Omicidio Rizzo, svolta dopo 20 anni. Chiesto il giudizio per Sem Di Salvo, Giovanni Rao, Carmelo D’Amico, Basilio Condipodero L’omicidio dell’autotrasportatore di Barcellona, Carmelo Martino Rizzo, ucciso a 27 anni, nella cabina del suo camion, poco prima dell’alba del 4 maggio del lontano 1999 a Lauria, in una piazzola di sosta del tratto lucano dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, in direzione nord, sarebbe stato ordinato dai vertici della “famiglia mafiosa dei barcellonesi”.
A vent’anni da quel delitto, la Procura distrettuale antimafia di Potenza, grazie alle dichiarazioni di quatto collaboratori di giustizia, ha tracciato nuovi scenari di mafia chiedendo il rinvio a giudizio dei boss al vertice dell’organizzazione mafiosa di Barcellona: Salvatore “Sem” Di Salvo, 54 anni; Giovanni Rao, 58 anni; Carmelo D’Amico, 48 anni, quest’ultimo transitato tra i collaboratori di giustizia; e del gregario Basilio Condipodero, 45 anni, quest’ultimo indagato anche per l’uccisione del giornalista Beppe Alfano.
Tutti dovranno comparire davanti al gip di Potenza il prossimo 12 dicembre per rispondere di omicidio, con l’aggravante delle modalità mafiose e della premeditazione, perché, in concorso tra loro e con il barcellonese Stefano Genovese, già condannato a 27 anni per lo stesso omicidio con sentenza definitiva, causavano la morte di Carmelo Martino Rizzo, autotrasportatore di Barcellona, che veniva attinto da colpi d’arma da fuoco in varie parti del corpo.
In particolare – secondo l’accusa mossa dalla Dda di Potenza – Salvatore “Sem” Di Salvo e Giovanni Rao, nella veste di soggetti apicali del sodalizio mafioso della “famiglia barcellonese”, svolgevano il ruolo di ideatori e mandanti del delitto; l’ex boss Carmelo D’Amico, transitato nelle fila dei collaboratori di giustizia, accompagnava invece nella fase preparatoria del delitto Sem Di Salvo allorché quest’ultimo si incontrasse con Stefano Genovese (già riconosciuto in via definitiva quale esecutore materiale del delitto) e con questi concordava l’organizzazione e l’esecuzione dell’omicidio di Carmelo Martino Rizzo, così offrendo il suo contributo e rafforzando il proposito criminoso. L’ex titolare di un bar-trattoria di Barcellona, Basilio Condipodero, viene invece ritenuto partecipe dell’esecuzione del delitto. Nei confronti di Condipodero l’accusa avanzata della Dda di Potenza è quella di aver fornito «importante appoggio a Stefano Genovese il quale, dopo aver seguito la vittima Carmelo Martino Rizzo lungo il tragitto autostradale lucano, esplodeva tre colpi d’arma da fuoco che lo attingevano in varie parti del corpo uccidendolo». A tutti gli imputati si contesta l’aggravante di aver agito con modalità mafiose allo scopo di agevolare l’attività della cosca denominata “famiglia barcellonese”, punendo – secondo l’ipotesi di accusa – «una persona che, avendo contribuito al furto di un automezzo meccanico ad una ditta che pagava il “pizzo” alla cosca mafiosa dei barcellonesi, aveva interferito negli interessi economici del clan». Solo all’ex commerciante Basilio Condipodero, l’unico degli indagati che allo stato si trova in libertà, si contesta, sempre in concorso con Stefano Genovese, la violazione delle leggi sulle armi con l’aggravante delle modalità mafiose perché, al fine di commettere l’omicidio, illecitamente avrebbe detenuto e portato in luogo pubblico una pistola “Beretta modello 70 calibro 765” con numero di matricola abraso. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Giuseppe Lo Presti, Diego Lanza, Tommaso Calderone, Tino Celi, Francesco Scattareggia Marchese, Tommaso Autru Ryolo e Antonella Pugliese. RADIO MILAZ O5.12.19
D’Amico: «Ho corrotto due giudici per un’assoluzione» La mafia barcellonese avrebbe pagato magistrati per “aggiustare” alcuni processi, e sarebbe riuscita ad arrivare a corrompere perfino un giudice in Cassazione. Ci sono nuove, e devastanti, dichiarazioni del pentito barcellonese Carmelo D’Amico, ex capo dell’ala militare di Cosa nostra tirrenica, che non più tardi di due giorni addietro aveva parlato di un progetto della “famiglia” di eliminare un avvocato.
