Contadino di Corleone conquistò Palermo facendo eliminare tutti gli altri boss mafiosi Ha imposto il regime del terrore anche a Cosa Nostra. A guardarlo, ora che sta in manette e con l’aria dimessa di un tranquillo provinciale persino intimidito dal trambusto cittadino, sembra quasi incredibile che sia lui. Totò il «terribile», la «belva», Riina il Padrino, il capo dei capi, il mandante di centinaia di omicidi. Il «tiranno» di Cosa nostra, per dirla con una immagine offerta dal suo grande nemico Tommaso Buscetta.
Così piccolo di statura (tanto da aver subito per anni il nomignolo di «’u curtu»), con le guance rotonde che lo rendono simile più ad uno nonnino pacioccone che ad uno spietato assassino, con quei capelli corti, un po’ a frangetta, che gli hanno stravolto i tratti più di qualunque operazione plastica, don Totò ha azzardato l’ultima carta, quella di negare la sua identità. Mossa inutile, dal momento che i carabinieri – al di là di ciò che vogliono far credere per proteggere (giustamente) le indagini – chissà da quanto tempo gli stavano addosso. E’ incredibile: ora che lo hanno preso, nessuno vuol crederci. Puntuali, arrivano i dubbi, le insinuazioni, i sospetti, le battutine scettiche. Il mito che vuole Salvatore Riina «primula imprendibile», resiste pure all’inconfutabile crudezza della realtà. E così c’è chi, scettico e sorridente, dubita che il prigioniero sia lui, il Capo.
Altri, increduli che dicono di saperla lunga, si lanciano in spericolate ipotesi di trame internazionali, abbozzando innaturali abbracci tra le forze dell’ordine, ovviamente interessate alla cattura, e non meglio identificati ambienti «alto-mafiosi», contentissimi di poter servire in un «piatto d’argento» un boss divenuto ormai troppo ingombrante. Stenta a declinare il.mito di Riina. Il tramonto del Padrino è ritardato da un’eccesso di luce. Per troppi anni la fama di «don Totò» e stata’alimentata da storie, aneddoti, indiscrezioni, ma da pochi fatti certi. Quasi ventiquattro anni di latitanza, l’assenza di foto recenti, l’alone’di mistero che da sempre lo ha circondato, hanno contribuito a creare questo «mostro». Lui, Riina, ha finito col racchiudere in sé la storia più recente e la più cruenta di Cosa nostra.
Don Totò è nato povero e contadino, quindi «comparsa» E’ diventato via via «braccio destro», comprimario, primattore, protagonista, re, imperatore, tiranno, fino ad identificarsi con la stessa organizzazione criminale Adesso che il suo potere scompare, ci si chiede già se con lui soccomberà Cosa nostra, se c’è già pronto un successore.
Se la mafia cambierà. Erano anni difficili, quelli in cui Riina ha dovuto farsi largo. Lui che, come il suo maestro Luciano Liggio, veniva da Corleone, centro importante della mafia si ciliana, ma pure troppo lontano da Palermo, cuore e cervello di Cosa nostra. Era la città la sede del governo regionale, il luogo della politica, degli affari. Erano a Palermo le banche, le prime fi- nanziarie.
Arrivava a Palermo il fiume di soldi originato dal traffico degli stupefacenti. Per questo Cosa nostra era, per definizione, «Palermocentrica», tanto che una regola non scritta dava per scontato che la «segreteria» della direzione strategica, l’ormai famigerata «cupola», dovesse andare ai «palermitani». , Ed era il tempo del «quietò vivere».
Così piccolo di statura (tanto da aver subito per anni il nomignolo di «’u curtu»), con le guance rotonde che lo rendono simile più ad uno nonnino pacioccone che ad uno spietato assassino, con quei capelli corti, un po’ a frangetta, che gli hanno stravolto i tratti più di qualunque operazione plastica, don Totò ha azzardato l’ultima carta, quella di negare la sua identità. Mossa inutile, dal momento che i carabinieri – al di là di ciò che vogliono far credere per proteggere (giustamente) le indagini – chissà da quanto tempo gli stavano addosso. E’ incredibile: ora che lo hanno preso, nessuno vuol crederci. Puntuali, arrivano i dubbi, le insinuazioni, i sospetti, le battutine scettiche. Il mito che vuole Salvatore Riina «primula imprendibile», resiste pure all’inconfutabile crudezza della realtà. E così c’è chi, scettico e sorridente, dubita che il prigioniero sia lui, il Capo.
