arrabbiato, perché qualcosa non era andato per il verso giusto. Ma soprattutto perché a causa di questo fatto temevo il riesplodere della stagione dei veleni dentro e fuori il palazzo di giustizia di Palermo. Ci fu però grande compattezza e unità del nostro ufficio e ottenemmo grandi risultati”.
Caselli afferma di non essere in grado di ricordare se entrò nel residence di via Bernini in auto o a piedi e se dall’ingresso principale o da uno secondario. La perquisizione avvenne il 2 febbraio 1993, dopo 18 giorni dall’arresto: “La Procura era pronta alla perquisizione del complesso residenziale di via Bernini subito dopo l’arresto di Riina. Si decide di cambiare iter operativo su richiesta del Ros che suggerisce di far apparire l’arresto di Riina come fatto episodico per proseguire le indagini. Infine, la mancata comunicazione della sospensione delle attività di osservazione. Un fatto, quest’ultimo dettato da un equivoco, ma anche dall’autonomia decisionale data agli organi di polizia giudiziaria che stabilirono questa iniziativa senza comunicare nulla al nostro ufficio”.
Caselli ribadisce la “profonda stima” nutrita per Mori “che conoscevo per averci lavorato fin dai tempi della lotta al terrorismo, e per lo stesso De Caprio”.
L’ex procuratore di Palermo, infine, si sofferma anche sul ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina, e dei suoi figli, due giorni dopo l’arresto del boss: “L’ho saputo ma non saprei dire, oggi, chi me lo disse. Certo chiesi informazioni sia al Ros sia ai carabinieri della Territoriale. Ma pensai che questo ritorno poteva agevolare altre piste investigative e la stessa attività di osservazione”.
Il 18 novembre la corte si sposta a Roma per ascoltare nuovamente la “pentita” Giusi Vitale: “Seppi dell’arresto di Riina da mio fratello Vito che faceva la latitanza a casa mia. Seguivamo il telegiornale e sentimmo che non avevano fatto alcuna perquisizione dopo il suo arresto nell’abitazione. La cosa mi stupì. Chiesi a mio fratello Vito se poteva essere vero che non avevano fatto la perquisizione. Lui mi rispose ‘tutto è possibile. Le vie del signore sono infinite'”.
Su quanto era custodito in quell’abitazione la Vitale afferma: “mio fratello lasciò intendere che si potevano trovare cose in grado di far scoppiare il finimondo. Durante una riunione tra Vito, Giovanni Brusca ed altri, li sentii parlare di documenti di altissimo valore”.”Hanno aspirato tutto con l’aspirapolvere, portato via vestiti, documenti e le cose piu’ importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perche’ non si vedesse piu’ nulla”. Nella stessa udienza viene ascoltato anche un altro “pentito”, Gioacchino La Barbera secondo il quale furono due le fasi del lavoro compiuto in quell’abitazione: “Subito fu deciso di portare via i parenti da quella casa e poi di eliminare tutto ciò che poteva segnalare la presenza sul posto di Riina. I familiari furono prelevati da Giovanni Sansone, il quale, giorno per giorno, mi informava di tutto ciò che accadeva”. Fino a quando gli disse: “‘Abbiamo salvato il salvabile’. Era soddisfatto del lavoro che era stato fatto, in quanto le cose essenziali erano state prelevate dalla casa”.
Il 19 novembre tocca ad un altro “pentito” ancora, Calogero Ganci: “Se lo avessero seguito, invece di arrestarlo in mezzo alla strada, li avrebbe portati ad un summit della Cupola, e avrebbero potuto mettere le manette all’intera commissione. Grande infatti fu lo stupore, tra i boss mafiosi, per le modalità dell’arresto di Totò Riina”.
Calogero Ganci aggiunge un ulteriore tassello alle perplessità e ai dubbi sull’operazione cattura di Riina: “Il giorno in cui fu arrestato Riina c’era una riunione della Commissione di Cosa nostra. C’erano mio padre Raffaele, Brusca, Bagarella, Graviano, Cancemi e altri”.
Il 19 dicembre viene di nuovo interrogato Sergio De Caprio: “Dopo l’arresto di Totò Riina decidemmo, d’accordo con i magistrati della Procura di Palermo, di rinviare la perquisizione del covo in cui il boss aveva trascorso l’ultimo periodo della latitanza per sviluppare le indagini sui fratelli Sansone, costruttori proprietari dell’immobile. Non ho mai detto ai pm: metto un furgone davanti al nascondiglio per un servizio di osservazione”.
