- Ergastolo ostativo, un atto di fiducia nei giudici
- Nessun mafioso e nessun terrorista sta per tornare in libertà. Spetterà al magistrato giudicare caso per caso
- Ergastolo ostativo, incostituzionale non concedere permessi premio ai mafiosi anche se non collaborano
- La Consulta fa cadere il divieto per i condannati che abbiano dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo e se l’autorità ha acquisito prove che non c’è più partecipazione all’attività criminale. La Corte costituzionale stabilisce che si valuti…
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FIAMMETTA BORSELLINO e l’ergastolo ostativo
COS’È L’ERGASTOLO OSTATIVO L’ergastolo è la massima pena riconosciuta dal nostro ordinamento giuridico. Vediamo nel dettaglio che cos’è e per quali reati viene eseguito.
- Cos’è l’ergastolo ostativo
- Cosa dice la Corte Costituzionale
- Per quali reati viene eseguito
- Fonti Normative
L’ergastolo è la pena a vita che deve essere scontata in carcere con l’obbligo del lavoro, con l’imposizione dell’isolamento notturno. Nonostante con l’ergastolo il condannato sia privato della sua libertà a vita, lo stesso ha, in ogni caso, diritto ad ottenere alcuni benefici, quali:
- permessi premio,
- semilibertà,
- liberazione condizionale.
Ciò però non accade per il condannato all’ergastolo ostativo. Ai condannati, che tengono una regolare condotta in carcere e non risultano socialmente pericolosi, il giudice di Sorveglianza può concedere permessi premio (di durata non superiore a 15 giorni consecutivi), per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro, in cui può in concreto uscire dall’istituto penitenziario. I condannati all’ergastolo possono ottenere i permessi premio dopo aver espiato almeno dieci anni di pena. Ulteriore beneficio previsto dalla legge è il regime di semilibertà che concede al condannato di trascorrere parte della giornata al di fuori dell’istituto penitenziario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o utili al reinserimento sociale. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo avere espiato almeno venti anni di pena. Infine, il più vantaggioso dei benefici che un condannato possa ottenere è la liberazione condizionale che consente allo stesso di trascorrere il residuo pena in libertà vigilata (quindi fuori dal carcere) per la risocializzazione e il riavvicinamento alla società. Anche il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale ma solo quando abbia già scontato ventisei anni di pena. La concessione della liberazione condizionale, inoltre, è subordinata al risarcimento del danno, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle.L’ergastolo ostativo è, invece, una pena senza fine che nega ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario a chi è stato condannato per reati gravi, c.d. ostativi, (come ad esempio terrorismo, associazione mafiosa, sequestro a scopo di estorsione o associazione per traffico di stupefacenti). È regolato dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto nel 1992 a seguito alle stragi di mafia e all’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il quale stabilisce che l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione possono essere concessi ai condannati per alcuni reati, quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione e associazione finalizzata al traffico di droga ,solo se collaborano con la giustizia. La libertà condizionale, invece, è negata anche in caso di collaborazione con la giustizia. Tale previsione poggia sulla presunzione assoluta che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici extramurari. Il tema della detenzione ostativa ha animato un importante dibattito tra chi, come l’ex Pm Gherardo Colombo, sostiene la necessità di un carcere umano, e chi, come i magistrati antimafia Pietro Grasso, Gian Carlo Caselli e Federico Cafiero De Raho, ritiene che l’apertura del carcere a favore dei mafiosi porterebbe alla distruzione di anni di lotte contro la malavita organizzata. Sul tema è stata chiamata ad intervenire anche la Corte di Strasburgo, c.d. Corte EDU, la quale, nella decisione del 13 giugno 2019 Viola c/ Italia, ha bocciato l’ergastolo ostativo ritenuto in contrasto con l’art. 3 della Convenzione EDU( che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane) poiché nega in toto al detenuto la possibilità di compiere un percorso rieducativo. Sulla scorta di tale decisione, dunque, la Corte di Cassazione e il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario per la violazione dei principi di uguaglianza art 3 Cost., in quanto per i condannati a tali reati è previsto un trattamento sanzionatorio diseguale a quello previsto per altri se pur con una condanna a una pena eguale, e per il principio di legalità della pena ex art. 27 Cost., la quale deve sempre mirare alla rieducazione del reo non potendo essere meramente sanzionatoria.
Cosa dice la Corte Costituzionale La Corte Costituzionale, con sentenza 23 ottobre – 4 dicembre 2019, n. 253, interviene sul tema dell’ergastolo ostativo rimodellando l’istituto in esame. Secondo la Consulta una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata confligge con i parametri costituzionali ex artt. 3 e 27 Cost. Come già evidenziato, la scelta del condannato che aggrava il trattamento carcerario rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi se lo stesso non collabora, oppure, al contrario, lo agevola in presenza di collaborazione, per la Corte Costituzionale “opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare” in quanto l’onere di collaborazione imposto come condizione di accesso ai benefici risulta estremamente gravoso nella misura in cui “non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati”. Difatti, la dichiarazione dell’inammissibilità della domanda di concessione dei benefici premiali in limine impedisce al Tribunale di Sorveglianza una valutazione in concreto della condizione del detenuto e sulla sua condotta, arrestando sul nascere la possibilità di rieducazione e risocializzazione al quale la pena ontologicamente tende. La presunzione assoluta su cui si fonda tale inammissibilità risulta illogica, ad avviso della Consulta, perché “presuppone l’immutabilità della personalità del condannato e del contesto esterno, senza tenere conto che il trascorrere del tempo può comportare trasformazioni rilevanti”. La Corte Costituzionale, dunque, ritiene che per far sì che siano rispettati i parametri costituzionali, tale presunzione deve trasformarsi da assoluta in relativa, implicando una valutazione in concreto della condizione del condannato non basata soltanto sulla semplice condotta carceraria regolare o la mera partecipazione al percorso rieducativo o, a fortiori, una soltanto dichiarata dissociazione, ma l’allegazione, da parte del condannato che richiede il beneficio, di specifici elementi a favore e l’acquisizione da parte delle autorità coinvolte di stringenti informazioni che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino. Pertanto La Corte Costituzionale ha statuito che “è costituzionalmente illegittimo art. 4 bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario) nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter del medesimo o.p., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.”
Per quali reati viene eseguito La Corte ha ritenuto opportuno estendere l’intervento ablatorio non solo ai reati di cui all’art 416 bis c.p., i quali erano stati espressamente oggetto delle ordinanze di remissione, ma anche agli altri reati contemplati nell’art. 4 bis o.p. (reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e reati contro la pubblica amministrazione), pur non rientrando nel perimetro delle questioni sollevate. La finalità della Consulta, infatti, era quella di evitare il crearsi di una paradossale disparità di trattamento, con successiva violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost, che sarebbe conseguita all’intervento demolitorio, “a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un inesistente sodalizio criminale di originaria appartenenza” trattandosi per lo più di reati monosoggettivi.
Fonti Normative Codice penale artt 416 bis, 416 ter, 600, 600 bis, 600 ter, 601, 602, 609 octies, 630 Legge 26 luglio 1975, n. 354 artt. 4 bis, 58 ter
2.4.2021 – Intervista a Giovanni Fiandaca: “Chi non si pente è mafioso per sempre? Roba da lombrosiani” A pochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, riflettiamo insieme a Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, sulle polemiche scaturite recentemente soprattutto da parte della magistratura antimafia. In particolare, in merito alle dichiarazioni di Nino di Matteo, Fiandaca ci dice: «Egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafiae o meglio sub specie antimafiae: il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole».
Professore innanzitutto come giudica la posizione assunta dall’Avvocatura dello Stato la scorsa settimana davanti ai giudici costituzionali chiamati a decidere nuovamente sull’ergastolo ostativo? È verosimile che l’Avvocatura dello Stato abbia preso atto della fondatezza difficilmente contestabile delle argomentazioni poste alla base della eccezione di costituzionalità sollevata dalla Corte di Cassazione. Del resto, queste argomentazioni derivano da un coerente sviluppo dei principi affermati dalla stessa Corte Costituzionale nella ormai celebre sentenza 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi premio. Qualcuno sospetta anche che l’Avvocatura dello Stato abbia potuto ricevere un input da parte della Ministra Cartabia, una costituzionalista notoriamente sensibile ai diritti fondamentali dei detenuti e quindi anche ad un eguale riconoscimento del diritto alla rieducazione a prescindere dal fatto che si tratti di detenuti comuni o detenuti mafiosi.
Ritiene che il tempo che si sono presi i giudici per decidere dopo Pasqua possa anche derivare dalla pressione mediatica che si è scatenata al termine dell’udienza? Non ho elementi per affermarlo né per escluderlo. In realtà la questione oggetto di decisione è molto impegnativa e come sappiamo all’interno della stessa Consulta non c’è piena concordanza di vedute sull’ergastolo ostativo, come è anche emerso in occasione della precedente sentenza costituzionale; per cui è possibile che i tempi lunghi di elaborazione della decisione non siano dovuti soltanto al peso esercitato da pressioni e preoccupazioni esterne.
In un articolo di due giorni fa sul Fatto Quotidiano Piercamillo Davigo ha scritto: «Quando si considera che cosa è accaduto a magistrati italiani nonostante le protezioni, sarà possibile far comprendere perché, qui e ora, sia preferibile che in questa materia la discrezionalità del giudice sia sostituita dal divieto di legge, per evitare minacce e pressioni irresistibili su coloro che devono decidere o sui loro familiari. Almeno finché ci saremo liberati dalle mafie». Che ne pensa di questa affermazione? Ho letto l’articolo di Piercamillo Davigo, il quale peraltro muove un’obiezione tipica e ricorrente della magistratura antimafia maggioritaria. Ma si tratta di una obiezione che se fosse valida dovrebbe valere non solo per i magistrati di sorveglianza ma per tutti i magistrati – sia pubblici ministeri, sia giudici – che trattano delitti di mafia. Su ogni magistrato incombe infatti il rischio di essere ucciso a causa di indagini, provvedimenti o decisioni sgradite al potere mafioso. E poi paventare i rischi di condizionamento o di minacce e pressioni irresistibili soprattutto in relazione alla discrezionalità valutativa dei magistrati di sorveglianza fa trasparire una sfiducia o diffidenza preconcetta verso questa categoria di magistrati, come se fossero di serie b ma si tratta di una discriminazione negativa ingiustificata ed ingiusta.
Sempre dal Fatto Quotidiano si è espresso Gian Carlo Caselli: «La realtà esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreale». Come si concilia questo con il diritto alla speranza? Con tutto il rispetto per Gian Carlo Caselli, anche lui ribadisce una convinzione consolidata dell’antimafia giudiziaria, cioè che non possa esservi credibile rieducazione del mafioso senza collaborazione giudiziaria. Ma non è così per diverse ragioni che sarebbe lungo esplicitare in questa intervista. È la stessa realtà vissuta e giudiziaria a dimostrare che in più di un caso il rifiuto di collaborare con la giustizia è dovuto a motivazioni psicologiche, come ad esempio la paura di ritorsioni, o a ragioni di coscienza, come ad esempio l’indisponibilità a denunciare persone care, ben compatibili con un maturato ravvedimento. Ritenere invece che il mafioso resti interiormente mafioso per sempre, a meno che non si penta e diventi collaboratore, equivale a riproporre vecchi schemi da criminologia positivista ottocentesca se non addirittura lombrosiana. E significa oltretutto contraddire la visione antropologica a sfondo più ottimistico che pessimistico sottostante al principio costituzionale di rieducazione: secondo la Costituzione, infatti, nessun uomo è perduto per sempre e ogni delinquente è potenzialmente capace di cambiamento e miglioramento.