Queste inedite e sconvolgenti dichiarazioni-shock, che ovviamente sono da provare e attualmente al vaglio della Dda di Messina, hanno già generato la trasmissione di atti alla Procura di Reggio Calabria per competenza incrociata ex art. 11 c.p.p., perché si tratta di accuse a magistrati.
E non provengono da un verbale secretato ma dall’ennesima lunga deposizione del pentito in un’aula di giustizia. In questo caso si tratta del processo a carico di Enrico Fumia, assistito dall’avvocato Tino Celi, per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, avvenuto nella calda estate del 2006, che fu uno spartiacque eclatante per l’ascesa al vertice del gruppo mafioso dei Mazzarroti del boss Tindaro Calabrese.
Un processo che si sta svolgendo davanti alla Corte d’assise di Messina presieduta dal giudice Nunzio Trovato, e che ha registrato all’ultima udienza una serie di domande al pentito da parte del sostituto procuratore Francesco Massara, applicato alla Dda per questo processo e anche per altre vicende legate ai fatti della mafia barcellonese. Nel corso della deposizione, il pm Massara ha posto a D’Amico una serie di domande, partendo ovviamente dalla necessità di inquadrare la sua storia personale per farla conoscere alla corte, che processualmente apprendeva per la prima volta una serie di circostanze sul pentito.
E sono così emersi retroscena inquietanti, molto inquietanti, su cosa in passato il boss D’Amico e l’organizzazione mafiosa barcellonese sarebbero riusciti a fare in tema di “aggiustamento” dei processi, che riguardavano capi e gregari. Ecco i passaggi fondamentali di una deposizione che sarà senz’altro al centro di indagini nei prossimi mesi, e rischia di provocare un vero e proprio tsunami giudiziario.
«La nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi…»
«Guardi io ho deciso di collaborare con la giustizia, perché sono stato sempre chiuso al 41 bis, da quando mi hanno arrestato dal 2009. Il 41 bis mi ha fatto riflettere tantissimo stando da solo, anche perché il 41 bis è un carcere duro, e niente ho deciso di cambiare vita, anche se avevo la possibilità può darsi, di uscire dal carcere, perché io ho esperienza nei processi perché abbiamo aggiustato… la nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era la possibilità che io sarei potuto uscire dal carcere…».
Il processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino
Poi successivamente D’Amico, sempre rispondendo al pm Massara, specifica meglio di quale processo si tratti, quello per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino commesso dal gruppo D’Amico la notte del 4 settembre del 1993 alla stazione di Barcellona, quando ad essere uccisi furono tre ragazzi, tre giovani di Milazzo che ebbero solo la “colpa” di oltrepassare il confine per commettere reati contro il patrimonio a Barcellona: «Poi successivamente nell’anno ’89, ’89 siccome il mio nome girava tantissimo e siccome io ero imputato per il triplice omicidio commesso nel ’93 da me Nino Calderone e da Micale Salvatore… triplice omicidio di Ceraci Raimondo e Martino, commesso alla vecchia stazione di Barcellona, vicino al manicomio, praticamente avevo questo processo in corso e praticamente non potevo rischiare di farmi arrestare perché era un processo che praticamente ero sicuro che prendevo l’ergastolo, infatti questo processo poi è stato sistemato… lo abbiamo sistemato tramite un procuratore generale, tramite il pubblico ministero che praticamente erano corrotti e lo abbiamo sistemato…».
«Siamo arrivati anche in Cassazione a sistemare un processo…»
Ma c’è dell’altro sempre sul versante dei magistrati, e altrettanto devastante, in questa lunga deposizione. Ecco un altro passaggio, che prende spunto dalla domanda del pm Massara sull’operazione “Icaro” che ha riguardato anche l’ex capo dei Mazzarroti Carmelo Bisognano: «… Certamente, l’ho avvisato pure io di quell’operazione, l’ho avvisato io che c’era l’operazione in corso, perché avevamo saputo praticamente, tramite carabinieri corrotti che noi avevamo, che pagavamo sul libro paga dal ’90, carabinieri corrotti che era uno… uno apparteneva alla… alla squadra catturandi latitanti, un altro era nella Dda… nella Dda che faceva da scorta e tanti altri carabinieri e poliziotti che sono sui libri paga, che ne ho parlato purtroppo».
