ARCHIVIO 🟧 25 maggio 1995  SCARANTINO « Così condannammo Borsellino»

 

Pentito rivela: «I boss dissero: quel cornuto è più pericoloso di Falcone» « Così condannammo Borsellino» Luce sul vertice in cui fu deciso l’attentato.
La «verità» del pentito Vincenzo Scarantino ha assunto risvolti impressionanti nella sua testimonianza ieri nell’aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma.
In trasferta da Caltanissetta per motivi prudenziali, la corte d’assise l’ha ascoltato in gran silenzio.
Scarantino non ha tradito le aspettative: si è dilungato su non pochi particolari che alla fine potrebbero fare molto comodo all’accusa e mettere in forte difficoltà la difesa.
Non sono mancati momenti tutti per il pubblico delle grandi occasioni come quando il pentito ha dichiarato: «Sono colpevole e ho deciso oggi di dire tutta la verità.
Quando mi hanno arrestato avevo già pensato di pentirmi, ma poi avevo avuto paura per me e la mia famiglia e per questo avevo tentato due volte il suicidio.
Poi ho deciso di passare dall’altra parte perché la cosa era troppo grossa». La «cosa» è l’orrenda strage di via D’Amelio con vittime il procuratore aggiunto della Repubblica Paolo Borsellino e cinque dei sei poliziotti che lo scortavano.
Seguì di due mesi quella di Capaci. E Scarantino ha riferito quel che afferma di aver origliato nei primi giorni del luglio 1992 in una villa «ai Chiavelli» durante un summit tra i capi di alcune «famiglie» di Cosa nostra.
Quel giorno fu emessa la condanna a morte per Borsellino e i suoi «angeli custodi».
Scarantino ha detto che il verdetto lo pronunciò «quello che sedeva a capotavola». E lo fece quasi urlando, tanto che fu possibile udirlo anche al di là del muro di cinta. Il boss esclamò: «Stu curnutu deve saltare in aria come quel crastu (in siciliano vuol due il capretto che ha pure le corna) che stava per rimanere vivo». Già, perché la strage di Capaci riuscì solo per impercettibili frazioni di tempo. E i nomi dei partecipanti all’incontro della borgata Chiavelli?
Prudente, su una linea di riserbo forse dettata dagli inquirenti antimafia, l’imputato-pentito ha sorvolato sull’identità del boss a capotavola e degli altri sei con lui.
Dalla lunga deposizione del «picciotto» di borgata che aveva passato qualche guaio al più per spaccio di marijuana è venuto fuori l’ennesimo affresco sulla disperante realtà palermitana dalla quale le cosche traggono i soldati per il loro esercito, proprio il vampiro che succhia il sangue come martedì ha gridato al microfono il procuratore Gian Carlo Caselli durante le manifestazioni per la strage di Capaci. Scarantino si è anche affrettato a descriversi come guardaspalle di Salvatore Profeta, altro imputato, suo cognato, boss della borgata Santa Maria di Gesù confinante con quella tristemente famosa ancorché bellissima dei Ciaculli, dominio dei Greco.
Ha anche raccontato di come dopo l’arresto fu travolto dall’angoscia e tentò di impiccarsi e poco dopo di recidersi le vene dei polsi. 
Ha confermato quindi tutto quello che già si sapeva sulla Fiat 126 imbottita di esplosivo (ha aggiunto che fu portata con una jeep Suzuki) è che il suo gruppo composto da otto persone fu incaricato di controllare se poliziotti o carabinieri girassero attorno all’officina.
Fu loro ordinato di sparare ai poliziotti o ai carabinieri e se del caso farsi uccidere o arrestare pur di permettere che tutto andasse liscio. E l’indomani alle 5,30 la 126 fu posteggiata in via D’Amelio.
I «picciotti» furono congedati ed entrarono in scena gli esecutori materiali dell’attentato. Anche su questi nomi top secret. Antonio Ravidà LA STAMPA

 


VINCENZO SCARANTINO