Oltre a ricostruire in dettaglio tutte le fasi precedenti la cattura del capomafia, De Caprio racconta ai giudici i momenti che seguirono l’arresto: “Mi dissero che stavano andando a perquisire il nascondiglio. Tutto era pronto. Fui preso dallo sconforto perché capii che in quel modo avremmo bruciato la pista investigativa sui Sansone che avrebbe potuto aprire scenari assolutamente inediti sugli interessi economici di Cosa nostra’. Li convinsi a bloccare tutto. Spiegai loro che avevamo elementi per dire che i boss non avevano capito che avevamo individuato il covo e che i Sansone non sapevano che eravamo arrivati a loro. Era questa pista l’unico motivo che mi spingeva a non controllare il covo. Non ho mai detto che avrei predisposto un servizio per osservare chi entrava in via Bernini”.
De Caprio smentisce di avere riferito ai magistrati che avrebbe tenuto d’occhio il covo, con un servizio di osservazione, per la cattura di eventuali latitanti o uomini d’onore che vi si fossero recati: “Se il procuratore Aliquò riteneva che si dovessero fare indagini sulle persone che avevano consentito alla moglie di Riina di tornare a Corleone ha fatto male a non disporle ed è grave”. E smentisce anche di avere indicato ai pm di Palermo una data dopo la quale avrebbe effettuato la perquisizione: “Non vennero posti termini. Come è possibile quantificare il tempo necessario a ricostruire gli affari di un imprenditore?”.
Sulla sospensione del servizio di osservazione “mai comunicata né alla procura né a Mori, l’ufficiale precisa: “La disposi perché era molto pericolosa dal momento che la svolgevamo con un pentito, Baldassare Di Maggio, che si trovava insieme ai miei uomini nel furgone piazzato davanti al condominio di via Bernini. I carabinieri, inoltre, erano stremati da ore di appostamento ed infine la notizia dell’arresto era di dominio pubblico, quindi correvamo il rischio di essere scoperti”.
Sulla stessa linea la difesa del prefetto Mori: “Ci accusano di avere disatteso l’ordine di tenere sotto osservazione il covo di Riina ma quell’ordine in Procura non ce lo diedero mai. Se l’avessero fatto gli avremmo risposto che, per la posizione del furgone dal quale tenevamo sotto controllo l’accesso al nascondiglio e per motivi di sicurezza, un servizio del genere non era realizzabile”.
“De Caprio – continua Mori – dopo l’arresto di Riina chiese di potere differire la perquisizione della casa di via Bernini in cui il capomafia aveva trascorso l’ultimo periodo di latitanza, sostenendo che questo avrebbe consentito di indagare sui fratelli Sansone, i costruttori proprietari dell’immobile utilizzato come nascondiglio, personaggi chiave per ricostruire gli intrecci tra mafia ed imprenditoria, ma non parlò mai con i magistrati di un eventuale servizio di osservazione. Nessuno intese favorire la mafia interrompendo il controllo del covo Il Ros è un reparto d’eccellenza dell’Arma e se gli ufficiali avessero voluto nascondere qualcosa avrebbero potuto farlo senza destare sospetti: ad esempio sostenendo che l’osservazione era stata interrotta per qualche ora a causa di un guasto delle telecamere”. “Per ripulire il covo – spiega ancora Mori – bastavano pochi istanti”.
Sulla mancata comunicazione dell’interruzione del servizio ai magistrati della Procura di Palermo che, secondo l’accusa sarebbero stati informati dopo diversi giorni, Mori sostiene: “Ribadisco la buona fede di chi pensava di operare sulla base di quanto concordato. Forse occorreva essere più dettagliati ma chi ha vissuto i momenti concitati seguiti all’arresto di Riina non ha difficoltà a capire che gli impegni del momento ed il contesto possano averci impedito di esplicitare un piano che comunque è tipico del modo d’agire dei reparti anticrimine”.
“Se in procura avevano dubbi sul nostro operato – conclude il direttore del Sisde – perché non ci hanno chiesto spiegazioni prima? Perché Caselli nel chiederci una relazione sulla vicenda, il 12 febbraio del 93, ribadiva stima e fiducia nel lavoro del Ros?”.
Il 9 gennaio 2006, alla ripresa dl processo, la pubblica accusa chiede una serie di confronti tra “collaboratori di giustizia” come quello tra Balduccio Di Maggio e altri “pentiti” e tra Giovanni Brusca e Giusi Vitale. Ma l’11 dello stesso mese i giudici rigettano la richiesta. Secondo il collegio sarebbero irrilevanti.
Il 13 febbraio è la volta dell’accusa che chiede l’assoluzione di Mori e De Caprio che non avrebbero favorito la mafia, ritardando di 18 giorni la perquisizione al covo di Totò Riina.