E subito dopo, nel parlare, D’Amico traccia un profilo ben preciso dell’organizzazione mafiosa barcellonese, pronunciando altre accuse pesantissime: «… La nostra associazione era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria. Noi abbiamo fatto… siamo arrivati anche in Cassazione a sistemare un processo… un processo molto noto, abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io inseme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo, di Santa Lucia… le dico questo, nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo… comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione…». GAZZETTA DEL SUD di Nuccio Anselmo — 25 Marzo 2016
dichiarazioni del pentito di mafia Carmelo D’Amico del perché Nino Di Matteo è un sopravvissuto 18 Apr 2015 Il ‘disappunto’ della politica che non riesce a celebrare il Pm Di Matteo perché è ancora vivo. I racconti del pentito di mafia Carmelo D’Amico filtrati con gli occhi della politica A sentire quello che racconta Carmelo D’Amico, ex killer delle cosche mafiose messinesi – per la precisione di Barcellona Pozzo di Gotto – il pubblico ministero Nino Di Matteo sarebbe un sopravvissuto. Un sopravvissuto che mafia e ‘pezzi’ dello Stato italiano non sarebbero ancora riusciti a fare saltare in aria come hanno fatto con Rocco Chinnici, con Giovanni Falcone e con Paolo Borsellino. Nino Di Matteo è il magistrato che, insieme con i suoi colleghi Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, regge l’accusa al processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si celebra a Palermo. Mentre Carmelo D’Amico è un collaboratore di Giustizia che i pubblici ministeri considerano “altamente credibile”. E’ credibile perché le sue dichiarazioni presentano riscontri piuttosto precisi con quelle di altri mafiosi pentiti. E anche perché ha trascorso due anni in carcere con Nino Rotolo, boss del quartiere palermitano di Pagliarelli, considerato vicino all’allora capo di Cosa nostra siciliana, Bernardo Provenzano.
Il tema è sempre il solito: si deve credere alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia? Debbono essere loro a ricostruire la storia a tinte fosche del Belpaese? E il fatto che altri mafiosi pentiti dicano le stesse cose basta a trasformare gli indizi in prove? Può sembrare una strada con il solito dilemma: credere o non credere? Però, in questo caso, non è così. Lette con gli occhi di un cronista di giudiziaria, i dubbi circa l’attendibilità dei collaboratori di giustizia ci stanno tutti. Lette, invece, con gli occhi di chi segue le cronache politiche della Sicilia da oltre trent’anni cambia tutto, perché la mafia ‘filtrata’ dalla politica è del tutto diversa.
Che significa ‘filtrare’ la mafia dalla politica? Significa, in primo luogo, inserire i personaggi politici coinvolti nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nelle reali posizioni che occupano nel nostro Paese e, soprattutto, in Sicilia. Nel potere che hanno esercitato. Nel come, quando e dove hanno esercitato questo potere.
Chi scrive si sta limitando a leggere in chiave ‘politica’ un articolo pubblicato in questi giorni da Il fatto quotidiano. Cominciamo dal presente. Con un esempio: gli immigrati e gli affari che girano intorno a questo mondo. Va da sé che i barconi che trasportano migranti in Italia sono gestiti dalla criminalità organizzata. E non è difficile stabilire un nesso tra i migranti che arrivano e quelli che vengono ospitati nei centri di accoglienza. Anche perché i centri di accoglienza sono un grande business (soprattutto i centri che ospitano i minori non accompagnati). E i centri stanno nel territorio. E il territorio, soprattutto in Sicilia (ma ormai non solo in Sicilia), non sfugge al controllo della mafia. Il principio è sempre lo stesso: tu conti di fare un sacco di soldi quando la pubblica amministrazione italiana di pagherà (i Comuni, la Regione, lo Stato: fai tu)? Bene, ricordati che ci siamo anche noi. Non pensare di spendere, sì e no, 10-15 euro al giorno per ogni migrante accolto, incassarne da 45 a 75, sempre al giorno, e lasciare noi a bocca asciutta. Perché questo non esiste.
