Altra leggenda metropolitana da sfatare: la missiva indirizzata all’allora capo della procura di Palermo è di 4 pagine. Solo le ultime righe riguardano una semplice richiesta di un procuratore autorevole, che sappia riconciliare.
Gli ultimi sviluppi delle indagini della Procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Salvatore De Luca, hanno avuto l’effetto di riaccendere i fari sull’allora procura di Palermo, definita un “nido di vipere” da Paolo Borsellino.
In particolare, secondo l’ipotesi di reato, l’allora procuratore Pietro Giammanco sarebbe stato l’istigatore per insabbiare le indagini sulla gestione mafiosa dei grandi appalti pubblici, in particolar modo quella relativa a grossi colossi imprenditoriali. Su tutto le cointeressenze tra i mafiosi Buscemi e il gruppo Ferruzzi Gardini. Anche se, e va ricordato, in quel periodo c’era il dossier mafia-appalti che aveva acceso i riflettori ad altrettante grosse imprese nazionali (e multinazionali), dalla Lodigiani, passando per la Tor Di Valle, per arrivare alla De Eccher e non solo.
Come sappiamo, qualche mese dopo la strage di Via D’Amelio, Giammanco si dimise dalla procura e si trasferì presso la Corte di Cassazione. Fece quindi carriera.
Le sue dimissioni arrivarono a seguito di una lettera pubblica rivolta a lui stesso, firmata da otto sostituti procuratori. L’iniziativa è partita dall’ex magistrato, e ora senatore grillino, Roberto Maria Ferdinando Scarpinato.
Una lettera, tra l’altro, ricordata più volte dal senatore stesso come membro della commissione parlamentare antimafia. Ad ogni audizione, il senatore ci ha tenuto a porre domande su chi ha firmato quella lettera. Una domanda rivolta anche a Lucia Borsellino.
Ricordiamo, e questo è un dato da non sottovalutare, che la strage di Via D’Amelio ha causato una fortissima protesta da parte della società civile palermitana con tanto di cartelloni contro Giammanco stesso. L’insofferenza verso la procura era ai massimi storici.
La lettera, firmata il 23 luglio 1992, però, non è stata assolutamente una denuncia sulle presunte opacità dell’ex procuratore, poi emerse dalle parole dei magistrati stessi sentiti al Csm proprio per questa iniziativa.
Nella lettera rivolta a Giammanco, non si denuncia alcuna sua presunta pressione indebita sulle varie indagini, nessuna sua manifesta amicizia con l’allora onorevole Mario D’Acquisto, che era punto di forza politico ed elettorale di Salvo Lima a Palermo.
Non si fa cenno nemmeno a una parte dei diari di Falcone pubblicati su Il Sole 24 Ore da Liana Milella. I diari (nella loro interezza, ovvero i floppy disk) furono inizialmente portati per errore alla procura palermitana, per poi essere inviati alla procura nissena, dopodiché se ne persero le tracce. Nei frammenti pubblicati il giudice ucciso a Capaci denunciava la sua insofferenza e le pressioni per alcune indagini.
Un’annotazione datata 10 dicembre 1990 recita: «Giammanco ha sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione al cap. CC. De Donno (procedimento affidato a Enza Sabatino), sostenendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente, qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli preveda un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei CC. in tale previsione». E non si fa cenno nemmeno a cosa sospettava Borsellino stesso, confidenza che fece ad alcuni magistrati.
Ma allora su cosa verteva il contenuto di questa famosa lettera più volte reclamata? Il 90 percento è tutta dedicata alla presunta volontà politica relativa all’inefficienza amministrativo-organizzativa e impreparazione tecnica, dove «il ministero dell’Interno – così si legge nella lettera rivolta a Giammanco – e gli organi preposti alla tutela dell’ordine pubblico non sono stati in grado di esercitare una efficace prevenzione del terrorismo mafioso, in modo da proteggere i bersagli più esposti e sventare stragi annunciate».
Prosegue in una disamina contro l’inefficienza politica nel garantire sicurezza, per poi aggiungere che «A dispetto di questa inquietante consapevolezza, le istituzioni responsabili continuano ancor oggi a non assolvere al dovere elementare e prioritario di garantire a ciascun magistrato esposto a rischio condizioni minime di sicurezza, perseverando in una prassi di pressapochismo e dilettantismo». Poi prosegue con l’accusa nei confronti delle istituzioni in generale.
Siamo a pagina 3 su 4, e ancora nulla su Giammanco. Arriviamo alla fine della lettera e finalmente si arriva al punto. Ecco qui, leggiamo: «(…) necessario che la Procura di Palermo recuperi al suo interno quell’unità di intenti, quello spirito di collaborazione che oggi appaiono gravemente compromessi com’è dimostrato dall’esistenza di divergenze, se non da spaccature, divenute ormai financo di pubblico dominio con la strage di Capaci, ulteriormente acuitesi dopo la strage di via D’Amelio, divergenze e spaccature che solo una guida particolarmente autorevole ed indiscussa potrebbe ricomporre e sanare».
Nulla di che, solo una questione puramente di vedute e divergenze, per questo chiedono l’arrivo di una persona autorevole che sappia riconciliare tutti. Nulla di penale, o «terribile» come appurò Borsellino parlando con la sorella di Falcone (leggasi verbali al Csm luglio 1992).
Solo una questione di affinità e autorevolezza che a Giammanco mancava. Un debole, non era autorevole e quindi non in grado di sanare le spaccature. Tutto qui. E infatti, coerentemente, i magistrati non hanno denunciato nulla a Caltanissetta, come era invece in procinto di fare Borsellino. Ma non fece in tempo.
Bisogna precisare che Giammanco è stato procuratore dal 1990 al 1992, un biennio di fuoco. Ma per correttezza bisogna chiarire che i problemi oscuri della Procura di Palermo erano palpabili anche prima del suo arrivo. Pensiamo al giudice Rocco Chinnici trucidato dalla mafia nel 1983 con modalità simile a quella di Via D’Amelio. Egli intuì che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa necessitasse di essere affrontato nel complesso e non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise di costituire un gruppo: chiamò a sé Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dopo Giuseppe Di Lello e con loro istituì a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnettoprenderà il nome di “pool antimafia”.
Dopo la morte di Chinnici, in audizione avanti alla prima commissione del Consiglio il 6 settembre 1983, Giovanni Falcone commenterà: «Il collega Chinnici prendeva appunti su tutti gli episodi che gli apparivano inconsueti e questo perché temeva che le persone che potessero volere la sua morte avrebbero potuto annidarsi anche all’interno del palazzo di giustizia.
Egli mi sollecitava a fare altrettanto, dicendomi che in caso di una mia morte violenta gli appunti avrebbero potuto costituire una traccia per risalire agli assassini…».
E infatti, i diari di Chinnici annotano, così come poi farà Falcone, diversi fatti controversi avvenuti dentro quella procura. In fondo, stessa sorte è accaduta anche al giudice Gaetano Costa ucciso dalla mafia tre anni prima.
Lo stesso Borsellino, in una delle sue ultime interviste in Rai, ricorderà come venne reso vulnerabile a causa di alcuni suoi colleghi. Il “nido di vipere” era già radicato. Giammanco non fece altro che mettere il sigillo.