L’inizio della requisitoria dei pm è fulminante: “Questa vicenda se avesse un colore sarebbe il grigio: il bianco e il nero si confondono perché ci sono stranezze, condotte incomprensibili e talune ombre che hanno minacciato di oscurare un’operazione di polizia così importante”.
Ma per giustificare la loro richiesta di assoluzione i magistrati sostengono che nel processo non vi è traccia di motivi o prove in grado di dimostrare che gli imputati volevano agevolare Cosa nostra. Le richieste dei pm fanno riferimento a due differenti condotte di favoreggiamento contestate agli imputati: avere mentito sull’intenzione di tenere sotto controllo il covo di Riina dopo l’arresto; avere interrotto il servizio di telecamere installato davanti al rifugio, tacendolo ai magistrati ed impedendo loro di disporre una tempestiva perquisizione.
Quanto alla prima condotta, secondo i magistrati il fatto non sussisterebbe e non costituirebbe reato. Mancherebbe, cioè, sia l’elemento oggettivo del favoreggiamento che l’intenzionalità.
Diversa la valutazione data sulla decisione di non comunicare la disattivazione del sistema video alla procura di Palermo. In questo caso i pm escludono che gli imputati abbiano agito con l’intenzione di favorire Cosa nostra: dal favoreggiamento aggravato si passa dunque a quello semplice ormai prescritto, soprattutto alla luce – secondo Ingroia – delle norme introdotte dalla ex Cirielli che riduce i termini di prescrizione del reato a sei anni, anche se per il difensore di Mori, l’avvocato Enzo Musco, in questo processo la Cirielli non si può applicare.
Il pm chiede dunque ai giudici di non doversi procedere perché il reato é estinto per prescrizione.
Ingroia conclude la sua requistoria con una frase inquietante: “La condotta degli imputati è stata dettata dalla ragione di Stato e non da altro”. E a questo proposito il pm parla di ombre e “zone grigie”. E poi aggiunge: “La perquisizione immediata del covo andava fatta. E’ banale, ma la prassi e le tecniche investigative dicono questo. Non fu fatta su richiesta di ‘Ultimo’. La procura aveva già disposto l’ordine e il rinvio iniziale di 48 ore fu disposto in seguito alle motivazioni addotte da investigatori eccellenti. Su tutti il prosieguo dell’attività di osservazione e controllo del covo. L’unica cosa che non andava fatta dagli imputati era sospendere il servizio previsto senza avvertire gli organi giudiziari competenti. Qui si configura il reato contestato di favoreggiamento”.
Il pm Antonio Ingroia conclude la sua requisitoria, sostenendo che i due imputati “dovrebbero chiedere scusa ai cittadini italiani”.
Le richieste dell’accusa non soddisfano pienamente il difensore del prefetto Mori, l’avv. Enzo Musco, il quale, oltre a sollecitare l’assoluzione del suo assistito, tiene a precisare che il processo e l’inchiesta “hanno penalizzato brutalmente coloro (Mori e De Caprio) che hanno inflitto il primo vero colpo a Cosa nostra”.
E chiosa con amarezza: “Questo processo ha finito per foraggiare la mafia”.
Nella sua replica il pm Ingroia introduce nuovamente il concetto di “ragion di Stato”, a cui aveva già fatto riferimento durante la requisitoria, sostenendo che la prescrizione sarebbe stata la decisione “più adeguata e più giusta”.
Il colpo di scena arriva quasi sul finale: Ingroia rivela ai giudici di avere ricevuto una lettera da parte dell’associazione dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili di Firenze. “Chiedono se la perquisizione tempestiva del nascondiglio di Riina avrebbe potuto evitare le stragi del ’93? E’ una domanda agghiacciante – conclude Ingroia – a cui questo processo non poteva dare una risposta ma che pesa come un macigno”.
Il 20 febbraio 2006 arriva la sentenza: assoluzione per l’allora comandante del Ros, Mario Mori, e il “Capitano Ultimo”, alias Sergio De Caprio “perché il fatto non costituisce reato”. I giudici accolgono solo in parte la richiesta della difesa che aveva chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. In altre parole per il tribunale non ci sarebbe il dolo. Il tribunale, accogliendo la richiesta del pm, decide inoltre di trasmettee alla procura i verbali di udienza per procedere per falsa testimonianza nei confronti dei “collaboratori di giustizia” Santino Di Matteo e Balduccio Di Maggio in seguito alle cui dichiarazioni, nel novembre 1997, era stato avviato il procedimento.
Il 22 maggio dello stesso anno arrivano le motivazioni della sentenza. Sono motivazioni che equivlgono quasi ad un atto d’accusa.