Insomma, se i collaboratori di giustizia tirano in ballo politici che hanno avuto a che fare – e che hanno a che fare – con il grande affare dei migranti, ebbene, questo impone una riflessione in più. Perché è molto difficile che la mafia non abbia ‘naschiato’ l’affare migranti. Anche perché non bisogna dimenticare che la mafia, oggi, è ben inserita nella ‘solidarietà‘ e nelle associazioni antiracket, e non mancano indagini giudiziarie dalle quali viene fuori che personaggi che apparivano in prima fila nella lotta al racket e alla mafia erano, in realtà, dei mafiosi, spesso infiltrati dagli stessi boss. I mafiosi, da questo punto di vista, sono proteiformi. Capeggiano o comunque provano a infiltrarsi nelle associazioni antiracket e, anche se ancora questo non è venuto fuori, non ci sarà da stupirsi se, tra qualche anno, si scoprirà se questo o quel mafioso era in prima fila tra quelli che si battevano per accogliere ad ogni costo i migranti. Questo, ovviamente, non significa che tutti quelli che si battono per accogliere i migranti sono mafiosi. Significa che la mafia, per fare business, è pronta a strumentalizzare anche i filantropi dell’accoglienza.
Ovviamente, quello dei migranti oggi è un affare importante. Ma non è il solo. E’ importante anche il passato dei personaggi politici tirati in ballo dai collaboratori di giustizia. Se sono politici chiamati in causa per la prima volta, che magari non hanno rivestito incarichi importanti, non resta che approfondire. Per verificare che cosa ci può
essere di vero. In Sicilia, per i cronisti politici, c’era un metodo molto semplice per accertare, anche se approssimativamente, l’eventuale ‘associazione’ di un politico a certi ambienti: la provenienza dei voti. Oggi questo non è più possibile per i parlamentari nazionali, perché il Porcellum non consente di rintracciare in modo preciso la provenienza dei voti. Con il Porcellum (la legge elettorale di Camera e Senato) non c’è più la possibilità di stabilire il nesso tra i voti di certe ‘aree’ della Sicilia con uno o più candidati eletti.
Contrariamente a quello che si pensa, il Porcellum non ha sfavorito la mafia, ma l’ha favorita. Perché ha spersonalizzato il consenso aiutando i politici vicini ai boss, che sono ormai, sotto il profilo elettorale, ‘irrintracciabili’. Cosa, questa, che non deve essere sfuggita ai chi ha provato a ‘cassare’ il Porcellum. Questo spiega perché oggi i boss tifano per l’Italicum: perché, come il Porcellum, è una legge elettorale confezionata su misura per le loro esigenze nel Sud Italia (e ormai non soltanto nel Sud Italia, se è vero che mafia e ‘ndrangheta ormai sono presenti anche nel Centro Nord Italia).
Fatta questa premessa, il processo sulla trattativa tra Stato e mafia e i collaboratori di giustizia che si susseguono in questo processo acquistano un’altra luce. E’ il caso di D’Amico, che ha detto di aver maturato il proprio ‘pentimento’ dopo aver ascoltato, il 21 giugno dello scorso anno, le parole di Papa Francesco che, al pari di Papa Giovanni Paolo II, ha scomunicato i mafiosi. Ai magistrati di Messina e poi a quelli di Palermo ha detto di aver commesso una trentina di omicidi, soprattutto tra Catania e dintorni. Il racconto di D’Amico presenta rivelazioni inedite. Tra i personaggi tirati in ballo davanti alla Corte d’Assise di Palermo c’è anche l’attuale Ministro degli Interni, il siciliano di Agrigento, Angelino Alfano.
“Alfano – ha raccontato D’Amico, collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo – è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”. Alfano è stato candidato per la prima volta alle elezioni regionali del 1996. Eletto nel collegio di Agrigento nella lista di Forza Italia. Ed era molto sostenuto dal suo partito, tant’è vero che, pur non avendo alcuna esperienza parlamentare, venne nominato capogruppo di Forza Italia al Parlamento siciliano, incarico che, di solito, si assegna a chi ha una certa esperienza.