Una reazione dura è stata anche quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo: «Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone. Un’eventuale sentenza di accoglimento della Consulta, infatti, aprirebbe la strada di fatto alla possibile abolizione dell’ergastolo, cioè uno dei punti inseriti nel papello di Totò Riina, la lista di richieste allo Stato per fermare le stragi del 1992 e 1994». Non le sembra esagerato ipotizzare un simile scenario? La posizione di Di Matteo è ben nota. A parte il radicato pregiudizio antitrattivistico, egli assolutizza in maniera incondizionata la lotta alle mafie, finendo implicitamente anche col leggere tutta la Costituzione sub specie mafia e o meglio sub specie antimafiae: il che non sembra costituzionalmente plausibile e ragionevole.
Perché a certi magistrati sfugge la cornice complessiva di un diritto penale costituzionalmente orientato? La loro è pure demagogia o mancanza di cultura garantista? Tra i nodi problematici della giustizia penale italiana vi è la mancanza di una concezione sufficientemente condivisa dei principi e valori del costituzionalismo penale: a seconda che si rivesta il ruolo di magistrato giudicante, magistrato d’accusa, magistrato antimafia, o magistrato che si occupa di criminalità comune, il bilanciamento tra le esigenze della tutela della sicurezza e della difesa sociale dalla criminalità da un lato, e le garanzie e diritti individuali dall’altro viene compiuto in modo differenziato. Ho più volte rilevato in riviste specialistiche che, se può risultare proficua una articolazione di orientamenti che si mantenga nei limiti di un pluralismo moderato e ragionevole, è invece dannoso e non poco disorientante agli occhi dei cittadini un pluralismo sfociante in contrapposizione tra culture giudiziarie così agli antipodi da risultare inconciliabili. Su questo eccesso di pluralismo dovrebbe intervenire e lavorare la Scuola della Magistratura sul piano della formazione culturale e tecnica dei magistrati.
Le associazioni delle vittime di mafia, opponendosi ad una possibile decisione di incostituzionalità, hanno voluto sottolineare che stanno ancora piangendo le morti definitive dei loro familiari. Come si può replicare? Ho molta comprensione e rispetto per il dolore e le ferite delle vittime. Ma purtroppo anche per esperienza personale ho sperimentato che la punizione severa del colpevole non è una medicina risolutiva, perché reca un sollievo superficiale e poco duraturo. In realtà nel cuore delle vittime si agitano sentimenti complessi e contraddittori. Per questo tra noi studiosi è affiorata anche l’idea che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, ma da affidare alla competenza di esperti psicologi in grado di aiutare ad elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati. In ogni caso, un approccio accentuatamente vittimocentrico comporta il rischio di una privatizzazione della risposta penale, mentre lo Stato che punisce è costituzionalmente tenuto a mediare tra valori ed esigenze concorrenti a favore, piaccia o non piaccia, anche dei colpevoli. IL RIFORMISTA
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30.3.2021 – Lettera di Piera Aiello a Mattarella contro libertà condizionale ai boss sulla condanna all’ergastolo
Egregio Signor Presidente,
mi rivolgo a Lei nella mia veste di testimone di giustizia che, negli anni, ha contribuito, al costo di enormi sacrifici, alla lotta dello Stato contro la mafia, e che ora teme l’ennesima sconfitta delle istituzioni di fronte alle minacce del crimine organizzato.
Come lei ben sa Presidente, ci sono decisioni che segnano confini invalicabili, senza lasciare spazio a compromessi. Da testimone di giustizia lo so bene, perché ho fatto una scelta che non prevede mezze misure né facili ripensamenti.
Conosco, come tanti altri, il peso di un’esistenza nascosta, la paura per la mia vita e per quella dei miei affetti più cari. Ho toccato con mano la violenza brutale della mafia e la sua tracotante prepotenza. Eppure ho scelto di non rassegnarmi. Con enorme sacrificio ho abbandonato la mia vita precedente, il mio lavoro, la mia casa e la mia terra: è il prezzo che si paga se non si vuole piegare la testa, se si ha il desiderio di restare liberi, di contribuire a debellare le mafie e di sentirsi cittadini e non sudditi. Tra quelli come me c’è chi ha perso il marito o un figlio, un fratello o un padre. E so bene che anche Lei, signor Presidente, conosce il dolore lancinante di una perdita ingiusta. Le nostre sono ferite ancora aperte, subite in una battaglia che abbiamo scelto di combattere senza rimorsi. Per questo l’indignazione mi spinge a raccogliere tutte le mie forze per cercare di evitare l’ennesima resa dello Stato di fronte al crimine organizzato. Mi riferisco all’imminente pronuncia della Consulta sulla costituzionalità delle norme che regolano l’ergastolo ostativo.
Signor Presidente, tra i principi che non ammettono mediazioni possibili, per me c’è anche la convinzione che a un condannato all’ergastolo non si possano concedere i benefici previsti dalla legge, senza che lo Stato pretenda in cambio la collaborazione con la Giustizia. Sono consapevole di quanto sia disperante una condanna all’ergastolo. Non ignoro lo scopo primario del carcere come strumento rieducativo, sia chiaro. Fine pena mai: è certamente un’espressione spaventosa, definitiva, disarmante.
Ma definitive sono anche le morti che molte vittime di mafia stanno ancora piangendo. E se a fronte di una condanna così gravosa non si intravvede un ravvedimento o almeno la volontà di collaborazione – possibilità sempre concessa ai condannati – francamente non posso accettare che sia lo Stato a retrocedere per primo. Resto convinta che le responsabilità di reati così terribili, assieme alle loro conseguenze, non possano che ricadere su chi li commette. Il mio non è un desiderio di vendetta, piuttosto l’esigenza di tutelare la società civile.
C’è chi sostiene che un’eventuale sentenza di incostituzionalità non sarebbe affatto lesiva della memoria dei servitori dello Stato morti per combattere la mafia. Beh, Maria, la sorella di Giovanni Falcone – tanto per fare un esempio – non la pensa così. E lo stesso vale per Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Lo hanno scritto e ripetuto più volte in questi giorni. Onestamente, e per quello che vale, non mi risulta che qualche vittima di mafia o familiare di vittime la pensi in questo modo.
Chiedo si rifletta sul fatto che forse non siamo noi, in questo caso, a doverci uniformare alla legislazione europea. Che evidentemente non si fonda sulle condizioni che hanno spinto giudici coraggiosi e servitori dello Stato a suggerire quelle norme.
Mi domando se alla fine il vero obiettivo non sia smantellare del tutto l’impianto di contrasto alla mafia costruito con fatica in questi anni. Con il rischio di arrivare ad abolire il carcere duro e assecondare i desiderata che Salvatore Riina elencò nel suo famoso “papello”.
Un rischio che non possiamo correre e per evitare il quale sono disposta a lottare fino a che avrò forza.
Mi permetto di invitarLa a domandarsi se sia davvero possibile rilasciare un boss, supponendo che non sia più in grado di esercitare il suo potere perché troppo in là con gli anni. Davvero si ritiene che un capo mafia possa tornare a casa sua senza nuocere a nessuno? O non sia capace di ottenere perizie false pur di rientrare al proprio posto?
Una decisione favorevole a chi ritiene incostituzionali alcune norme getterebbe nella disperazione molte famiglie, ma soprattutto, aumenterà la sfiducia dei cittadini. A quel punto, in troppi si convinceranno che la mafia non si può vincere e che non sia possibile ottenere giustizia dallo Stato.
Pur consapevole dell’assoluta autonomia di giudizio della Consulta, mi auguro voglia accogliere questo mio grido di allarme. Per quanto mi riguarda, sapendo che qualunque direzione prenderà la Corte Costituzionale la mia idea non cambierà, continuerò a lottare a favore della legalità e della giustizia.
La ringrazio per l’attenzione, Signor Presidente, e le porgo i miei più cordiali saluti. Con sincera stima. PIERA AIELLO
25.3.2021 – PIERA AIELLO: Alcune considerazioni sulla questione dell’ergastolo ostativo per i non pentiti in vista della decisione Consulta. 1) «Il governo – ha puntualizzato l’avvocato di Stato – non può non tenere in debita considerazione» la «sentenza Viola della Corte europea dei diritti dell’uomo (incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’articolo 3 della Convenzione europea: condanna per l’Italia del 13 giugno 2019 sul caso di Marcello Viola, recluso a vita al 41bis)». L’Ue poi ci chiede l’allineamento normativo (cui ha fatto riferimento anche il Ministro Cartabia) della legge vigente rispetto al fine pena mai, ovvero all’ergastolo. Il punto, però, è che questo in Italia non è possibile. Perché viviamo a contatto con il dramma della criminalità organizzata. Un fenomeno crimino-sociale nato qui, dove è radicato come in nessun altro Paese. Si pensi solo alla mafia che abbiamo esportato in tutto il mondo. Tra l’altro si fa riferimento a fattispecie che gli altri paesi europei non hanno. L’ergastolo ostativo non deve intendersi come una “ritorsione” dello Stato, ma semplicemente come una “punizione speciale“. Serve cioè a cristallizzare la coazione che si materializza con la privazione della libertà personale a vita. L’ergastolo ostativo è perciò, ancora oggi, il mezzo più adeguato di contrasto frontale al crimine associato.
2. L’avvocato di Stato non ha chiesto ai giudici di bollare come incostituzionale le norme che negano la libertà agli ergastolani mafiosi che non collaborano (ci mancherebbe altro), ma di «far decantare ogni forma di automatismo», lasciando al magistrato di sorveglianza la possibilità di giudicare caso per caso e di «verificare in concreto le ragioni di quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio». Cioè si assume come circostanza plausibile che un boss voglia tanto collaborare ma proprio non può e quindi è giusto farlo uscire.
Ma come è possibile? Ha perso la memoria dei crimini commessi in passato? Non riesce a ricordare nomi e circostanze di interesse per chi indaga? La sua organizzazione mafiosa si è ritirata dal business criminale? Qualcuno mi aiuti a capire.
3. In molti fingono di non sapere che, nelle organizzazioni criminali strutturate, un boss non smette certo di comandare per sopraggiunti limiti di età ed è perfettamente in grado di pensare e decidere della vita e della morte delle persone persino dal carcere (quando non è duro). Crediamo davvero che un capo non sia in grado di reclutare medici compiacenti in grado di produrre perizie false? E che quindi – eliminando la condizione di dover collaborare per essere liberati – non tornerà a comandare a casa sua come se nulla fosse? Crediamo davvero che pur non avendo collaborato mai con la giustizia possa uscire e non nuocere a più nessuno solo perché anziano o magari malato?
24.3.2021 – SALVATORE BORSELLINO: Trent’anni dopo averli uccisi, con l’abolizione dell’ergastolo ostativo, stanno per dare il colpo di grazia a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone, stanno per pagare l’ultima e più pesante cambiale sottoscritta nel corso della trattativa, quella che sancisce la resa totale dello Stato di Diritto. E’ la resa totale, lo Stato ha ceduto completamente il passo allo Stato-Mafia, adesso la nostra lotta dovrà diventare una vera lotta di RESISTENZA. NOI non ci arrenderemo. MAI.
