Dai file desecretati dalla commissione Antimafia emerge il forte interesse del giudice sulla gestione mafiosa degli appalti. L’ultimo suo atto, il giorno prima della strage, riguarda l’imprenditore citato dal dossier dei Ros e dal pentito Messina
Dopo 32 anni, grazie al lavoro appena iniziato della presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo, finalmente possiamo partire dai documenti tenuti nei cassetti e mai riversati nei processi, quindi sconosciuti a tutti, anche ai familiari di Paolo Borsellino. Ora sappiamo con certezza che in quei 57 giorni, tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, il giudice stava lavorando a 360 gradi sulla questione relativa alla gestione mafiosa degli appalti. Ma lo faceva soprattutto nell’ottica di poter proseguire il lavoro del suo collega e amico fraterno Giovanni Falcone, e di conseguenza riuscire a individuare la causa della strage.
Sostanzialmente sono due i verbali dai quali emerge la documentazione che è stata rinvenuta nell’ufficio di Borsellino. Il suo ultimo atto, avvenuto sabato 18 luglio 1992, il giorno prima della sua tragica morte, è stato quello di aver preso il fascicolo numero 5261/90 relativo all’omicidio di Luigi Ranieri, noto imprenditore ucciso a Palermo che viene ampiamente citato sia nel dossier mafia-appalti degli ex Ros, sia dal pentito Leonardo Messina – legandolo alla questione di Angelo Siino – che Borsellino ha interrogato direttamente per almeno dieci giorni di fila fino all’11 luglio del ’92. E forse, durante la riunione del 14 luglio, Borsellino si riferiva proprio a lui – il tema era mafia-appalti – quando disse che un pentito stava parlando e andrebbe preso in considerazione.
Ma attenzione. Non rende giustizia citare solo quel fascicolo. Dal verbale redatto dall’allora capitano dei carabinieri Giovanni Adinolfi, riguardante i faldoni rinvenuti nell’ufficio e consegnati al maresciallo Canale per l’analisi, si evince che il fascicolo è uno degli atti che Borsellino ha utilizzato per ricostruire la vicenda Ranieri, ucciso dalla mafia per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Il faldone numero 3, oltre al fascicolo preso il giorno prima della strage, contiene atti riguardanti la società SAT, intercettazioni telefoniche, verbali di interrogatorio e materiale sequestrato a seguito dell’omicidio. Borsellino non stava aspettando Godot, ma cercava collegamenti.
Da notare che risulta anche il fascicolo processuale relativo al collaboratore Aurelio Pino contenente diverse note. Chi è? Si tratta dell’imprenditore che il 21 febbraio 1989 riferì ai carabinieri la strategia di Cosa nostra per il controllo degli appalti, specificando che i gruppi mafiosi che gestivano e controllavano gran parte delle gare di appalto nella provincia di Palermo erano essenzialmente due: il gruppo Modesto e il gruppo Siino, sotto la tutela delle “famiglie” Salamone e Brusca, le quali avevano come referenti assoluti Riina e Provenzano. Ricordiamo che Borsellino non aveva la delega per le indagini palermitane. L’avrà solamente la domenica mattina del 19 luglio tramite una singolare telefonata da parte di Giammanco. Quindi questo che cosa significa? Significa che attraverso il pentito Leonardo Messina, avrebbe potuto trovare l’aggancio per occuparsi di appalti.
Forse quella telefonata dell’allora capo procuratore di Palermo comincia ad avere senso. La partita era aperta. Ha senso anche perché Borsellino, il giorno stesso della strage, abbia voluto incontrare – non riuscendoci – il collega Alberto Di Pisa (all’epoca sospeso dal servizio perché ingiustamente processato per il corvo). Parliamo di un magistrato che si occupò degli appalti, da Pizzo Sella a quelli di Palermo durante l’era di Leoluca Orlando. Il giorno prima, Borsellino, si incontrò in albergo con il suo collega – all’epoca pm di Aosta – David Monti. Gli disse che, pur non avendo la delega su Palermo, tramite le sue indagini di competenza, poteva comunque risalire alla causa della strage di Capaci. Tutto torna.