Per la cronaca, Alfano non è estraneo alle vicende che coinvolgono i migranti. Da Ministro degli Interni ha patrocinato l’operazione Mare Nostrum, iniziativa filantropica che può essere vista anche da un’altra angolazione: quella di chi ha tratto grandi vantaggi dalle navi italiane che andavano (e vanno ancora, anche se sotto l’egida di una non a caso un po’ riottosa Unione europea) a caricare i migranti nel cuore del Mediterraneo. Agevolando – ovviamente senza volerlo – il lavoro di chi gestisce questo business. Sempre per la cronaca, un altro parlamentare vicino ad Alfano, Giuseppe Castiglione (fa parte della stessa formazione politica: il Nuovo centrodestra democratico) sottosegretario all’Agricoltura, è coinvolto nell’inchiesta sul Cara di Mineo, il mega centro di accoglienza che ha sede, per l’appunto, a Mineo, in provincia di Catania.
Un altro personaggio tirato in ballo da D’Amico è l’ex presidente del Senato, Renato Schifani, già indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (indagini archiviate). Il collaboratore di giustizia non risparmia Forza Italia, formazione politica che sarebbe stata sostenuta direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss – ha detto D’Amico – votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Anche in questo caso le dichiarazioni, da sole, non bastano. Al massimo, possono acquisire ulteriore credibilità, visto che non è la prima volta che si ascoltano queste ricostruzioni.
Lo scenario cambia e diventa più interessante se queste considerazioni del collaboratore di giustizia – che ci riportano alle elezioni politiche del 1994 e alle elezioni regionali siciliane del 1996 – vengono ‘filtrate’ dalla politica. Il ‘filtro’, in questo caso, è rappresentato da quanto avvenuto in certi quartieri di Palermo nella campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali del 1994, quando ai manifesti di Leoluca Orlando – che era stato eletto sindaco della città con quasi il 70 per cento dei voti nel novembre del 1993 – sono stati sostituiti i manifesti degli esponenti di Forza Italia. Il successo di Forza Italia, nel 1994, fu la novità della politica italiana. Ma a Palermo, agli occhi degli osservatori di cose politiche, destò molta impressione, perché rispetto ad alcuni mesi prima, in tante aree della città, il voto si presentava capovolto al novanta e, in certi casi, al cento per cento! E queste cose a Palermo non avvengono per caso.
Due anni dopo le elezioni politiche e le elezioni regionali segnarono una controtendenza rispetto all’andamento del voto nazionale: ancora una vittoria del centrodestra. Nulla da dire, visto che in democrazia il voto è libero. A parte certi passaggi sulle elezioni regionali dove aree tradizionalmente democristiane ‘svoltano’ completamente in direzione del partito di Berlusconi. Anche questa fu una stranezza, perché in quegli anni gli ex democristiani siciliani erano ancora presenti e forti. Anche in questo caso, fatti che non avvengono certo per caso. Anzi.
Stando sempre a quanto racconta D’Amico, il patto tra politica e boss, dopo alcuni anni, si sarebbe interrotto. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
Un passaggio delle dichiarazioni di D’Amico è dedicato alla Massoneria di Messina e dintorni. E non potrebbe essere altrimenti, visto che nel messinese i ‘grembiuli’ sono, da sempre, molto attivi. Il collaboratore di giustizia fa riferimento, in particolare, a una loggia massonica. “Ne facevano parte – dice D’Amico – uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico ‘Mimmo’ Nania (ex parlamentare nazionale ed ex vice presidente del Senato prima in An e poi nel Pdl): a questa (loggia ndr) apparteneva anche Dell’Utri”. In questo caso, la fonte del collaboratore di giustizia è il già citato Rotolo, il boss di Palermo con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora d’aria. “Mi raccontò – dice sempre D’Amico – che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. E qui torniamo alla tormentata storia della cattura di Riina, quando i vertici delle forze dell’ordine decisero di non andare a perquisire il covo del boss dei boss della mafia siciliana. Una pagina nera della storia della Repubblica italiana destinata, come in molti altri casi, a restare avvolta nel mistero.
Il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche rivelazioni sulla latitanza di Provenzano: “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”. Altra storia incredibile, che è costata la vita al medico Attilio Manca, anche se non mancano i tentativi di imbrogliare le carte anche in questa storia.
