Accade che un picciotto di borgata della Guadagna, Vincenzo “Enzo” Scarantino diventi il teste chiave intorno a cui fa far girare il più colossale depistaggio di Stato intorno a una strage. Enzo è un balordo, spaccia droga e si divide tra buchi fetidi dove conserva la “roba” e improbabili bordelli dove vivono ai margini trans reietti. Cosa nostra non lo considera neppure. Ma Scarantino ha un cognato, Salvatore Profeta, che invece è uomo d’onore della Guadagna governata da Pietro Aglieri, u’ signurinu, elegante e raffinato, cervello e pistola, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Enzuccio qualcosa origlia e qualcosa capisce, ma niente di veramente serio, il resto lo aggiunge lui o glielo mettono in testa i suoi suggeritori. Come quasi tutti i piccoli spacciatori contrabbanda informazioni con le guardie. Sarà per questo che dalla parte degli sbirri lo considerano un “pupo da vestire” e utilizzare alla bisogna. Ci provano all’indomani del delitto dell’agente Nino Agostino, provano a far riconoscere in Scarantino l’uomo che si aggirava intorno alla casa della vittima ma il padre di Agostino – Vincenzo – rimane impassibile di fronte alla segnaletica. Il particolare emergerà molti anni più tardi ad avvalorare i metodi disinvolti di Arnaldo La Barbera, il capo della Squadra Mobile di Palermo, il superpoliziotto che dirige le danze.
A poche ore dalla strage di via Mariano d’Amelio, le agenzie battono già il sospetto, avvalorato da una nota dei servizi che ad esplodere sia stata una Fiat di piccola cilindrata. Il blocco motore nelle immagini della tragedia non si vede. Su quel dettaglio ci si romperà la testa per anni l’avvocato Rosalba Di Gregorio. A ragione, perché anche nei verbali ufficiali il blocco motore della 126 di via D’amelio fa la sua comparsa ufficiale solo il 20 luglio, il giorno dopo. E lì, su quel basamento di ghisa, comincia tutto. Numero di serie e numero di telaio portano alla proprietaria. E a un amico del nipote. Che, guarda caso, è sotto intercettazione per una sospetta violenza carnale. Si chiama Salvatore Candura. Ed è amico di Scarantino. Lo fermano e confessa il furto dell’auto della zia. Dice di averla data a Scarantino. E poi spunta un compagno di cella di Scarantino, Andriotta, che ammette che sì Scarantino – glielo disse lui stesso- aveva rubato la Fiat 126. Scarantino nega e poi nell’inferno di Pianosa confessa: il furto e la sua partecipazione alla strage. I parenti gli danno del pazzo: ma del resto quando mai i parenti applaudono a uno che si fa pentito? Scarantino ritratta e poi torna ad accusare. I pm che allora conducono le indagini, coordinate dal solito La Barbera, vanno dritti come un treno.
Tutto normale, tutto regolare. Le parole di Enzo Scarantino manderanno all’ergastolo 8 innocenti per la strage e serviranno a rallentare per 17 anni la verità sull’eccidio di via Mariano D’Amelio. Dopo tanto tempo, indagando sulle indagini, si scopre di tutto. Come è stato vestito il pupo, cosa gli hanno fatto dire, come lo hanno imbeccato, come lo hanno minacciato, come hanno condotto la più improbabile delle istruttorie. Ansia di risultato, si dirà per giustificare i poliziotti che hanno agito. E tanto basta a stendere un velo di misericordioso oblio sulla stagione più putrida della nostra antimafia. Bisognerà aspettare l’arrivo di Gaspare Spatuzza per smantellare le verità di Scarantino: la 126 la rubò lui e gli fece sostituire i freni, la portò in un garage diverso da quello indicato dal picciotto della Guadagna e insieme con altri la imbottì di esplosivo. Erano tutti uomini di cui ha indicato il nome. Tutti tranne uno. Un estraneo, uno mai visto prima, uno competente però. di Enrico Bellavia – La Repubblica