24.3.2021 – GIANCARLO CASELLI: “GUAI SE DEPOTENZIANO L’ERGASTOLO AI MAFIOSI” Il mondo è cambiato, ma la mafia non ha fatto che adattarsi; essa è oggi quella che è sempre stata fin dalla sua origine: una società segreta cementata dal giuramento che insegue il potere e il denaro coltivando l’arte di uccidere e di farla franca”. Quel che lo storico John Dickie ha scritto per Cosa Nostra (estensibile alle altre mafie) va condiviso in toto, magari aggiungendo all’arte di uccidere quella di corrompere e di pescare sempre nuovi complici nella inesauribile “zona grigia”. A cambiare siamo invece noi: noi Stato, noi cittadini.
FALCONE PRIMA di essere ucciso a Capaci aveva ispirato il cosiddetto “ergastolo ostativo” per i mafiosi, una normativa di giusto rigore che (combinata col 41-bis, approvato subito dopo le stragi del 1992, e con le norme sui “pentiti”) ha contribuito agli imponenti successi ottenuti dagli inquirenti contro la mafia.
Nel 2019 la Corte costituzionale ha “innovato” la materia, nel senso che il magistrato di sorveglianza può concedere permessi premio a tutti i detenuti condannati al massimo della pena per fatti di mafia. Tutti, anche quelli che non si sono pentiti, cioè non hanno “saltato il fosso” e dato una mano collaborando con la giustizia. In sostanza, una robusta spallata all’ergastolo ostativo e di riflesso al pentitismo, non più decisivo per i benefici. Dunque una spallata a due collaudati capisaldi dell’antimafia. Oggi la Consulta deve stabilire se introdurre un ulteriore cambiamento, così che l’ergastolano mafioso non pentito possa accedere anche alla libertà vigilata. La decisione del 2019 (secondo Giovanni Bianconi) era stata votata con la stretta maggioranza di 8 a 7. Vedremo come andrà a finire questa volta. Certo è che si è già registrato un rilevante cambiamento, nel giro di pochi gironi, da parte dell’Avvocatura dello Stato. In prima battuta essa aveva chiesto alla Consulta di respingere il ricorso del detenuto che aveva sollevato il caso, ora invece ha cambiato avviso, chiedendo alla Corte una sentenza che (senza dichiarare l’incostituzionalità della norma impugnata) la interpreti, nel senso che il giudice di sorveglianza dovrà verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa. L’Avvocatura rappresenta il governo e questo suo ripensamento va appunto collegato al cambio di governo.
RESTA COMUNQUE difficile capire come un delicato problema intrecciato a filo doppio con la lotta alla mafia possa esser diversamente valutato a seconda della bandiera che sventola a Chigi. La cifra con cui l’esecutivo si rapporta alla mafia dovrebbe essere sempre la stessa, tanto più se ci si vanta – come l’attuale governo – di ispirarsi a un sano pragmatismo.Ora non è solo pragmatismo, ma plurisecolare e immutabile realtà della mafia (confermata da esperienze univoche e convergenti) che senza “pentimento” manca ogni segno esteriore di apprezzabile concretezza per poter valutare la possibilità di un effettivo distacco dal clan con conseguenti prospettive di reale recupero. La realtà (il “cemento” di cui parla Dickie) esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell ’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreale. Vero è che il magistrato di sorveglianza può avvalersi di varie informazioni (del carcere, del Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica, del procuratore nazionale e distrettuale antimafia) sull’attualità dei collegamenti. Ma è anche vero e risaputo che questi “contributi” risultano per lo più di facciata. In particolare, soltanto Alice nel paese delle meraviglie potrebbe fidarsi del mafioso che rivendica come titolo valutativo quello di essere stato un detenuto modello, perché il rispetto formale dei regolamenti carcerari non equivale a un inizio di resipiscenza, ma è una regola che il mafioso “doc” si impone proprio in quanto irreversibilmente “doc”. Facile prevedere che i legali degli ergastolani per delitti di mafia sosterranno che costoro non sono liberi di scegliere di collaborare, perché metterebbero in pericolo l’incolumità propria e dei familiari. Ma l’obiezione urta contro la constatazione che ormai da anni lo Stato italiano ha dimostrato coi fatti di essere in grado di proteggere migliaia di pentiti e le loro famiglie. So bene che mi sono guadagnato una grandine di accuse, tipo forcaiolo e manettaro. Ma proprio le VITTIME DI MAFIA ci hanno insegnato che indipendenza significa fare quel che si ritiene giusto. Anche se le “anime belle” vorrebbero altro. FQ del 24 Marzo 2021
24.3.2021 – ERGASTOLO OSTATIVO, MARIA FALCONE: “NON INDEBOLIRE NORME COSTATE SANGUE”. SALVATORE BORSELLINO: “COSÌ È UNA RESA ALLA MAFIA” La sorella del giudice assassinato a Capaci e il fratello di quello ucciso in via d’Amelio intervengono sulla questione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi sulla quale la Corte Costituzionale si pronuncerà dopo Pasqua. La consulta deve decidere se dichiarare incostituzionale o meno la norma che vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale, anche se non collaborano con la magistratura
“Consentire a un mafioso ergastolano che non abbia mai intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia di godere di permessi premio sarebbe un clamoroso arretramento nella lotta a Cosa nostra“. È il commento di Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso a Capaci e presidente della Fondazione che del giudice porta il nome, che interviene sulla questione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi sulla quale la Corte Costituzionale si pronuncerà dopo Pasqua. La consulta deve decidere se dichiarare incostituzionale o meno la norma che vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale, anche se non collaborano con la magistratura. Alla vicenda è stata dedicata l’udienza pubblica del 23 marzo, ma la pronuncia della Consulta arriverà dopo il 5 aprile.
“Nella nostra legislazione ci sono punti fermi come l’ergastolo ostativo e il carcere duro che sono frutto del lavoro e dell’esperienza dei tanti servitori dello Stato che al contrasto ai clan hanno dedicato la vita. – spiega Maria Falcone – Indebolire una normativa costata sangue e sacrifici, che ha portato lo Stato a mettere a segno risultati importanti, sarebbe imperdonabile. Sono certa che la Corte Costituzionale, con la sensibilità che da sempre contraddistingue il suo operato – prosegue – nel decidere non dimenticherà le peculiarità delle mafie italiane che ai tempi indussero il legislatore ad adottare leggi come quella ora in discussione”. La sorella di Giovanni Falcone prosegue spiegando che “legare, come vorrebbero alcuni, la concessione dei benefici carcerari a un generico ravvedimento, indipendente dalla collaborazione con la giustizia del detenuto, è un concetto molto rischioso. Come è pericoloso concedere premialità che possono vanificare gli effetti del carcere duro. Solo un mese fa da un’inchiesta della Dda di Palermo ha dimostrato come un capomafia condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Livatino, al quale erano stati concessi permessi premio, abbia immediatamente colto l’occasione per riprendere le redini della cosca”.
Sulla questione interviene anche Salvatore Borsellino, che invece è il fratello di Paolo e che giudica la posizione dell’avvocatura dello Stato come una “resa incondizionata”, il “pagamento di una cambiale sulla trattativa” e una “diretta conseguenza del cambio di governo. Con il ministro Bonafede e con il governo Conte non sarebbe mai avvenuto”. Quando si era costituita, su input del percedente esecutivo, l’avvocatura dello Stato aveva chiesto più di considerare inammissibile o infondata la richiesta della Cassazione, cioè quella di dichiarare incostituzionale la norma che vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale se non collaborano con la magistratura. Ieri invece, l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia ha invitato la Consulta a emettere una sentenza che in gergo si chiama interpretativa di rigetto: la corte non dichiara incostituzionale la norma sull’ergastolo ostativo, ma riconosce al giudice di sorveglianza il potere di valutare a sua discrezione caso per caso. “Ritengo – dice il fondatore del movimento Agende rosse – sia veramente il colpo di grazia che stanno dando a Borsellino e Falcone dopo averli uccisi. A 30 anni di distanza stanno pagando la più grande e grossa cambiale prevista dalla trattativa”. Il fratello del giudice ricorda come l’abolizione dell’ergastolo ostativo fosse “la più importante richiesta inserita da Riina nel papello e oggi – dice – questa è la più grande resa da parte dello Stato. Una resa incondizionata”. Secondo il fratello del giudice assassinato in via d’Amelio, poi, il cambio di linea dell’avvocatura dello Stato “è una diretta conseguenza del cambiamento del governo perché l’Avvocatura dello Stato che prima aveva dichiarato incostituzionale l’abrogazione adesso affida la decisione su permessi e condizionale al giudice di sorveglianza che in caso li negasse sarebbe esposto in prima persona alla vendetta dei mafioso. E di queste cose ne abbiamo viste tante”. di F. Q. | 24 MARZO 2021
- Il governo cede sulla libertà condizionale ai boss. Avvocatura dello Stato: “Decida il giudice”. Di Matteo: “Così si realizzano obiettivi delle stragi”
- Guai a depotenziare l’ergastolo ai boss che non si pentono. Lo dobbiamo alle vittime di mafia
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24.3.2021 SALVINI: NIENTE SCONTI AI BOSS LO STATO NON PUÒ ARRENDERSI (AGENPARL)– “No a sconti per i mafiosi all’ergastolo. Galera e nessun regalo per chi non si pente e non collabora, come suggerì Giovanni Falcone. Lo Stato non può arrendersi, vanificando anni di impegno contro le organizzazioni criminali. Lo dobbiamo alle vittime, lo dobbiamo a chi combatte i mafiosi, lo dobbiamo ai nostri figli”. Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini: si contano 1.261 condannati a ergastolo ostativo (il 71% di chi deve scontare il carcere a vita).