Rotolo che racconta a D’Amico i retroscena del piano per assassinare Di Matteo. “Rotolo – dice D’Amico – ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico trova un riscontro nelle rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dei quartieri Arenella e Acquasanta di Palermo. Vito Galatolo già nel dicembre del 2012 ha raccontato del piano di morte che i boss avevano preparato per Di Matteo. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – racconta sempre D’Amico -. Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”. Qui la precisazione è in linea con la strategia di Provenzano, il boss che, dopo le bombe volute da Riina, ha impresso alla mafia una svolta ‘tranquilla’.
Ai riscontri con la ‘filosofia’ di Provenzano si sommano i riscontri con le dichiarazioni di Vito Galatolo, che ha raccontato che l’attentato contro Di Matteo avrebbe dovuto esere fatto a colpi di tritolo, per la precisione, con 200 chilogrammi di tritolo prelevati in Calabria e portati a Palermo. Poi sarebbe giunto il contr’ordine: niente bombe, ma kalashnikov. Anche in questo caso non si può non notare che, appena poche settimane fa, il palazzo di Giustizia di Palermo è entrato in fibrillazione dopo che è venuta fuori la notizia che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico a quanto pare frequentato da Di Matteo. Il tutto con qualche variazione sul tema: Galatolo ha indicato in Matteo Messina Denaro il possibile mandante dell’omicidio, mentre per D’Amico l’ordine sarebbe arrivato anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo – dice D’Amico – erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. A un certo punto l’attentato al pubblico ministero del processo per la trattativa tra Stato e mefia sembra subire un intoppo. Così Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – dice pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”.
Il vero chiodo fisso di D’Amico rimangono i Servizi segreti, supponiamo più o meno ‘deviati’ (ammesso che in Italia ci possano essere Servizi segreti ‘dritti’). “Arrivano dappertutto – dice D’Amico – ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine D’Amico sembra avere un po’ di paura e, a scanso di equivoci, precisa: “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.
Il richiamo ai Servizi e a Giovanni Falcone – ma la stessa cosa vale per Paolo Borsellino – ci riportano all’inizio di questo articolo: e cioè al fatto che Di Matteo, nell’Italia di oggi, è un sopravvissuto. Basti pensare all’ostracismo manifestato dalla politica verso il processo sulla trattativa tra Stato e mafia. E alle polemiche che hanno coinvolto il Quirinale, ovviamente negli anni in cui il ruolo di Presidente della Repubblica era ricoperto prima da Oscar Luigi Scalfaro (tutta l’incredibile storia delle agevolazioni convesse ai boss per evitare altri attentati: cosa, questa, ammessa anche da intellettuali che si cimentano con i libri scritti per difendere ciò che è indifendibile: ah, quanta scuola ha fatto Vincenzo Monti, il poeta che celebrava i potenti…) e poi da Giorgio Napolitano (le incredibili telefonate quirinalizie dell’ex Ministro, Nicola Mancino, che, in sostanza, fa sapere che se non gli avessero salvato il culo si sarebbe tirato dietro mezza Repubblica).
L’alterigia di politici italiani verso il processo sulla trattativa tra Stato e mafia (al netto dei politici che sono finiti in questa storia magari grazie all’eredità politica e criminale di Vito Ciancimino) dà la misura del ‘disappunto’ – ovviamente nascosto, ma non per questo invisibile – di chi, oggi, avrebbe voluto dispensare a Di Matteo morto le solite sceneggiate istituzionali che si riservano ogni anno a Falcone e a Borsellino, quando lo Stato che li prima li aveva avversati e poi eliminati li va a celebrare. LA VOCE DI NEWYORK
MAFIA BARCELLONESE: SI E’ PENTITO IL BOSS CARMELO D’AMICO, SI SCAVA PER TROVARE I CIMITERI DEL CLAN 25 LUGLIO 2014 Pagine e pagine di verbali. Vuota il sacco il boss 43enne Carmelo D’Amico, indiscusso capo di Cosa nostra barcellonese, che da diverse settimane ha deciso di raccontare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina tutto quello che sa sulla criminalità della zona tirrenica di cui lui è stato braccio armato.
Un pentimento che non fa dormire sonni tranquilli a chi in questi anni lo ha affiancato e che apre nuovi spiragli per chiudere il cerchio su importanti episodi di lupara bianca: è iniziata infatti anche una campagna di scavo sul torrente Patrì nel territorio di Rodì Milici, dove secondo le indicazioni di D’Amico, si troverebbe un cimitero di mafia dove sarebbero stati sepolti i morti ammazzati sin dagli anni 90.