Altri, increduli che dicono di saperla lunga, si lanciano in spericolate ipotesi di trame internazionali, abbozzando innaturali abbracci tra le forze dell’ordine, ovviamente interessate alla cattura, e non meglio identificati ambienti «alto-mafiosi», contentissimi di poter servire in un «piatto d’argento» un boss divenuto ormai troppo ingombrante. Stenta a declinare il.mito di Riina. Il tramonto del Padrino è ritardato da un’eccesso di luce. Per troppi anni la fama di «don Totò» e stata’alimentata da storie, aneddoti, indiscrezioni, ma da pochi fatti certi. Quasi ventiquattro anni di latitanza, l’assenza di foto recenti, l’alone’di mistero che da sempre lo ha circondato, hanno contribuito a creare questo «mostro». Lui, Riina, ha finito col racchiudere in sé la storia più recente e la più cruenta di Cosa nostra.
Don Totò è nato povero e contadino, quindi «comparsa» E’ diventato via via «braccio destro», comprimario, primattore, protagonista, re, imperatore, tiranno, fino ad identificarsi con la stessa organizzazione criminale Adesso che il suo potere scompare, ci si chiede già se con lui soccomberà Cosa nostra, se c’è già pronto un successore.
Se la mafia cambierà. Erano anni difficili, quelli in cui Riina ha dovuto farsi largo. Lui che, come il suo maestro Luciano Liggio, veniva da Corleone, centro importante della mafia si ciliana, ma pure troppo lontano da Palermo, cuore e cervello di Cosa nostra. Era la città la sede del governo regionale, il luogo della politica, degli affari. Erano a Palermo le banche, le prime fi- nanziarie.
Arrivava a Palermo il fiume di soldi originato dal traffico degli stupefacenti. Per questo Cosa nostra era, per definizione, «Palermocentrica», tanto che una regola non scritta dava per scontato che la «segreteria» della direzione strategica, l’ormai famigerata «cupola», dovesse andare ai «palermitani». , Ed era il tempo del «quietò vivere».
La mafia prosperava parallela al potere legale, I cappi d’influenza erano perfettamente separati, in rare occasioni si potevano verificare «spiacevoli» episodi di interferenze. Ognuno al proprio posto. A ciascuno il suo.
Contro questo assetto, contro questo potere consolidato vengono rivolti gli sforzi di Totò Riina, erede di «Lucianeddu» Liggio. Un’avanzata lenta ma costante. Passo dopo passo, morto dopo morto. E’ davvero fosco il ritratto che di questo capomafia, un po’ atipico rispetto alla storia e alla filosofìa di Cosa nostra, fanno i giudici e i pentiti che lo hanno conosciuto.
Riina sbarca a Palermo alla fine degli Anni 60. Convive dapprima coi «palermitani», anche se non smette mai di curare il suo «gruppo». Dei «corleonesi» si è sempre saputo poco. Tommaso Buscetta – che il gioco di Riina lo ha scoperto per primo – dirà ai giudici che era una tecnica di guerra, quella di don Totò: non pubblicizzare mai la propria forza, né l’identità dei «soldati». E così, commentava il pentito, venivano a Palermo, ci uccidevano e se ne tornavano indisturbati in paese. E quei cervelloni dei «pa- lermitani», anche gente di peso come Bontade o i Greco, continuavano a sottovalutarli considerandoli soltanto «viddani», cioè paesani. L’inizio degli Anni 70 coincide con l’irresistibile ascesa di don Totò. Entra a far parte di un «triumvirato» con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.
Una sorta di gestione commissariale straordinaria della mafia, conseguenza di un periodo di sbandamento che ha portato in carcere gente del calibro di Luciano Liggio. Anzi, lui, don Totò entra nel consiglio d’amministrazione proprio in nome e per conto di «Lucianeddu». E’ già lanciato il Padrino. Poco dopo comincia a prendere forma il suo mito.
Contro questo assetto, contro questo potere consolidato vengono rivolti gli sforzi di Totò Riina, erede di «Lucianeddu» Liggio. Un’avanzata lenta ma costante. Passo dopo passo, morto dopo morto. E’ davvero fosco il ritratto che di questo capomafia, un po’ atipico rispetto alla storia e alla filosofìa di Cosa nostra, fanno i giudici e i pentiti che lo hanno conosciuto.
Riina sbarca a Palermo alla fine degli Anni 60. Convive dapprima coi «palermitani», anche se non smette mai di curare il suo «gruppo». Dei «corleonesi» si è sempre saputo poco. Tommaso Buscetta – che il gioco di Riina lo ha scoperto per primo – dirà ai giudici che era una tecnica di guerra, quella di don Totò: non pubblicizzare mai la propria forza, né l’identità dei «soldati». E così, commentava il pentito, venivano a Palermo, ci uccidevano e se ne tornavano indisturbati in paese. E quei cervelloni dei «pa- lermitani», anche gente di peso come Bontade o i Greco, continuavano a sottovalutarli considerandoli soltanto «viddani», cioè paesani. L’inizio degli Anni 70 coincide con l’irresistibile ascesa di don Totò. Entra a far parte di un «triumvirato» con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.