24.3.2021 – IL GOVERNO APRE ALLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE – L’avvocatura dello Stato: «Stop agli automatismi». L’avvocata Araniti: «Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologia di detenuti» L’avvocatura dello Stato “apre” alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo ostativo, anche in assenza di collaborazione. Una disponibilità non totale, ma subordinata alla valutazione, da parte del magistrato di sorveglianza, delle ragioni «che non consentono di realizzare quella condotta collaborativa nei termini auspicati dallo stesso giudice decidente». Un punto di vista espresso ieri, nel corso dell’udienza davanti alla Corte costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità delle norme sull’ergastolo ostativo: alla libertà condizionale, infatti, possono accedere tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere, ma non i condannati per reati come terrorismo e mafia, a meno che non decidano di collaborare con la giustizia, come previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La posizione del governo è quella di tenere in vita la norma, ma con una formula di rigetto interpretativo che tenga conto dello “stop” agli automatismi sulla collaborazione, stabilito nel 2019 sia dai giudici di Strasburgo, nella causa “Viola contro Italia”, sia dalla Consulta, allora chiamata a pronunciarsi sulla possibilità, per gli ergastolani ostativi, di usufruire di permessi premio. Una posizione forse figlia del nuovo vento che soffia a via Arenula, oggi occupata da Marta Cartabia, da sempre attenta al mondo del carcere e alla funzione rieducativa della pena. Ettore Figliolia, avvocato dello Stato, ha comunque chiesto alla Corte di dichiarare «inammissibile» o «infondata» la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione, ma attraverso «un’esegesi più corrispondente alla “ratio” delle norme, assicurando uno spazio di discrezionalità al magistrato per verificare le motivazioni della mancanza di collaborazione da parte del condannato». Figliolia ha evidenziato «la peculiarità della liberazione condizionale» rispetto al beneficio dei permessi premio, su cui la Consulta si è pronunciata due anni fa: «Dopo 26 anni un detenuto ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale e, dopo altri 5 anni, la pena è considerata estinta, e il soggetto torna alla piena libertà, senza più alcun debito con la giustizia. Va considerata l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare l’ordine nel proprio territorio e nella valutazione di opposti interessi e va verificato come la liberazione condizionale deve atteggiarsi rispetto alla volontà del legislatore di dare significato alla condizione collaborativa». Quindi, può essere possibile «far decantare ogni forma di automatismo – ha osservato – e consentire al giudice di sorveglianza di verificare le motivazioni per cui il condannato non può assicurare una condizione di collaborazione» con la giustizia. Secondo la Cassazione, il dubbio di costituzionalità trova fondamento «nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata a indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale». Altrimenti, secondo il giudice rimettente, si rischierebbe «una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario». Il caso è quello di Francesco Pezzino, condannato all’ergastolo per reati di mafia e ormai in carcere da più di 30 anni, essendone passati tre dalla richiesta di accesso alla libertà condizionale. «Per qualsiasi tipologia di reato, per quanto grave possa essere, la Costituzione ci invita a mettere al centro del sistema l’uomo con le sue fragilità, con i suoi errori, con le sue debolezze ma anche con la sua capacità di redenzione – ha evidenziato Giovanna Beatrice Araniti, difensore di Pezzino -. Non è possibile suddividere i soggetti in categorie ritenendo alcuni aprioristicamente ed automaticamente non risocializzabili, attraverso un’etichetta fondata sul mero titolo di reato. Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologia di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato». Facendosi portavoce dell’appello dei 1271 condannati all’ergastolo ostativo – il 71% di chi sconta il fine pena mai – e che «chiedono di avere l’opportunità di dimostrare di essere persone diverse», Araniti ha sottolineato come il termometro del cambiamento non possa essere determinato dalla collaborazione con la giustizia. Sono tanti, ha sottolineato, i pentiti «blasonati» che sono tornati a delinquere, mantenendo i rapporti con le organizzazioni criminali di origine. «Questo a riprova che quella equivalenza non esiste e che c’è la possibilità di una valutazione dei progressi dell’individuo basata su un parametro diverso», ha aggiunto, ricordando il diritto al silenzio costituzionalmente garantito, che nasce direttamente dal diritto di difesa. «Ci sono casi inquietanti di revisioni e scarcerazioni dopo 30 anni, come Giuseppe Gulotta. Ecco perché – ha concluso – bisogna anche guardare alle ricadute pratiche di questa preclusione assoluta». IL DUBBIO
APERTURA DELL’AVVOCATURA I STATO L’Avv. Figliolia: «Eliminare ogni automatismo». Udienza pubblica in Corte costituzionale, oggi la sentenza Un varco c’è, nell’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ad agevolare la spinosa decisione della Corte costituzionale – attesa per oggi – chiamata dalla Cassazione a pronunciarsi sulla legittimità dell’unica pena del nostro ordinamento che preclude ogni possibile liberazione condizionale, comminata a quei condannati che non collaborano con la giustizia, ci ha pensato la stessa avvocatura dello Stato. A sorpresa, l’avv. Ettore Figliolia, rappresentante del governo, nell’udienza pubblica di ieri mattina in Consulta ha trasformato le proprie conclusioni rinunciando alla pura e sola richiesta di giudicare inammissibile o infondata la questione di costituzionalità sollevata sul caso di un uomo condannato per mafia che dopo 30 anni di carcere «si ritrova – ha spiegato la sua legale – a non poter avere una valutazione dei suoi progressi da parte del tribunale di sorveglianza» perché si è sempre rifiutato di collaborare. L’avvocato di Stato ha aperto invece un varco possibile, chiedendo ai giudici di non bollare come incostituzionale le norme (art. 4bis e 58ter o.p.; legge 203/91) ma al tempo stesso di «far decantare ogni forma di automatismo», lasciando al magistrato di sorveglianza la possibilità di giudicare caso per caso e di «verificare in concreto le ragioni di quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio». Un cambio di passo necessario perché, come ha spiegato lo stesso avvocato Figliolia, questa causa approda in Consulta (giudice relatore Nicolò Zanon) dopo l’importante sentenza che ha giudicato incostituzionale vietare i permessi premio agli ergastolani ostativi non “pentiti” e ha concesso l’ultima parola appunto al giudice di sorveglianza. Una decisione, quella, presa nell’ottobre 2019 da un Collegio di cui faceva parte l’attuale ministra di Giustizia Marta Cartabia, prima che diventasse lei stessa presidente della Corte costituzionale. «Il governo – ha puntualizzato l’avvocato di Stato – non può non tenere in debita considerazione sia i principi evocati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019, che della sentenza Viola della Corte europea dei diritti dell’uomo (incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’articolo 3 della Convenzione europea: condanna per l’Italia del 13 giugno 2019 sul caso di Marcello Viola, recluso a vita al 41bis, ndr)». In questo caso però, a differenza dei permessi premio, secondo l’avv. Figliolia, va tenuta in conto «l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare ordine sul proprio territorio, evitando che chi si è macchiato di gravi reati possa tornare a delinquere mettendo in pericolo la collettività». Eppure, fa notare l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti che rappresenta il mafioso condannato sul cui caso si leva il dubbio della Cassazione, «non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologie di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato». «Non si può mai rinunciare» alla funzione rieducativa della pena, né tanto meno «etichettare questa categoria di detenuti come non risocializzabili», segnarli con una «lettera scarlatta». Impedire loro di poter «dimostrare di essere diventati persone diverse». Inoltre, sottolinea l’avvocata Araniti, il sicuro ravvedimento del condannato «non può essere misurato con la collaborazione con la giustizia», come dimostrano i casi di «collaboratori di giustizia blasonati» che una volta scarcerati sono invece tornati a delinquere. Adesso, ha spiegato lunedì il sottosegretario alla giustizia Paolo Sisto durante un webinar organizzato dall’Università Roma Tre, «attendiamo, per avere chiarezza, la sentenza della Corte sul tema, per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario». Sisto ha puntualizzato che il governo sulla giustizia non vuole «appoggiarsi» ai decreti ma procedere con «adeguato dibattito parlamentare». Il manifesto
22.3.2021 – ERGASTOLO OSTATIVO, LIBERTÀ CONDIZIONALE ANCHE PER I MAFIOSI CHE NON COLLABORANO? LA CONSULTA VERSO IL VERDETTO. A RISCHIO IL CARCERE DURO INVENTATO PER I BOSS DELLE STRAGI Dopo la sentenza della Cedu e quella della stessa Consulta sui permessi premio, adesso la corte dovrà esprimersi sul caso di un mafioso che vuole accedere alla libertà vigilata senza collaborare. All’udienza pubblica sarà rappresentato da un’avvocata che è anche figlia di un boss della ‘ndrangheta. “Ma quella – dice – è una vicenda privata, non c’entra niente con la questione della Consulta dove io interverrò da semplice avvocata. Qui il cuore della questione è il diritto al silenzio”. Il sottosegretario Sisto: “L’ergastolo non deve essere legato alla collaborazione con la giustizia”. Sperano i boss irriducibili, a partire dai Graviano
Un altro colpo all’ergastolo ostativo, un’altra picconata al carcere inventato per i boss delle stragi. È quello che potrebbe arrivare martedì dalla corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla possibilità di chiedere la liberazione condizionale anche per i condannati all’ergastolo ostativo. È la cosiddetta “libertà vigilata” e può essere chiesta da tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere. Tutti tranne appunto quelli all’ergastolo ostativo, cioè i condannati per reati di tipo mafioso, per terrorismo ed eversione che non intendono collaborare con la magistratura. Il tema è delicato e dalle conseguenze impreviste dopo le sentenze del 2019: prima la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva chiesto all’Italia di riformare l’intera norma sull’ergastolo ostativo, poi la stessa Consulta aveva giudicato incostituzionale il divieto di accedere ai permessi premio per i boss che non collaborano. Due crepe nella normativa che disciplina il fine pena mai per i boss irriducibili. Crepe che con la sentenza di martedì rischiano di allargarsi ulteriormente. Lanciando un segnale diretto nei bracci più blindati dei penitenziari italiani, dove sono reclusi gli ultimi uomini delle stragi: dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola.
Sulla vicenda la Consulta terrà un’udienza pubblica, visto che il 9 marzo scorso il presidente, Giancarlo Coraggio, ha riammesso la parte privata esclusa in un primo momento: a causa della restrizioni anti-Covid, infatti, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti non aveva potuto recarsi in carcere per ottenere in tempo utile la procura speciale del suo assistito, Salvatore Francesco Pezzino. “Quello che si chiede è l’opportunità di fare una valutazione sul percorso di una persona. Il cuore della questione è il diritto al silenzio, che va garantito anche nella fase esecutiva”, dice l’avvocata Araniti, spiegando che “il nostro ordinamento garantisce all’imputato la possibilità di non autoaccusarsi. Quindi un soggetto non può essere costretto a collaborare a tutti i costi per uscire dal carcere. Poi se la collaborazione c’è ben venga, soprattutto se è sincera“.
Penalista di grande esperienza, l’avvocata Araniti è figlia di Santo Araniti, considerato uno degli storici boss della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lodovico Ligato, l’ex deputato della Dc e presidente delle Ferrovie dello Stato assassinato nel 1989. Nel marzo del 2019 Araniti senior è finito di nuovo sui giornali, perché la procura di Reggio Calabria lo aveva inserito tra gli indagati della nuova inchiesta sull’omicidio di Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale della Cassazione ucciso nel 1991, quando stava preparando la richiesta di rigetto dei vari ricorsi dei superboss di Cosa nostra condannati al Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Mio padre ha chiesto la revisione e ha avuto tre annullamenti dalla Cassazione per l’omicidio Ligato. Abbiamo fatto ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo, vedremo come andrà a finire. Ma questa è una vicenda privata, non c’entra niente con la questione della Consulta dove io interverrò da semplice avvocata”, dice la figlia, sottolineando come il suo genitore non beneficerebbe di una eventuale sentenza favorevole della Consulta. “Il reato per il quale è stato condannato mio padre risale all’89 invece la normativa è a partire dal ’91 e i tribunali hanno decretato il divieto di retroattività della legge più sfavorevole”. In carcere dal 1994, al 41bis fino al 2008, Araniti senior ha già scontato 26 anni e mezzo di carcere: dunque, potrebbe già chiedere la libertà condizionale. Ma non lo ha ancora fatto. “Aspettiamo la decisione sulla revisione e poi vedremo”, dice la legale. Che sull’udienza della Consulta ha buone sensazioni: “I presupposti ci sono, però poi bisognerà vedere cosa ne penserà la corte. È sbagliato dire che in caso di sentenza favorevole escono tutti i soggetti condannati per mafia, non è così. Quello che si chiede è l’opportunità di valutare il percorso di una persona, tutti possono essere rieducati senza pretendere la collaborazione a tutti i costi“. di Giuseppe Pipitone |
22.3.2021 CARCERE. ERGASTOLO AL VAGLIO DELLA CONSULTA. MESSO IN DUBBIO 70 ANNI FA DA UN CATTOLICO Oggi la sentenza sull’esclusione dalla liberazione condizionale in assenza di collaborazione dei condannati per mafia. Il direttore “illuminato” del carcere di Santo Stefano, Eugenio Perucatti C’è qualcuno che, quasi 70 anni fa, aveva già chiara la contraddizione tra l’articolo 27 della Costituzione, quello sul fine rieducativo della pena, e l’ergastolo ostativo. Era Eugenio Perucatti, direttore del carcere di Santo Stefano, l’isolotto dell’arcipelago pontino prospiciente Ventotene. Un cattolico illuminato e riformista che trovava disumano e controproducente il “fine pena mai”. A riaprire il dibattito arriva la riedizione della sua opera del 1955 Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata, per i tipi di Editoriale Scientifica, curata dal prorettore dell’Università degli studi Roma Tre, Marco Ruotolo.
