Ingroia, ex pm che collaborò con il giudice ucciso nell’attentato, dialoga con Affari sui rapporti “tesi” tra i magistrati di Palermo
Rischiavano di passare in sordina le audizioni della figlia di Paolo Borsellino, Lucia, e di suo marito, l’avvocato Fabio Trizzino, nella Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali straniere. Audizioni che, tuttavia, si sono rivelate dirompenti in particolare per alcune dichiarazioni di Trizzino: il legale dei figli del magistrato antimafia ucciso nell’attentato di via d’Amelio, nel ricostruire i mesi antecedenti la strage del luglio 1992, ha riportato alcune frasi che avrebbe pronunciato Paolo Borsellino prima della sua morte: “Definì il suo ufficio un nido di vipere”.
Parole inquietanti, che si sono aggiunte a quelle riportate dalla figlia Lucia: “Saranno i miei colleghi a volere la mia morte”, e che hanno gettato una nuova luce su uno dei pezzi di storia più intricati e per molti versi ancora avvolti dal mistero del nostro Paese.
Molti gli episodi e i nomi richiamati, tra i quali quello di Roberto Scarpinato, presente durante le audizioni in quanto oggi senatore – prima magistrato. Ma anche quello di Antonio Ingroia, ex magistrato del pool antimafia di Palermo, che lavorò al fianco di Paolo Borsellino proprio negli anni prima delle stragi.
Affaritaliani.it ha parlato proprio con Ingroia, per cercare di arricchire la storia dei frammenti di verità ancora mancanti.
È vero che Paolo Borsellino aveva definito la procura di Palermo un “nido di vipere”? E perchè?
Si tratta di giudizi e valutazioni che fece il dott. Borsellino e che comunicò anche a me. Sicuramente è vero, era un “nido di vipere” dove il clima era veramente teso. È certo che Paolo Borsellino si fidava davvero di pochi magistrati lì dentro, e aveva ragione. Tanto che più di una volta mi è capitato, mentre parlavamo e mi stava raccontando qualcosa di riservato, che lui interrompesse bruscamente la conversazione.
In particolare c’era una forte ostilità con il procuratore capo Pietro Giammanco
Borsellino non si fidava soprattutto di Giammanco, è vero. Anche perché quest’ultimo aveva sempre osteggiato prima Falcone e poi Borsellino stesso nelle loro indagini. Io fui tra i primi a denunciare al Csm nell’agosto del 1992, in alcune audizioni, la condotta di Giammanco. Contestazioni che determinarono l’apertura di un procedimento del Csm sulla Procura di Palermo, proprio all’indomani della strage di via d’Amelio. Alcuni di noi (magistrati, ndr) sottoscrissero un documento di contestazione (che passò agli onori della cronaca come il “documento degli 8 ribelli”) nei confronti di Giammanco, ritenendo che non fosse una guida autorevole a capo della Procura dopo i due lutti terribili.
Il Csm aprì un’inchiesta, e per un periodo rischiammo di essere sottoposti noi a procedimento disciplinare perché avevamo osato denunciare queste cose ribellandoci al capo ufficio … . Il Csm si è spaccato, ma la posizione di Giammanco era insostenibile – tanto che lui sparì dall’ufficio in quei giorni. Alla fine qualcuno consigliò a Giammanco di ritirarsi, e lui chiese il trasferimento in Corte di Cassazione. Da quel momento non si è mai più sentito parlare di lui.
L’avvocato Trizzino ha parlato di “cose terribili” che Borsellino aveva scoperto su Giammanco. Lei sa di cosa si tratta?
Ci sono diverse questioni da affrontare. Una, per esempio, che riguarda l’omicidio dell’allora onorevole Salvo Lima (politico siciliano noto per i rapporti che ebbe con Cosa nostra, ndr).
Borsellino in quelle settimane acquisì informazioni sui rapporti anche politici che Giammanco aveva con certi ambienti, vicini proprio all’on. Salvo Lima. Una volta parlando con me – non ricordo l’espressione precisa – disse: “Giammanco è un uomo di Lima”. Quindi lo riteneva sostanzialmente un magistrato colluso.
Lo stesso maresciallo Carmelo Canale, che era un suo stretto collaboratore come me fin dai tempi di Marsala, dichiarò in un mio processo che Borsellino gli aveva detto: “Prima o poi farò mettere le manette a Giammanco”.