Una sorta di gestione commissariale straordinaria della mafia, conseguenza di un periodo di sbandamento che ha portato in carcere gente del calibro di Luciano Liggio. Anzi, lui, don Totò entra nel consiglio d’amministrazione proprio in nome e per conto di «Lucianeddu». E’ già lanciato il Padrino. Poco dopo comincia a prendere forma il suo mito.
Un matrimonio segreto, celebrato in latitanza, lo consacra «primula imprendibile». Sposa Antonietta Bagarella, maestra di educazione fìsica, sorella di Leoluca (una «buona pistola», attualmente ai primi posti nel bollettino dei ricercati). La donna diventa anche lei latitante. Dovrebbe raggiungere il confino, ma preferisce darsi alla fuga insieme col suo «adorato Totò».
Un grande amore. Ai giudici, Antonietta grida in tribunale: «Sono vittima di una persecuzione. Mi si addebita di essere innamorata di Salvatore Riina. E’ vero. Lo amo da quando avevo 13 anni e lui 27. E’ un delitto essere innamorata di un latitante?». Anche lui, il Capo, stravede per Antonietta, intanto divenuta famosa come la «maestrina di Corleone».
Un grande amore. Ai giudici, Antonietta grida in tribunale: «Sono vittima di una persecuzione. Mi si addebita di essere innamorata di Salvatore Riina. E’ vero. Lo amo da quando avevo 13 anni e lui 27. E’ un delitto essere innamorata di un latitante?». Anche lui, il Capo, stravede per Antonietta, intanto divenuta famosa come la «maestrina di Corleone».
A Nino Calderone, quando non è ancora pentito, confida: «Altre femmine non ne voglio, solo Ninetta. Non me la fanno spo- sare? Ed io allora ammazzo gente». La sposò, Antonietta.
Ma continuò ad ammazzare gente. Cosa nostra, sopravvissuta a tutte le intemperie grazie alla straordinaria duttilità con cui si era sempre adeguata alle «necessità storiche», diveniva una organizzazione criminale gestita col sistèma del terrore. Morti e sangue, mentre lui, il Padrino, diveniva un vero e proprio fantasma di cui tutti parlavano ma nessuna sapeva niente.
Deve averne avute di protezioni, don Totò. Basti pensare ai quattro figli partoriti da donna Ninetta, latitante, alla clinica Noto di Palermo. Prima Maria Concetta, nel 1974. Poi Giovanni Francesco, quindi Giuseppe Salvatore.
Ma continuò ad ammazzare gente. Cosa nostra, sopravvissuta a tutte le intemperie grazie alla straordinaria duttilità con cui si era sempre adeguata alle «necessità storiche», diveniva una organizzazione criminale gestita col sistèma del terrore. Morti e sangue, mentre lui, il Padrino, diveniva un vero e proprio fantasma di cui tutti parlavano ma nessuna sapeva niente.
Deve averne avute di protezioni, don Totò. Basti pensare ai quattro figli partoriti da donna Ninetta, latitante, alla clinica Noto di Palermo. Prima Maria Concetta, nel 1974. Poi Giovanni Francesco, quindi Giuseppe Salvatore.
L’ultima arrivata, nel 1980, Lucia, nata l’I 1 novembre sotto il segno dello scorpione, come il padre. Nessuno, prima di questi ultimi tragici eventi, aveva mai mosso un dito per cercare di capire com’era potuto accadere che una distinta signora, latitante dal 1975, partorisse quattro figli, uno dietro l’altro, in una comoda stanza di una famosa clinica privata.
Con gli Anni 80, Cosa nostra subisce una trasformazione irreversibile. Sotto la gestione di Riina (le testimonianze dei pentiti sono numerosissime e concordanti) prende corpo la cosiddetta «strategia stragista». I mille morti della faida interna al potere mafioso stanno su un piatto della bilancia. Sull’altro il lungo, tragico elenco dei cadaveri eccellenti lasciati sull’asfalto da una direzione strategica che Leonardo Sciascia sospettò ammalata di «napoleonismo».
Chi non si adegua, muore. Giudici intimiditi o ammazzati, poliziotti massacrati, imprenditori «ribelli» finiti a colpi di lupara. Cadono le teste di chi contrasta l’avanzata di Riina e dei «corleonesi».
Si incomincia con gli assalti armati: Giuliano, Dalla Chiesa, Costa, Basile, Terranova, il capitano D’Aleo, l’agente Zucchetto, Cassare e Montana, Scopelliti, il giudice Saetta e il figlio. Poi arrivano le bombe: Chinnici e la scorta, l’artificiere sbaglia a Pizzolungo con il giudice Carlo Palermo ma uccide una madre e due bambine, alla fine le stragi di Capaci e di via D’Amelio. E’ sempre Riina – così dicono le indagini e i pentiti – a battere la strada della strategia terroristico-mafìosa. Ed è forse proprio la scelta folle dello scontro frontale ad averlo perduto. Addebito principale: non si può dichiarare guerra allo Stato e cercare pure di vincerla, nessun governo al mondo può permettersi di delegare ad altro potere la facoltà di fare la politica e decidere le regole. Strane voci hanno accompagnato l’ultimo periodo della sua dittatura.