La presentazione online del volume arriva alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale, che proprio oggi si pronuncia sul ricorso della I sezione penale della Corte di Cassazione circa l’esclusione dalla liberazione condizionale, in assenza di collaborazione con la giustizia, per i condannati per reati di mafia. Un pronunciamento che può riguardare 1.271 condannati attualmente all’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di revisione della pena, tra i circa 1.700 detenuti a questa forma detentiva. A introdurre il webinar per il lancio della riedizione anastatica del volume di Perucatti è stato un estratto di Fine pena mai, il documentario di Salvatore Braca dedicato ai due secoli di storia del carcere borbonico di Santo Stefano, proiettato alla Festa del Cinema nel 2020 (il cui trailer, con l’intervista allo storico locale Salvatore Schiano, illustra questo servizio, ndr).
Il professor Marco Ruotolo ricorda che Perucatti, direttore dal 1952 al 1960, volle applicare come norma operativa la giovane Costituzione, per superare l’allora vigente regolamento penale fascista del 1931. Al suo arrivo aveva definito il penitenziario borbonico «tomba dei vivi». Un luogo carico di storia, dove erano passati i patrioti risorgimentali Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, gli antifascisti Umberto Terracini e Sandro Pertini. Proprio Settembrini avrebbe poi definito l’ergastolo «cieca e spietata vendetta, né utile né cristiana». La vicina Ventotene sarebbe stata luogo di confino durante il ventennio mussoliniano. «Quando arrivò a Santo, Stefano Perucatti creò un campo di calcio – ricorda Ruotolo – invitando per una radiocronaca Nicolò Carosio, ma anche un cinema aperto ai ventotenesi, e perfino una foresteria per i parenti in visita dove incontrare in modo riservato il familiare detenuto». A Santo Stefano il direttore visse assieme alla sua famiglia, moglie e dieci figli. Per il più piccolo scelse come bambinaio Pasquale, condannato all’ergastolo per uxoricidio.
Per Silvia Costa, Commissario straordinario del governo per il recupero dell’ex carcere, «Perucatti anticipò di vent’anni la riforma carceraria, rivoluzionando la vita di detenuti, secondini, familiari». Costa racconta del ventaglio di iniziative tese alla messa in sicurezza del singolare edificio penale, in vista di un recupero strutturale: carcere all’avanguardia per l’epoca, in tempi in cui gli ergastolani finivano spesso in micidiali celle sotterranee, è un panopticon con una pianta sovrapponibile a quella del coevo teatro San Carlo di Napoli che permetteva alle guardie il controllo visivo con uno sguardo di 99 celle, disposte a semicerchio su tre piani, come palchi teatrali. Tra i progetti allo studio ci sono la costruzione di un approdo sicuro, per permettere l’accesso continuo all’isolotto, oggi possibile quasi solo d’estate col mare calmo, poi un museo da intitolare a Perucatti, ma anche un centro di formazione civica europea per giovani, con annesse strutture ricettive, in sintonia con la vocazione europeista della vicina Ventotene. Cioè il luogo in cui Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, al confino politico, ebbero l’intuizione profetica di scrivere, già nel 1941, il Manifesto per un’Europa libera e unita. A riprova della portata innovativa del riformismo carcerario del direttore, Silvia Costa racconta come «a Santo Stefano in quegli anni arrivò una delegazione svedese per conoscere questa esperienza innovativa».
Concorda Giovanni Salvi, Procuratore generale della Corte di Cassazione: «È stato un innovatore, un uomo moderno, ma anche un uomo “antico”: è la fede cattolica che motiva Perucatti a interpretare la rieducazione come redenzione». Quando doveva rivelare l’ottenimento della grazia ottenuta per un detenuto, «faceva arrivare da Ventotene la Madonna pellegrina». Ed era convinto che un terzo dei detenuti non avrebbe dovuto essere lì, «perché condannati con riti processuali precedenti alla Costituzione, senza appello né attenuanti».
Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, spiega che «Perucatti a fianco di Cesare Beccaria metteva don Antonio Rosmini e i santi». E sottolinea la sintonia attuale con la ministra di Grazia e giustizia Marta Cartabia: «Alle Commissioni in Parlamento la ministra Cartabia ha detto espressamente che la certezza della pena non è la certezza del carcere. Che, per la sua natura anti-socializzante, deve essere invocato come extrema ratio». Non fosse altro perché «la rieducazione, lo dicono le statistiche, serve a prevenire nuovi crimini».
22.3.2021 – CARCERI: SOTTOSEGRETARIO SISTO, ‘ELEMENTO OSTATIVO NON PUÒ DERIVARE DA SCELTA COLLABORARE AdnKronos“L esecuzione della pena – spiega – è legata alla prevenzione stessa. Se questo è vero noi non dobbiamo trattare il tema dell ergastolo ostativo come se fosse un dibattito tra Antigone e Creonte, ossia tra individuo e Stato, tra legge e giustizia. L ergastolo non deve essere legato alla collaborazione con la giustizia: io posso non collaborare ma aver rescisso i rapporti o collaborare e non averli rescissi. Un elemento ostativo non può derivare da una scelta processuale di collaborare o non collaborare”. Rispondendo alla domanda sulle tante carceri in Italia che sono tombe per bambini vivi, minori condannati molto spesso senza aver commesso alcun reato, il sottosegretario ha affermato: “A tal proposito il governo si impegna a 365 gradi. Non c è qualcosa che non si farà. Il punto è il tempo, perché questo è un governo che non intende mettere in atto alcuna forzatura legislativa, e che quindi non vuole appoggiarsi a decreti legge. Organizzeremo un dibattito parlamentare adeguato.
24.10.2019 – LA CORTE COSTITUZIONALE VIETA L’ERGASTOLO OSTATIVO. SIGNIFICA CHE ANCHE PER I REATI DI MAFIA SARÀ POSSIBILE CONCEDERE PERMESSI E ALTRI BENEFICI. I DETTAGLI.L’ergastolo ostativo, cioè senza permessi premio, è incostituzionale poiché troppo severo. Questa pena consiste nella detenzione a vita senza alcun beneficio per buona condotta e si applica solo in caso di reati gravissimi, come stragi e omicidi di stampo mafioso.
La decisione della Corte Costituzionale arriva dopo la sentenza di condanna della Corte di Strasburgo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale aveva condannato l’Italia per i trattamenti disumani riservati a chi viene condannato all’ergastolo ostativo, soprattutto in regime di detenzione 41 bis.
Con questa decisione, la Consulta ha sancito la parziale incostituzionalità dell’articolo 4, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi e altri benefici per buona condotta a chi sta scontando l’ergastolo ostativo.
Dunque da oggi in poi anche i condannati per strage e reati di mafia come l’associazione di tipo mafioso potranno allontanarsi dalla cella per periodi limitati.
ERGASTOLO OSTATIVO INCOSTITUZIONALE: DA OGGI PERMESSI PREMIO ANCHE AI MAFIOSI Arriva dalla Corte Costituzionale una decisione destinata a far discutere molto: l’ergastolo ostativo non è più ammesso, poiché disumano e contrario ai principi costituzionali ed europei sui diritti dell’uomo.
Attualmente l’Ordinamento penitenziario prevede che chi è stato condannato all’ergastolo ostativo non può ottenere i permessi per buona condotta che invece sono concessi nell’ipotesi di ergastolo semplice.
La Consulta della Corte Costituzionale invece ha deciso che per la forma più severa di detenzione a vita debbano esserci i permessi premio; questi saranno disposti su ordine del giudice e solo se il condannato abbia dimostrato una partecipazione positiva al percorso di rieducazione, anche senza pentimento, e non ci sia il sospetto di contatti con la criminalità organizzata.
LA DISCIPLINA DELL’ERGASTOLO L’ergastolo, cioè la detenzione a vita, è la pena più severa prevista dal nostro ordinamento penale e viene comminata nei confronti di persone caratterizzate da notevole pericolosità sociale.
La pena dell’ergastolo è prevista per una ristretta cerchia di reati, i più gravi: l’omicidio, tutti i reati per i quali era prevista la pena di morte (come l’alto tradimento nei confronti dello Stato), i reati di stampo mafioso e per i delitti la cui pena minima è fissata a 24 anni di detenzione.
Inoltre, l’ergastolo viene applicato anche ai mafiosi condannati a scontare l’ergastolo ostativo (cioè senza alcun beneficio o misura premiale) quando questi decidono di collaborare con la giustizia indicando nomi e fatti utili allo svolgimento delle indagini.
L’ergastolo è disciplinato dall’articolo 22 del Codice Penale, dove si legge:
“La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli istituti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno.”
Si tratta di una previsione normativa molto contestata sia sul piano interno che sul piano internazionale (come approfondiremo più avanti) in quanto contrastante con la funzione rieducativa della pena, sostenuta sia in ambito italiano che europeo. Secondo i sostenitori di questa tesi, infatti, l’ergastolo non sarebbe altro che un residuo delle antiche punizioni esemplari per le fattispecie di maggiore gravità con il fine di fungere da deterrente per il resto della popolazione.
Tuttavia, dati alla mano, non è affatto vero che nei Paesi dove è previsto l’ergastolo e l’ergastolo ostativo, si sia riscontrato una diminuzione del tasso di criminalità.
ERGASTOLO OSTATIVO: COS’È E DIFFERENZE CON QUELLO SEMPLICE L’ordinamento italiano prevede e disciplina due differenti categorie di ergastolo:
- l’ergastolo propriamente detto;
- l’ergastolo ostativo.
Nel primo caso, ovvero l’ergastolo semplice, la detenzione a vita si accompagna alla concessione di benefici di vario genere, in dipendenza dalla buona condotta del carcerato, come permessi premio, libertà condizionale, detenzione domiciliare e la possibilità di svolgere attività lavorativa all’esterno della struttura penitenziaria.
Invece, l’ergastolo di tipo ostativo, come il nome stesso suggerisce, è una circostanza ancora più severa: infatti al reo non viene concessa la possibilità di alcun beneficio. In ragione della sua durezza, l’ergastolo ostativo ha sollevato in passato seri dubbi circa la sua costituzionalità, in quanto si riteneva fosse contrario all’articolo 27 della Costituzione, dove si legge:
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
Dunque, dove sarebbe la rieducazione nell’ergastolo ostativo?