In 150 pagine i giudici del Tribunale ritengono che non ci sia stato dolo nell’azione dei due ufficiali del Ros, ma fanno riferimento a una presunta trattativa e ai colloqui tra Mori e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. I giudici definiscono i colloqui come “iniziative spregiudicate”, anche se escludono l’esistenza di un accordo fra Stato e boss per l’arresto di Totò Riina.
Nelle motivazioni della sentenza emergono però tanti buchi neri attorno alla mancata perquisizione del covo del capomafia. Secondo loro l’istruttoria dibattimentale non ha chiarito il “lato oscuro” dell’arresto del capomafia. Per i giudici la linea difensiva dei due imputati “è confusa”. Inoltre, la tesi di Ultimo’, scrivono i magistrati, in cui spiega il motivo per il quale aveva chiesto ed ottenuto dai magistrati il rinvio della perquisizione “è contraddetta” da elementi pratici come il rinvenimento di “pizzini” addosso a Riina nel momento dell’arresto, e ciò avrebbe fatto intuire che il capomafia ne poteva avere altri in casa. E quindi la perquisizione doveva essere fatta senza rinvio. “Il collegio – si legge nelle motivazioni della sentenza – ritiene, di non poter condividere la prospettazione della pubblica accusa che, sulla base di imprecisate ‘ragioni di Stato’, ha chiesto di affermare la penale responsabilità degli imputati per il reato di favoreggiamento aggravato, da dichiararsi ormai prescritto. Tali ragioni di Stato non potrebbero che consistere nella trattativa intrapresa dal colonnello Mori, con la consapevolezza, acquisita successivamente, da De Caprio, e dunque, lungi dall’escludere il dolo della circostanza aggravante varrebbero proprio ad integrarlo, significando che gli imputati avrebbero agito volendo precisamente agevolare Cosa nostra, in ottemperanza al patto stipulato e cioe’ in esecuzione della controprestazione promessa per la consegna di Riina”. Per i magistrati, dunque, “la ragione di Stato verrebbe dunque a costituire il movente dell’azione”, e se fosse stato provato dall’accusa, sarebbe stato “capace non di escludere il dolo specifico, bensì di svelarlo e renderlo riconoscibile”.
“E’ palese – spiegano i giudici – che se vi fu ragione di Stato si intese pagare il prezzo dell’agevolazione, per il futuro, delle attività mafiose, pur di incassare l’arresto di Riina, con la piena configurabilità del favoreggiamento aggravato, ma se non vi fu, gli imputati devono andare esenti da responsabilità penale”.
Il 18 luglio 2007, a 14 anni dai fatti, 11 boss mafiosi, accusati di aver ripulito il covo di Totò Riina, compaiono davanti al giudice Mario Conte nell’udienza preliminare con l’accusa di favoreggiamento. Gli imputati sono i “pentiti” Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca, e i mafiosi Giovanni, Gaetano e Giuseppe Sansone, Leoluca Bagarella, Giovanni Grizzaffi, Michele Traina, Giuseppe Guastella, Giusto Di Natale e Michelangelo La Barbera.
La squadra dei ripulitori entrò in azione approfittando del “malinteso” tra la Procura di Palermo e i carabinieri grazie al quale per molti giorni nel covo di Riina non vennero effettuati né controlli, né perquisizioni.
I giudici della quinta sezione del tribunale di Palermo dichiarano prescritte per dieci degli undici imputati le accuse di favoreggiamento aggravato. Stralciata la posizione di Giuseppe Sansone. Il suo legale chiede e ottiene che per il suo cliente, già condannato per associazione mafiosa, venga dichiarato il ne bis in idem. Cioè non può essere condannato due volte per lostesso reato.
Il 29 aprile 2009 ultimo atto di questa vicenda destinata a rimanere per sempre oscura. La quarta sezione della Corte d’appello di Palermo conferma la condanna a sette anni e sei mesi di reclusione nei confronti dell’ing. Giuseppe Montalbano, proprietario della villa di via Bernini che fu anche l’ultimo covo di Toto’ Riina. Assolto invece l’altro imputato del processo, Antonino Fauci, già responsabile della vigilanza del complesso turistico Torre Makauda di Sciacca. Il Torre Makauda, sempre di proprietà di Montalbano, era stato sequestrato, ma la sezione misure di prevenzione della Corte d’appello di Palermo, nel 2005, lo aveva restituito ai proprietari, assieme ad altri beni. Era passata invece allo Stato la villa- covo di Riina.
Nel processo d’Appello il pg Dino Cerami aveva chiesto l’aggravamento della condanna (a nove anni) nei confronti di Montalbano, ritenendolo colpevole di associazione mafiosa piena. La Corte, presieduta da Rosario Luzio, condivide invece l’impostazione del tribunale di Sciacca che in primo grado aveva addebitato a Montalbano il “concorso esterno”.
FONTE Misteri d’Italia