Al centro delle audizioni di Trizzino c’è anche l’indagine che Borsellino stava compiendo relativamente al rapporto Ros “mafia e appalti”. Anche in questo c’entrava Giammanco?
Le indagini di Borsellino trovano origine nelle ritrovate annotazioni di Giovanni Falcone, diari in parte pubblicati (rimane il mistero mai accertato sino in fondo della parziale cancellazione della sua agenda) in cui si parlava del rapporto Ros mafia-appalti.
Siccome Borsellino – e lo disse a me – sapeva che Falcone non era solito a tenere diari, si sorprese e mi disse: “se ne ha lasciati vuol dire che gli appunti sono importanti, voglio approfondire la cosa”. Va detto che nel 1991, prima di trasferirsi a Palermo, io e Borsellino – da Marsala – ricevemmo dalla procura di Palermo uno stralcio del rapporto che riguardava alcuni appalti del territorio, tra cui quello relativo al porto di Pantelleria, il cui sindaco feci arrestare. E già all’epoca arrivarono notizie dai Carabinieri che alla Procura di Palermo stavano cercando di insabbiare questo rapporto, Giammanco in particolare. E proprio per “uccidere l’indagine” l’avevano sparpagliata in tutte le procure siciliane.
Già Borsellino, quindi, aveva un campanello d’allarme, e da Falcone sapeva che già lui aveva incontrato delle difficoltà. Da qui l’intenzione di vederci chiaro. E dal momento che non si fidava di tanti magistrati all’interno della procura di Palermo volle capire come stavano le cose.
Anche per questo organizzò un incontro segreto con l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno. Può dirci di più in merito?
Quello che io so, perché il contenuto esatto dell’incontro non è noto, l’ho riferito a suo tempo alla magistratura di Caltanissetta (che non fece nulla, anzi il procuratore Tinebra poi si rivelò avere contribuito a depistare le indagini su Borsellino, benché conoscesse le dichiarazioni su Giammanco).
Sì, io credo che sia anche in questo contesto che si può collocare l’incontro con Mori e De Donno, ma non è l’unico incontro. Ne fece uno anche con l’allora procuratore (oggi senatore) Scarpinato, organizzato da me. “Voglio vederci chiaro – mi disse Paolo – Siccome tu ti fidi di Scarpinato, organizzami un incontro”. Presero accordi, nessuno dei due mi raccontò dell’incontro, ma immagino che Scarpinato gli abbia esposto come la pensava. E desumo che lo stesso sia accaduto con Mori e De Donno. Bisogna precisare che Borsellino – a dispetto di quanto si dice ancora – non si fidava di tutti Carabinieri. Si fidava solo di alcuni Carabinieri che conosceva bene, tra cui l’allora maresciallo Canale. Per questo suppongo che, come era stato per me, chiese a Canale di fungere da intermediario con i due.
Altrettanto sicuramente posso dire che in quello stesso periodo vi fu una famosa riunione della Dda nella quale emerse come la questione del rapporto Ros “Mafia e appalti” non lo convincesse. Tanto che Borsellino, incrociando uno dei magistrati più vicini a Giammanco poco dopo la riunione, gli disse “Voi non me la raccontate giusta”. Ma ancora non aveva scoperto molto, stava approfondendo.
Ingroia, non è che – forse – sono le stesse “cose terribili” scoperte e su cui stava indagando che hanno portato alla morte di Falcone prima e Borsellino poi?
Che Giammanco abbia cercato di ostacolare Falcone prima e poi Borsellino non c’è dubbio. Che le ragioni fossero collegate certamente ad ambienti magari non mafiosi, ma sicuramente politico-affaristici di quel nucleo su quale Falcone e Borsellino volevano indagare, e poi abbiamo provato a indagare noi, è altrettanto certo. Ma da qui a dire che c’è un diretto coinvolgimento di Giammanco o di altri magistrati nelle due stragi… . È chiaro che se Giammanco ostacolava intenzionalmente Borsellino nell’interesse di altri, comunicava questi altri quello che succedeva in Procura, quello che aveva scoperto Borsellino… .
Ma magari fosse così semplice. Io penso che non ci sia stata una sola causa per la strage di via D’Amelio, ma più cause che si sono sommate. Non penso però che l’ordine sia arrivato dalla Procura di Palermo.
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