Nonostante la liceità della domanda, la Consulta ha respinto il dubbio di costituzionalità dell’ergastolo ostativo perché il condannato può comunque beneficiare di sconti premiali se, durante l’esecuzione della pena, decide di collaborare con la giustizia o si verificano altre circostanze particolari. Nonostante questo ammorbidimento, per molti esperti di diritto, l’ergastolo ostativo rappresenta comunque una misura disumana e contraria al dettato della nostra Costituzione. ERGASTOLO E CEDU La pena dell’ergastolo, consentita in Italia ma non in tutti i Paesi dell’area europea, è stata al centro di un acceso dibattito all’interno della Corte Europea dei Diritto dell’Uomo (c.d. CEDU), dibattito che si riaccende a fasi alterne. In particolare, la questione è contenuta nella sentenza n. 3896 del 2013 nella quale la CEDU dichiara la pena dell’ergastolo contraria all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Infatti, la pena a vita viene considerata una vera e propria violazione dei diritti umani, poiché il condannato non può beneficiare della revisione e non c’è alcuna rieducazione sociale.
Dunque, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, considera l’ergastolo un trattamento disumano e degradante, e, quindi, contrario al divieto di tortura dell’articolo 3, che recita:
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamenti inumani o degradanti”.
Nonostante la storica sentenza della CEDU, l’Italia continua ad applicare la pena dell’ergastolo, anche se in circostanze sempre più ridotte.
11.10.2019 – ERGASTOLO OSTATIVO: VIOLA RICORRE ALLA CORTE EUROPEAA ricorrere alla Corte europea è stato Marcello Viola, personaggio di indubbio spessore criminale. Nel dispositivo della Cedu si legge che è stato condannato la prima volta nel 1992 (omicidio, con aggravante mafiosa, andato a sentenza definitiva nel 1999), poi nel 1997 con il processo Taurus, in cui veniva individuato come il boss di una delle due fazioni protagoniste della faida di Taurianova, una sanguinosa lotta per il comando sulle cosche di Radicena e Jatrinoli, due delle contrade da cui è nato l’attuale paese della provincia reggina. È una delle più sanguinose guerre di mafia, consumata tra il 1989 e il 1992. Gli ergastoli della sua fedina penale alla fine diventano quattro. Sconta la pena in regime di massima sicurezza, quello previsto dal 41bis, fino al 2005.
Il “boss-chirurgo”, è soprannominato, per avere conseguito tre lauree – prima in biologia e poi in medicina e chirurgia – durante il periodo in cella. Dal 2000 ha cominciato una battaglia legale per farsi riconoscere la cessazione dei contatti con la sua cosca di riferimento, richieste sempre rigettate in Italia perché non ha mai dato prova di effettiva collaborazione con gli organi inquirenti, stando a quanto riportano le sentenze in Cassazione.
Ergastolo ostativo in Italia, il 4 bis e la Corte costituzionale La materia è delicata perché qui deve necessariamente trovare un punto di equilibrio tra diritti diversi e difficilmente conciliabili: quello dei familiari delle vittime, dei sopravvissuti e della società tutta a che sia “servita giustizia”, quello dei carnefici ad essere condannati a una pena proporzionata e alla possibilità di rientrare in società. Il “fine pena mai” questa opzione non la contempla.
A questo si aggiunge la natura particolare dei reati di cui si occupa, cioè quelli associativi: se non c’è collaborazione con lo Stato – prova evidente della fine delle relazioni con le associazioni mafiose e terroristiche, per loro natura eversive – come si evidenzia la fine del vincolo con i criminali? All’opposto, dopo vent’anni di carcere, può un associato essere ancora considerato tale?
I dubbi di costituzionalità sull’articolo 4 bis non li scopre certo Viola: dispositivi della Cassazione hanno già introdotto gli istituti della collaborazione «impossibile», quando i fatti per cui un condannato sta scontando la sua pena sono già stati acclarati, e «inesigibile», che si riscontra quando un affiliato ha avuto un ruolo marginale in un’organizzazione criminale mafiosa, perciò le sue parole non introducono elementi utili all’indagine.
La Cedu, inoltre, cita l’ordinanza 4.474 del dicembre 2018 in cui già la Cassazione sollecitava un parere della Corte costituzionale in merito al 4 bis. Parere che però arriverà il prossimo 22 ottobre.
Marina Silvia Mori e Valentina Alberta su Giurisprudenza penaleforniscono una lettura qualificata della sentenza. Prima di tutto ricordando la posizione del Governo: dopo la bocciatura del 13 giugno, l’Italia aveva risposto sottolineando le possibili vie d’uscita dal ergastolo ostativo, con i nuovi istituti introdotti dalla Cassazione, la grazia del presidente della Repubblica e l’interruzione per motivi di salute, sottolineando inoltre come l’inserimento lavorativo – e di conseguenza la riabilitazione sociale – sia possibile anche sotto l’ordinamento previsto dal 4 bis. Argomentazioni riconosciute dalla Corte europea, che però ha fatto un passo in più.
Le conclusioni della Cedu sull’ergastolo ostativo «La Corte – scrivono Marina Silvia Mori e Valentina Alberta – parte dal presupposto della gravità del fenomeno mafioso e dalla scelta legislativa di privilegiare le finalità di prevenzione generale e, come prevedibile, segnala come le scelte dello Stato in materia di giustizia penale non siano di competenza della Corte, nemmeno in materia di riesame della pena di modalità di scarcerazione».
L’argomento faceva presupporre che la sentenza avrebbe dato «ampio spazio al margine di apprezzamento statale, di fatto accontentandosi delle generiche rassicurazioni governative».
Invece la Corte arriva ad mettere in discussione di un punto cruciale:
Dubita «dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato».
Aggiunge che la scelta di non collaborare «possa dipendere dal timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri congiunti: di conseguenza la mancanza di collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta libera e volontaria di adesione ai valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione di appartenenza, come già affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 306/1993».
Nel caso dell’ergastolo ostativo l’ordinamento della Repubblica italiana viene prima dell’Europa
Sono delle novità importanti sul piano della giurisprudenza, ma non vincolanti. Possono essere ignorate dai giudici italiani, come ricordano le due autrici nelle conclusioni: l’ordinamento nazionale in questo caso è primario rispetto all’Europa.
Di conseguenza lasciano aperta ogni valutazione sul possibile impatto concreto di tale decisione sulla reale condizione degli ostativi, Viola compreso. Certo, sono un precedente che peserà in particolare sul verdetto della Corte costituzionale del 22 ottobre.
Cos’è l’ergastolo ostativo e a cosa porterà: il dibattito La sentenza ha provocato un’immediata reazione, sproporzionata ed emotiva, perché riguarda un pluriomicida a capo di un clan mafioso. C’è chi la considera un oltraggio alla memoria dei giudici Giovanni Falconee Paolo Borsellino che hanno introdotto le misure speciali antimafia; c’è chi la considera l’ennesima prova di come il fenomeno mafioso non sia compreso all’estero; chi immagina come conseguenza la fine del 41bis (il carcere duro per i boss mafiosi) e capi mafia di nuovo liberi per le città.
Reazioni che però non sembrano prendere troppo in considerazione il tema vero della sentenza: la natura riabilitativa del carcere. L’impianto costruito nel 1992 per punire i mafiosi, dopo anni che il fenomeno era stato ostinatamente negato dalle istituzioni, era particolarmente valido in quel periodo storico.
Rivalutarlo e riammodenarlo, anche in chiave meno punitiva, non significa calpestare la memoria dei magistrati antimafia, né necessariamente fare un favore ai boss. Significa affrontare il fatto che la lotta alla mafia ha compiuto 27 anni e forse merita di essere rivista.
Forse allora era più forte l’ideologia contro lo Stato come motivazione che spingeva ad associarsi (dentro e fuori dalle istituzioni), mentre oggi c’è più che altro l’idea di una convenienza economica e sociale (si parla meno di morti ammazzati per mafia, fa meno paura).
Forse il disegno delle mafie, i loro obiettivi ultimi, non sono più quelli della Trattativa Stato-mafia che ha portato alle stragi del 1992 (una delle pagine più oscure della storia d’Italia). Forse riguarda il mondo intero e non solo un cambio di legislazione in Italia. Solo per fare qualche ipotesi.
Queste riflessioni mettono in discussione alcuni grandi risultati raggiunti e si muovono in un territorio sconosciuto. Però partono da un assunto fondamentale, che è a cuore anche a tutti i magistrati che si sono preoccupati dopo l’uscita della sentenza: rendere più efficace (e quindi anche più “giusta”) la lotta alla mafia.
Ergastolo ostativo e associazione mafiosa Merita un’altra riflessione il tema dell’associazione mafiosa. L’articolo del codice penale che lo individua è preziosissimo (anche se nessuno se ne accorge nel mondo), perché individua la natura eversiva di un tipo specifico di associazioni, quelle mafiose. Ciò che rende i mafiosi tali è la loro adesione a un’organizzazione che vuole sostituire lo Stato, che lo combatte, che si vuole sostituire, imponendosi con la forza e soggiogando le popolazioni sotto il suo controllo. È questo che li rende speciali e per questo il solo associarsi costituisce reato.
Il vincolo di fedeltà che si instaura è talmente forte che la collaborazione, soprattutto di boss di un certo rilievo, è un evento raro, come sappiamo. È certo, come sostengono alcuni, che non ci saranno più collaboratori con un regime più morbido? Difficile sostenerlo, viste le difficoltà che ci sono anche oggi.
Se questa fosse la priorità, invece che rafforzare il regime carcerario e basta, andrebbero studiati a fondo i motivi per il quale ci si associa e ci si dissocia da un’organizzazione criminale. C’è chi lo fa, come la scuola di studiosi che segue le orme di Girolamo Lo Verso (come Antonino Giorgi a Brescia), ma il loro lavoro non è valorizzato a sufficienza.
Se ci fosse interesse per la mafia al di fuori del simbolo, per le mafie oggi, sarebbe un argomento di dibattito pubblico. Se ne parlerebbe sui giornali, se ne discuterebbe nei palazzi della politica. Invece non si fa. Si riconoscerebbe, così, il declino inesorabile di Cosa Nostra, si studierebbe meglio la natura transnazionale ed economica della ‘ndrangheta, ci si domanderebbe di più perché le mafie invece che trattare con lo Stato centrale come 30 anni fa, oggi siedono in piccoli consigli comunali con politici che spesso sono direttamente organici alla famiglia. Per quanto un fenomeno centenario, la mafia non è immutabile. di Lorenzo Bagnoli OSSERVATORIO DIRITTI
8.10.2019 – ERGASTOLO DURO AI MAFIOSI, LA CORTE DEI DIRITTI UMANI DI STRASBURGO RIGETTA IL RICORSO DELL’ITALIA Liana MilellaDiventa operativa la decisione del 13 giugno che giudicava il “fine pena mai” come trattamento inumano e degradante. Il ministro Bonafede: “Non condividiamo assolutamente, faremo il possibile in ogni sede”
Sull’ergastolo “duro” ai mafiosi la Corte dei diritti umani di Strasburgo (Cedu) dà torto all’Italia e non accoglie il ricorso del governo contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il cosiddetto “fine pena mai” in quanto – secondo la giurisprudenza della Corte – a chi è detenuto non si può togliere del tutto anche la speranza di un recupero, ma al soggetto in carcere va riconosciuta la possibilità di redimersi e di pentirsi ed avere quindi l’ultima chance di migliorare la propria condizione.
Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha espresso la sua contrarieta alla decisione della Cedu: “Non condividiamo e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e le ragioni di una scelta che lo Stato ha fatto, tanto anni fa, stabilendo che una persona può accedere anche ai benefici, a condizione però che collabori con la giustizia”. Il guardasigilli ha aggiunto che “noi abbiamo un ordinamento che rispetta i diritti di tutti le persone ma che di fronte alla criminalità organizzata reagisce con determinazione”.
L’Italia, nel ricorso presentato a settembre aveva chiesto che il caso dell’ergastolo ostativo, previsto dall’Articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, fosse sottoposto al giudizio della Grand Chambre, l’organo della Cedu che affronta i casi la cui soluzione può riguardare tutti i paesi della Ue. Lì, ad esempio, fu esaminata la controversia di Berlusconi contro la legge Severino (poi archiviata a seguito della sua riabilitazione) che si riferiva al diritto alla eleggibilità di un parlamentare condannato, quindi un caso che poteva avere riflessi giuridici in tutti gli Stati dell’Unione. In questo caso invece l’Italia, nel suo ricorso, spiega la specificità criminale del nostro Paese, la pericolosità stravista delle mafie, Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta. Il ricorso motiva la ragione delle norme rigide sull’ergastolo spiegando che esse riguardano solo alcuni reati molto gravi – mafia, terrorismo, pedopornografia – e consentono una strategia severa contro chi, aderendo a un’organizzazione mafiosa o terroristica, si pone l’obiettivo di destabilizzare lo Stato.
Ma l’orientamento della Cedu va in tutt’altra direzione. Proprio come dimostra il caso specifico affrontato il 13 giugno e la decisione presa dalla Corte e contestata dall’Italia. Riguardava il ricorso a Strasburgo di Marcello Viola, un capocosca di Taurianova, detenuto per 4 ergastoli a seguito di omicidi, sequestri di persona, detenzione di armi. Ma per la Cedu quell’ergastolo “duro”, che la legge italiana battezza come “ostativo”, nel senso che impedisce la concessione di benefici, viola l’articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni disumane e degradanti, soprattutto nega la possibilità di un percorso rieducativo. Da qui l’invito all’Italia a rivedere la legge. Un invito, si badi, che non ha carattere perentorio, non rappresenta un obbligo, ma produce però come conseguenza una serie di altri ricorsi di detenuti che lamentano condizioni disumane, tant’è che a Strasburgo ce ne sarebbero già altri 24. Inoltre anche la Corte costituzionale italiana, il 23 ottobre, dovrà trattare il caso di Sebastiano Cannizzaro, un altro detenuto per mafia, che protesta per las mancanza di permessi.
In realtà l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (unito al 58ter), più volte rivisto dall’ordinaria stesura del 1975, dà una possibilità al detenuto quando dice espressamente che i benefici – permessi premio, lavoro esterno, misure alternative al carcere, ma non la liberazione anticipata – possono essere concessi solo qualora chi sta in carcere decida di collaborare con la giustizia in modo da rompere in modo definitivo i suoi legami con l’organizzazione mafiosa. L’articolo dell’ordinamento specifica che “i benefici possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”. La ragione profonda dell’ergastolo “duro” sta proprio nel fatto che la specificità di un mafioso è quella di conservare per sempre, una volta affiliato a una famiglia criminale, il suo dovere di obbedienza.
La questione dell’ergastolo ostativo divide profondamente il mondo della cultura giuridica tra coloro che sostengono la necessità di un carcere umano – come l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo e l’ex senatore Luigi Manconi – e chi invece ritiene che aprire le maglie della carcerazione per i mafiosi significhi distruggere anni di politica contro le cosche. Sono soprattutto magistrati antimafia come Piero Grasso, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Luca Tescaroli, a sostenere questa seconda strada. Su cui sono allineati il ministro della Giustizia Bonafede e quello degli Esteri Luigi Di Maio, i quali hanno tentato, negli ultimi giorni, di far comprendere il danno che ricadrebbe sulla lotta alla mafia se l’ergastolo ostativo viene cancellato. Tutti ricordano che Totò Riina, indiscusso capo di Cisa nostra vino alla sua morte, nel “papello” del 1993 in cui poneva le sue condizioni per negoziare con lo Stato citava espressamente l’ergastolo come misura da cancellare. La REPUBBLICA
12.10.2019 Eliminare l’ergastolo ostativo significa arrendersi alla mafiadi Roberto Scarpinato – Pericoloso sostenere che i condannati dei clan non sono liberi di collaborare con la giustizia La sentenza sull’ergastolo ostativo della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Viola contro l’Italia, appare suscettibile di innescare significative ricadute nella politica criminale adottata dallo Stato italiano contro le mafie dopo la drammatica stagione degli anni 1992-1993. In alcuni punti essenziali della motivazione, la Corte afferma infatti principi in grado di destabilizzare delicati meccanismi sui quali si è sin qui imperniata l’efficacia della risposta giudiziaria.
Si afferma infatti che la legislazione italiana viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto i detenuti condannati all’ergastolo ostativo per omicidi di mafia non sono liberi di esercitare la scelta di collaborare con la magistratura così usufruendo, al pari di altri ergastolani, dei benefici penitenziari tra i quali i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale.
Collaborando esporrebbero infatti se stessi e i propri familiari al rischio di gravi rappresaglie. Essi si troverebbero dunque dinanzi a una alternativa drammatica: collaborare rischiando la vita o rinunciare ai benefici di legge. Poiché la scelta del primo polo di tale alternativa equivale a una richiesta inesigibile da parte dello Stato, deve essere data a tali detenuti una terza via, consistente in una dissociazione senza collaborazione.
In ordine al rischio insito nella collaborazione con i magistrati, la Corte dopo avere premesso che il ricorrente aveva deciso di non collaborare per non dovere subire reazioni violente da parte dei suoi ex associati, ha osservato: “Su questo aspetto è opportuno ricordare le dichiarazioni della terza parte L’altro diritto onlus relative alla sua attività di osservazione diretta di detenuti condannati all’ergastolo previsto dall’articolo 4 bis. Secondo questo terzo interveniente, il motivo principale del rifiuto di collaborare con la giustizia consisterebbe nel timore per i detenuti condannati per reati di tipo mafioso di mettere in pericolo la loro vita o quella dei loro familiari. La Corte ne deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata a una scelta libera e volontaria”.
Più avanti la Corte nel ritenere che la collaborazione con le autorità non si può considerare come l’unica dimostrazione possibile della correzione del condannato, afferma che “non è escluso che la ‘dissociazione’ dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia”. In via esemplificativa la Corte constata “che il ricorrente ha dichiarato di non essere mai stato sottoposto a sanzioni disciplinari e di avere accumulato dalla sua condanna, in ragione della sua partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata”.
L’affermazione secondo cui gli ergastolani per omicidi di mafia non sarebbero liberi di scegliere di collaborare, così autoprecludendosi l’accesso ai benefici penitenziari, perché si esporrebbero a rischio di vita, equivale ad affermare che lo Stato italiano non si è dimostrato in grado di garantire l’incolumità dei collaboratori e dei loro familiari, circostanza questa nettamente smentita dalla realtà storica attestante come invece i sistemi di protezione adottati abbiano efficacemente assicurato l’incolumità di varie centinaia di collaboratori e dei loro familiari trasferendoli in località protetta, fornendo loro nuove identità e la possibilità di iniziare nuovi percorsi di vita.
Oltre che priva di fondamento storico fattuale, la motivazione addotta dalla Corte per giustificare e legittimare il diritto al silenzio dei mafiosi condannati all’ergastolo come stato di necessità indotto dalla perdurante prevalenza della forza di intimidazione dell’associazione mafiosa rispetto agli strumenti di protezione apprestati dallo Stato, veicola un messaggio fortemente negativo di sfiducia nella reale capacità delle istituzioni di ripristinare la forza della legge contro la sopraffazione della mafia.
Se il diritto al silenzio è giustificato per capi mafia e killer condannati all’ergastolo, in quanto, secondo la Corte, nell’Italia del 2019 la mafia sarebbe ancora più forte e temibile dello Stato, a maggior ragione dovrebbe giustificarsi il silenzio degli imprenditori che pagano il pizzo e di tutti coloro che soggiacciono alle intimidazioni della mafia, preferendo talora farsi incriminare per favoreggiamento piuttosto che rivelare ai magistrati il loro stato di vittime. Un avallo culturale alla rassegnazione fatalistica e lo svilimento dello straordinario sforzo collettivo profuso in questo ultimo quarto di secolo per alimentare nella società civile la fiducia nelle istituzioni debellando la legge dell’omertà.
Ancora più paradossale appare tale motivazione se si considera che il ricorrente Viola, capomafia della ’Ndrangheta, è stato condannato all’ergastolo proprio grazie alla collaborazione con la giustizia di due suoi sodali. La Corte afferma inoltre che il sistema normativo vigente viola l’art. 3 della Convenzione sotto un ulteriore profilo: “Il sistema nazionale è in contrasto con il diritto di autodeterminazione (…) Il detenuto non è in grado di determinare la sua esistenza in carcere e di avere una influenza sull’esecuzione della sua pena, in quanto il giudice non tiene conto del suo comportamento e delle sue azioni in assenza di collaborazione”. In altri termini il mancato riconoscimento del diritto del condannato all’ergastolo per delitti di mafia di scegliere liberamente se autoemendarsi collaborando con la giustizia (così come richiesto dalla legge, adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa dell’associazione mafiosa sia portata a conseguenze ulteriori), oppure di autoemendarsi in altri modi, ad esempio, limitandosi a dissociarsi, comprometterebbe il diritto di autodeterminazione, ledendo la dignità dell’individuo.
Il giudice Wojtyczek nel motivare la propria opinione dissenziente rispetto agli altri componenti della Corte ha definito testualmente “sconcertante” tale argomento, osservando che in materia di politica penale agli Stati è riconosciuto un margine di apprezzamento nel bilanciamento tra esigenze di tutela della collettività e diritti individuali. Ha ricordato infatti che oltre agli obblighi previsti dall’art 3, l’articolo 2 della Convenzione impone alle parti contraenti l’obbligo di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione e che “l’obbligo dello Stato a questo riguardo implica il dovere primario di garantire il diritto alla vita istituendo un quadro giuridico e amministrativo atto a scoraggiare la commissione di reati contro la persona e concepito per prevenire, reprimere e punire le violazioni (…) Questo obbligo riguarda in particolare la protezione contro la criminalità organizzata (…) La legislazione italiana non priva le persone condannate all’ergastolo per i crimini più pericolosi per la società di sperare di ottenere un giorno la libertà. Essa prevede la possibilità di ottenere una liberazione condizionale ma subordina quest’ultima alla condizione di una collaborazione con la giustizia”. La Corte – secondo il giudice dissenziente – ha travalicato i limiti della propria competenza in quanto non si è limitata ad un controllo di razionalità e di proporzionalità della scelta di bilanciamento operata dal legislatore italiano, ma si è sostituita ad esso con una scelta politica alternativa e sbilanciata che indica come prevalente rispetto alle esigenze di tutela della collettività il diritto soggettivo del detenuto a scegliere i modi e i percorsi della propria risocializzazione, rifiutandosi di aderire a quelli previsti dalla legge.