Si andrà avanti a scavare sino a San Filippo del Mela e le zone di campagna e le colline che sovrastano Barcellona Pozzo di Gotto e Terme Vigliatore. Le operazioni sono coordinate dai sostituti procuratori della Dda di Messina Vito Di Giorgio, Angelo Cavallo, Giuseppe Verzera e Fabrizio Monaco,e condotte dalla polizia del Commissariato di Barcellona al comando del vicequestore aggiunto Mario Ceraolo, dai carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) di Messina al comando del capitano Gabriele Ventura, dai carabinieri del Ris (Raggruppamento investigazioni scientifiche) di Messina diretti dal colonnello Sergio Schiavone e dai carabinieri della Compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto al comando del capitano Filippo Tancon Lutteri.
Dopo un paio di anni al carcere duro e le condanne riportate in diversi procedimenti, dall’operazione Pozzo all’operazione Gotha, il boss ha deciso di seguire la strada iniziata dal’ex capo dei mazzarroti Carmelo Bisognano e da Salvatore Campisi, ex capo emergente della cosca di Terme Vigliatore.MESSINA ORA
La memoria “tardiva” del pentito D’Amico: un fiume in piena che travolge Politica, Arma CC e Magistratura
“L’intenzione di ammazzare il giornalista Beppe Alfano perché aveva iniziato a mettere il naso nella Corda Fratres del giudice Franco Cassata; il ruolo dell’avvocato Peppuccio Santalco in seno all’organizzazione mafiosa del Longano; il contributo dell’avvocato Saro Cattafi nella morte dell’urologo Attilio Manca, “ucciso dai servizi segreti”.
Il collaboratore di giustizia Carmelo D’amico, boss di Barcellona e autore di efferati omicidi, non ne ha parlato nel verbale illustrativo della collaborazione; non ne ha parlato nei 180 giorni dall’inizio della collaborazione, come prevede la legge; non se n’è ricordato, incalzato dal pm e dagli avvocati di parte civile, nel corso dell’esame del processo d’appello a Saro Cattafi imputato di essere il capo della mafia di Barcellona, né nel corso del processo sulla presunta Trattativa tra lo Stato e la mafia.
Ma il 15 ottobre del 2015, a quasi due anni dall’inizio della collaborazione, ha messo nero su bianco nuove e clamorose dichiarazioni, raccontando fatti, tutti appresi da persone ormai decedute.
L’AVVOCATO PEPPUCCIO SANTALCO
“L’avvocato Peppuccio Santalco era un componente della mafia di Barcellona, assisteva nei processi il boss Pippo Iannello (ucciso a dicembre del 1993), faceva uso di cocaina insieme a noi e ha aggiustato dei processi per conto nostro”, ha dichiarato D’amico. “Aveva lo studio in viale Kennedy, all’epoca dei fatti aveva 40 anni ed era il figlio di Carmelo Santalco, ex senatore della Repubblica (deceduto, ndr)”, ha precisato. “Mio zio Cannata (boss della mafia deceduto da anni, ndr) mi disse che Santalco padre era arrivato in Parlamento grazie all’aiuto di tutta la mafia barcellonese”
“Nello studio di Peppuccio Santalco facevamo uso di cocaina”, ha ancora sottolineato D’amico.
BEPPE ALFANO E LA CORDA FRATRES DEL GIUDICE CASSATA
“Ricordo che un giorno sentii Pippo Iannello dire preoccupato a Santalco che Pippo Gullotti voleva ammazzare il giornalista Beppe Alfano perché aveva iniziato ad indagare sulla Corda Fratres, l’associazione culturale guidata dal giudice Franco Cassata (ex procuratore generale della Corte d’appello di Messina, ndr). Fu l’avvocato Santalco a dire a Iannello di non preoccuparsi perché avrebbe parlato lui con Cassata in modo che quest’ultimo facesse desistere dal progetto Pippo Gullotti – ha detto il collaboratore -non ho raccontato prima queste cose perché avevo paura di Cassata che è un giudice molto potente”- Ha precisato ancora .