Dalla lista desecretata dalla commissione Antimafia, appaiono numerosi appunti dattiloscritti. Basti pensare che in un fascicolo dalla copertina verde risultano pagine di appunti, ritagli di giornale e note. Si spera che la commissione Antimafia prosegua con l’approfondimento. Sarebbe interessante leggere i vari appunti del giudice, da lì si potrebbe comprendere appieno la sua linea investigativa. Borsellino era pragmatico. Lo ritroviamo anche in un altro fascicolo che aveva in ufficio. Quello relativo a Buccafusca, importante soldato del mandamento palermitano di Porta Nuova, allora latitante e legato alla potente famiglia Spadaro. Lo ha anticipato per la prima volta lo studioso Vincenzo Ceruso nel suo libro sulla strage e agenda rossa. Parliamo di una indagine iniziata da Falcone. L’ennesima dimostrazione che Borsellino ha ripreso in mano tutte le indagini del suo amico. Alla fine, dopo un vaglio, il suo ultimo atto è stato sugli appalti.
A proposito di riscontri nel libro di Ceruso, uno è davvero clamoroso. E meriterebbe un approfondimento da chi di dovere. Dalle testimonianze riportate, la borsa del giudice risultava piena di documenti. Sappiamo che giungerà alla questura di La Barbera già semivuota. A pochi giorni dalla strage, sentiti dal Csm, due magistrati spiegano come Borsellino, dopo una forte resistenza, è riuscito a farsi dare la delega per interrogare l’allora pentito Gaspare Mutolo. Una comunicazione – come ben scrive l’autore nel libro – avvenuta attraverso una sorta di pizzino, in cui è scritto al magistrato assegnatario: “Ti avvarrai della collaborazione e del coordinamento del collega Borsellino”. Il biglietto viene allegato al fascicolo che raccoglie le prime deposizioni del pentito e che si trovava nella borsa del giudice, tra i documenti che egli portava con sé.
Lo dicono chiaramente i magistrati. Gioacchino Natoli: «Acquisire non è facile, perché si trovava (il fascicolo di Mutolo, ndr) nella borsa di Paolo Borsellino che era con lui ed è stato sequestrato; noi siamo in possesso dei verbali perché Paolo era andato via il venerdì, io resto con Guido Lo Forte a lavorare il venerdì pomeriggio ed il sabato e quindi i verbali li avevamo trattenuti noi. Infatti, noi avevamo i verbali e Paolo aveva tutto il fascicolo». Vittorio Aliquò: «Sì, dopo la morte di Falcone, nei primi di questo mese. Non posso dire di più perché oltretutto sto dicendo questo a memoria, in quanto il fascicolo lo aveva nella borsa Borsellino ed è rimasto chiuso lì tra le carte sequestrate». Ebbene, le dichiarazioni dei due magistrati collimano perfettamente con i verbali desecretati dalla commissione Antimafia: compare il fascicolo di Mutolo con un verbale d’interrogatorio (gli altri li avevano trattenuti i magistrati) e il bigliettino di Giammanco. Un clamoroso riscontro. Le inevitabili domande: come sono finite in ufficio le carte che erano nella borsa? È quindi plausibile che sia giunta anche l’agenda rossa come riporta Ceruso tramite le parole del togato Salvatore Pilato? In realtà, la logica ci dice che molto probabilmente anche il fascicolo Ranieri era nella borsa. Non aveva senso che Borsellino lo lasciasse in ufficio il sabato stesso che l’ha preso. Come minimo se lo è portato a casa.
Possiamo affermare che nel caso di Borsellino, e questa è la vergogna più grande, nessuno ha pensato di tirare fuori i verbali dei documenti sequestrati in ufficio. Si è così aperta la porta a narrazioni della peggiore dietrologia. Con qualsiasi vittima, si parte da ciò che faceva negli ultimi giorni di vita. Possibile che questo cruccio sia venuto solamente all’attuale commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo? «Ci sono voluti 32 anni per leggere cose, a mio giudizio, importantissime e di cui non vi è traccia nei processi sulla strage di Via D’Amelio», ha tuonato l’avvocato Fabio Trizzino della famiglia Borsellino. Bisogna ripartire dall’inizio, senza tesi precostituite. A partire dai verbali del togato Cardella quando sentì tutti i magistrati palermitani. Per amore della verità, questo stesso lavoro si dovrà estendere anche a Falcone, a partire dai suoi diari (floppy disk) che dovrebbero trovarsi a Caltanissetta. Tra le due stragi c’è un unico filo conduttore. DAMIANO ALIPRANDI