Senza dubbio né il giudice Wojtyczek né gli altri componenti della Corte ricordano che tale soluzione corrisponde esattamente a quella fortemente auspicata e promossa da autorevoli esponenti del Gotha di Cosa Nostra dalla fine degli anni Novanta sino al 2005. In quegli anni Pietro Aglieri, capo mandamento condannato per le stragi, si fece capofila di una proposta che trovava la piena adesione di molti boss importanti tra i quali Salvatore Biondino, l’uomo di fiducia di Salvatore Riina arrestato insieme al suo capo, Benedetto Santapaola, boss di Catania, Giuseppe Madonia capo mafia di Caltanissetta, Giuseppe Farinella capo delle Madonie. I boss chiedevano appunto che venisse modificata la normativa sull’ergastolo ostativo in modo da assicurare l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati all’ergastolo per delitti di mafia anche in assenza di collaborazione, stabilendo che fosse sufficiente una “dissociazione”, cioè il ripudio della scelta di adesione all’organizzazione e la scelta di altri percorsi individuali di risocializzazione.
Dopo alterne e scabrose vicende, tra le quali la repentina rimozione del capo dell’Ispettorato del Dap Alfonso Sabella che aveva bloccato la richiesta di Salvatore Biondino di essere autorizzato a fare lo “scopino” al fine di muoversi liberamente dentro il carcere e mettere meglio a punto con gli altri capi detenuti i termini della “trattativa Aglieri”, la fattibilità della soluzione proposta fu abbandonata in sede governativa aderendo alle argomentazioni contrarie fatte valere dai magistrati più impegnati sul fronte antimafia, i quali, sulla base dell’esperienza acquisita e della profonda conoscenza del mondo mafioso, avevano fatto rilevare che un eventuale cedimento alle richieste dei boss sarebbe stato tutto a favore della mafia, senza che lo Stato ne ricevesse una contropartita adeguata.
La possibilità per i mafiosi di essere ammessi ai benefici penitenziari dei permessi premi, della semilibertà e della liberazione condizionale in assenza di collaborazione, avrebbe infatti demotivato ogni spinta a collaborare, consentendo così alla mafia di conseguire l’obiettivo di privare lo Stato di uno strumento rivelatosi prezioso per destabilizzare gli equilibri interni delle organizzazioni criminali disarticolandone le strutture.
L’abolizione di fatto della pena dell’ergastolo per gli omicidi di mafia, avrebbe inoltre fatto venir meno l’unico vero deterrente temuto dai mafiosi i quali sono da sempre rassegnati a dovere scontare anche lunghi anni di carcere come prezzo della propria carriera criminale, ma temono fortemente invece l’ergastolo che li priva per sempre del potere acquisito e della possibilità di godere delle ricchezze accumulate. Nella mia lunga esperienza sul campo ho potuto constatare l’immediato reinserimento nell’organizzazione di mafiosi che erano usciti dal carcere dopo venti o trenta anni di detenzione.
Infine va considerato che i mafiosi doc sono sempre stati detenuti modello, formalmente rispettosi delle regole interne del carcere e quindi già usufruiscono della liberazione anticipata cioè di uno sconto automatico di 90 giorni di pena per ogni anno di detenzione. L’accumulo progressivo di tre mesi di sconto per ogni anno di pena, sommandosi nel tempo accorcia di molto il periodo previsto per l’accesso ai benefici penitenziari. Dieci anni si riducono a otto anni e sei mesi, venti anni si riducono a quindici. Molti in carcere si sono dedicati agli studi e ad alcuni si sono pure laureati. Se a ciò si aggiunge una dichiarazione formale di dissociazione, di ripudio del passato, si comprende come possa divenire problematico per il magistrato di sorveglianza motivare il diniego dei benefici penitenziari in assenza di concreti elementi (come, ad esempio, le intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano) che provino come la risocializzazione del detenuto – dimostrata nei modi esemplificati – sia il frutto di una abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita. Scoprirlo soltanto dopo potrebbe comportare il rischio del sacrificio di vite umane e della perdita di credibilità dello Stato nel fronteggiare il crimine mafioso, proprio il rischio che il legislatore aveva ritenuto di potere evitare subordinando l’accesso ai benefici alla collaborazione, mediante un equilibrato bilanciamento degli interessi della collettività e dei diritti del singolo. ANTIMAFIA DUEMILA
8.10.2019 – SONO A FAVORE DELL’ERGASTOLO OSTATIVO PER I DELITTI DI MAFIA Gli unici deterrenti reali per i mafiosi sono il 41bis, la confisca dei beni e l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Possono apparire misure non pienamente conformi ai dettami costituzionali ma rappresentano la migliore normativa contro la mafia, scritta peraltro con il sangue delle innumerevoli vittime della criminalità organizzata. Siamo di fronte a strumenti efficaci senza i quali probabilmente non avremmo mai potuto scalfire il potere dei boss di primo piano. Se si toccasse uno solo di questi strumenti, ritengo che il sistema antimafia italiano potrebbe collassare. Mi riferisco, in particolare, all’ergastolo ostativo, sempre odiato dai mafiosi che lo temono moltissimo. Chi non ha vissuto il periodo delle stragi di mafia non può comprendere cosa significhi vedere numerosi boss mafiosi che si sono macchiati di crimini efferati uscire a breve dal carcere. Potremmo assistere al ritorno in libertà di alcuni boss irriducibili. Una scelta molto rischiosa che potrebbe riesumare il sistema mafioso tradizionale, che è stato sconfitto proprio grazie agli strumenti antimafia in vigore. I boss storici, ma anche i nuovi, non vogliono né il 41bis, tantomeno l’ergastolo ostativo e lo dimostra che abbiano tentato più volte in passato di mettere mano proprio sul regime carcerario del 41bis e sul superamento dell’ergastolo per i boss. Chi conosce le mafie, sia per esperienza vissuta sul campo che per studio, sa che sfruttano l’ingenuità dei cittadini che non conoscono l’enorme capacità delle organizzazioni mafiose di rigenerarsi in pochissimo tempo con la sola presenza dei loro boss storici. Se tornassero a comandare i vecchi capimafia oggi ergastolani lo Stato ne uscirebbe inesorabilmente sconfitto e si darebbe loro lo strumento per riaffermare il loro potere perduto. Sarebbe un segnale di nuova sconfitta delle istituzioni. Come insegnava Giovanni Falcone, il mafioso che ha giurato fedeltà all’organizzazione criminale di appartenenza, una volta uscito dal carcere, non potrà non tornare a servirla fino alla morte. Non dobbiamo mai dimenticarci che i mafiosi di cui parliamo sono stragisti o persone che ne hanno seguito le strategie senza batter ciglio. Personalmente credo che la necessità di evitare rapporti tra gli esponenti carcerati e quelli a piede libero sia irrinunciabile. Ricordiamoci bene che riscontri oggettivi e probatori nei vari processi per mafia comprovano chiaramente che la detenzione dell’imputato di delitti di mafia non interrompe né sospende il vincolo associativo né sostanzialmente impedisce al detenuto di concorrere alla consumazione di gravi reati all’esterno degli stabilimenti carcerari con istigazioni, sollecitazioni, ordini e altre similari attività. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che all’interno degli istituti di reclusione le gerarchie mafiose si ricostituiscono automaticamente senza soluzione di continuità con gli organigrammi e le organizzazioni esterne, cagionando sovente il sovrapporsi di occulte autorità intramurarie al personale di custodia statale, espropriato in gran parte dei suoi poteri. Dare la certezza di libertà ai mafiosi senza alcun tipo di collaborazione con la giustizia è un regalo inspiegabile e un’offesa al sacrificio di tantissime vittime di mafie e dei loro familiari. Se queste sono le premesse, non meravigliamoci se i boss torneranno a brindare così come fecero quando hanno fatto saltare in aria Falcone, sua moglie e gli uomini della sua scorta! 8 Ottobre 2019 ARTICOLO 21 Vincenzo Musacchio, Giurista e Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise
16.7.2019 – ERGASTOLO OSTATIVO. IL CARCERE FINO ALLA MORTE CONTRARIO AI DIRITTI DELL’UOMO Un caso portato all’attenzione della Corte europea di Strasburgo propone in primo piano la vergogna tutta italiana della detenzione a vita. “La dignità umana viene prima, sempre”, affermano i giudici internazionali.
“Fine pena mai”, oppure “Fine pena 99.99.9999”. Sui registri dei penitenziari puoi trovare l’una o l’altra scritta in calce al registro dei condannati all’ergastolo. Ma in Italia esistono due tipi di ergastolo. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato buona condotta, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Poi ci sono i detenuti – oggi sono circa 1.400 – che hanno invece l’ergastolo “ostativo”: il più duro, quello che non prevede sconti, permessi, semilibertà. Sino alla morte, come è accaduto di recente al capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Questo secondo caso si applica ai condannati per reati particolarmente gravi (omicidi per terrorismo, per associazione mafiosa, maxi traffico di droga, ecc.) nel caso in cui essi rifiutino di collaborare con la giustizia o qualora la loro collaborazione sia giudicata irrilevante.
Ci si chiede sempre più spesso: è lecito – sul piano umano, sul piano giuridico, sul piano costituzionale – questo “divieto di concessione dei benefici” introdotto nel 1992 dall’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario? No, ha appena detto la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo: l’ergastolo ostativo è contrario all’articolo 3 della Convenzione per i diritti umani che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti.
La sentenza della Cedu (pubblicata a metà del giugno scorso) è relativa al caso di un detenuto condannato all’ergastolo ostativo per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti. La sentenza non comporta un mutamento delle condizioni del detenuto né un’attenuazione della pena, ma l’Italia è condannata a pagare al detenuto una somma per le spese legali del procedimento. Comunque la sentenza afferma un principio, e a questo elemento-chiave ha fatto riferimento Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale:
Sull’ergastolo ostativo la Corte europea ha preso una decisione di grande rilievo stabilendo che la dignità umana viene prima, sempre. La Cedu ribadisce un principio che i più grandi giuristi italiani avevano già espresso, ossia che sono inaccettabili gli automatismi (assenza di collaborazione) che precludono l’accesso ai benefici. Una persona che dia prova di partecipazione all’opera di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà. Ci auguriamo che il legislatore tenga conto di questa sentenza modificando le norme penitenziarie e i suoi inaccettabili automatismi.
In realtà già una volta la Corte costituzionale (che tornerà il prossimo 22 ottobre a discutere della legittimità dell’ergastolo ostativo) aveva affermato che i benefici non potevano essere negati qualora venga stabilito che la limitata partecipazione all’attività criminosa renda impossibile una ulteriore collaborazione con la giustizia, o nel caso in cui i condannati abbiano raggiunto un grado di rieducazione sufficiente prima dell’entrata in vigore della legge 356/92 (quella norma di tipo eccezionale che ha istituito appunto l’ergastolo ostativo), a meno che non siano accertati collegamenti attuali con la criminalità organizzata.
Sulla sentenza della Corte di Strasburgo interviene anche l’associazione Nessuno tocchi Caino che parla di “pronunciamento storico”: “La Cedu svuota l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario sullo sbarramento automatico ai benefici penitenziari; e fa cedere la collaborazione con la giustizia ex articolo 58 ter dello stesso ordinamento come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo dell’ergastolo ostativo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia”.
Può essere questo giudizio un’avvisaglia per la causa-chiave che verrà discussa ad ottobre davanti alla Corte costituzionale? Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, se ne dice certo: “il preludio di quel che deve succedere alla Corte costituzionale”. di Giorgio Frasca Polara 16 luglio 2019 RISTRETTI ORIZZONTI