Per l’omicidio di Beppe Alfano sono stati condannati, con sentenza passata in giudicato, Pippo Gullotti e Nino Merlino come esecutore materiale. Secondo l’impianto accusatorio l’omicidio è maturato perché Alfano si stava interessando di una grossa truffa immobiliare nell’ambito dell’Aias di Barcellona.
Carmelo D’amico – secondo quanto è già trapelato – ha dichiarato che Nino Merlino è estraneo all’omicidio del giornalista.
Il RUOLO DI CATTAFI, I SERVIZI SEGRETI E LA MORTE DI ATTILIO MANCA
“Nello studio dell’avvocato Carmelo Santalco sentii ancora Iannello dire che Gullotti e Saro Cattafi avevano il cervello malato perché avevano dato la loro disponibilità alle famiglie della mafia di Palermo e Catania a preparare l’attentato per uccidere l’ex ministro Claudio Martelli e il giudice Antonio di Pietro. Ho saputo di recente nel carcere dal boss Nino Rotolo che il mandante degli attentati (non eseguiti) era il leader del Psi, Bettino Craxi (deceduto da anni, ndr)” – ha riferito D’amico.
“Dopo la morte dell’urologo Attilio Manca, avvenuta a Viterbo nel 2004, incontrai a Barcellona Salvatore Rugolo (cognato del boss Pippo Gullotti) che ce l’aveva con Saro Cattafi. Mi disse che Cattafi per conto di Bernardo Provenzano aveva contattato il suo amico Attilio Manca in modo che questi l’operasse di prostata. A Cattafi – mi disse Rugolo – l’incarico glielo aveva dato un generale dei carabinieri. Di recente, Nino Rotolo, mi ha raccontato che sono stati i servizi segreti ad ammazzare Manca e che l’omicidio era stato organizzato dal direttore del Sisde”.
“Non ho riferito prima queste cose perché non me ne sono ricordato. Ogni giorno che passa mi ricordo cose nuove. La legge che regola la collaborazione e impone di dire tutto nei primi 180 giorni è sbagliata” – si è giustificato D’amico.
Salvatore Rugolo è morto da alcuni anni e non è stato mai processato né tantomeno condannato per fatti di mafia.
Secondo tutti i magistrati di Viterbo che si sono occupati della morte di Attilio Manca, l’urologo è morto per overdose. Secondo i magistrati di Palermo che hanno indagato sulla latitanza di Provenzano (e sui fiancheggiatori) Manca non ha mai operato Provenzano a Marsiglia.
IL D’AMICO PRECEDENTE
Il collaboratore era stato sentito nel processo d’Appello a carico di Saro Cattafi. Condannato in primo grado a 18 anni come capo della mafia di Barcellona, Cattafi in appello è stato riconosciuto un semplice affiliato e solo sino al 2000 e la pena gli è stata ridotta a 7 anni di reclusione .
Il 4 dicembre 2015 gli stessi giudici della Corte d’Appello ne hanno disposto la scarcerazione.
D’amico, sentito come testimone, aveva dichiarato di aver visto una sola volta Cattafi nel corso di un incontro avvenuto negli anni novanta tra associati in una masseria nel corso del quale aveva saputo che “era un amico” e di aver ricevuto l’ordine di ammazzarlo perché per alcuni giorni fu ritenuto colui che aveva fatto la spia e consentito nel maggio del 1993 alla polizia di arrestare il boss Nitto Santapaola.
D’AMICO A RUOTA LIBERA
Carmelo D’amico è stato sentito nell’aprile scorso come testimone nel processo Trattativa Stato-mafia, in corso di svolgimento al Tribunale di Palermo, che vede sul banco degli imputati, tra gli altri, il generale dei carabinieri Mario Mori, uomini delle istituzioni e boss della mafia.
D’amico ha riferito una serie di circostanze, a suo dire tutte apprese in carcere dal boss Nino Rotolo (entrambi al 41 bis) con il quale “comunicava per gesti”, che avvalorano la tesi sostenuta dai pm secondo cui lo Stato dopo le stragi del 1993 arrivò ad un compromesso con la mafia per evitare nuove stragi . Questa tesi, però, sinora è stata smentita da alcune pronunce dei Tribunali che hanno avuto ad oggetto gli stessi fatti. Michele Schinella NORMANNO