Voci che raccontavano come don Totò avesse usato la «figura scialba» di Michele Greco per far passare la linea dura. Sussurri che insinuavano il malcontento generale, negli ambienti di Cosa nostra ma anche in quelli (politico-istituzionali) che per anni avevano offerto protezione al boss. Una lettera anonima, inquietante per le mezze verità addirittura «anticipate», annunciava in giugno la fine di Riina. Secondo l’anonimo sarebbe stato lo stesso Riina a consegnarsi, barattando così un successo «elargito» allo Stato in cambio di una sorta di condono per il passato.
Tutto mentre altri equilibri politicomafiosi, concordati tramite la mediazione dei servizi di sicurézza più o meno deviati, sarebbero già pronti a rimpiazzare chi, percHé in galera o perché al cimitero, è andato fuori giuoco: in testa a tutti, Riina, Lima e Ciancimino. Insomma, fine di un’epoca.
Qual è la verità? Riina è stato venduto da Cosa nostra? Gli è venuta meno la «solidarietà» di alcuni pezzi delle istituzioni? C’è già pronto un altro Padrino? All’orizzonte non si vede nessuno, né grande né piccolo. Comunque siano andate le cose, un fatto è certo: il fallimento della «politica» di Riina. Cosa nostra potrebbe tornare indietro e giocare di nuovo la carta della mediazione. Tornare alla filosofia della «pacifica convivenza».
Ora dipende dallo Stato. Certamente la mafia va incontro ad un periodo di incertezza, di sbandamento. Sarebbe un errore cullarsi nei successi e cantare vittoria. Potrebbe pentirsi, Riina? Un simile gesto avrebbe senso solo se il boss accettasse di «sorvolare» sugli aspetti ormai sviscerati da tutti gli altri collaboratori, per soffermarsi sul racconto di amicizie e protezioni che gli hanno consentito una latitanza lunga quasi 24 anni.
Francesco La Licata Da braccio destro di Liggio a imperatore delle cosche Poi la lunga scia di sangue l’attentato a Chinnici il massacro di Capaci e la bomba in via D’Amelio Nella vita un solo amore La moglie Antonietta lo ha seguito nei suoi ventitré anni di latitanza durante i quali gli ha dato quattro figli I quattro volti del superbo» Totò Riina: in senso orario partendo da sinistra il numero uno di Cosa Nostra negli Anni Sessanta, nell’immagine senza data che è stata per questi anni la sola in mano alla polizia, come è apparso ieri ai carabinieri che lo hanno fermato e nella ricostruzione del volto fatta dai tecnici dell’Fbi. 16.1.1993 LA STAMPA
Con gli Anni 80, Cosa nostra subisce una trasformazione irreversibile. Sotto la gestione di Riina (le testimonianze dei pentiti sono numerosissime e concordanti) prende corpo la cosiddetta «strategia stragista». I mille morti della faida interna al potere mafioso stanno su un piatto della bilancia. Sull’altro il lungo, tragico elenco dei cadaveri eccellenti lasciati sull’asfalto da una direzione strategica che Leonardo Sciascia sospettò ammalata di «napoleonismo».
Chi non si adegua, muore. Giudici intimiditi o ammazzati, poliziotti massacrati, imprenditori «ribelli» finiti a colpi di lupara. Cadono le teste di chi contrasta l’avanzata di Riina e dei «corleonesi».
Si incomincia con gli assalti armati: Giuliano, Dalla Chiesa, Costa, Basile, Terranova, il capitano D’Aleo, l’agente Zucchetto, Cassare e Montana, Scopelliti, il giudice Saetta e il figlio. Poi arrivano le bombe: Chinnici e la scorta, l’artificiere sbaglia a Pizzolungo con il giudice Carlo Palermo ma uccide una madre e due bambine, alla fine le stragi di Capaci e di via D’Amelio. E’ sempre Riina – così dicono le indagini e i pentiti – a battere la strada della strategia terroristico-mafìosa. Ed è forse proprio la scelta folle dello scontro frontale ad averlo perduto. Addebito principale: non si può dichiarare guerra allo Stato e cercare pure di vincerla, nessun governo al mondo può permettersi di delegare ad altro potere la facoltà di fare la politica e decidere le regole. Strane voci hanno accompagnato l’ultimo periodo della sua dittatura.
Voci che raccontavano come don Totò avesse usato la «figura scialba» di Michele Greco per far passare la linea dura. Sussurri che insinuavano il malcontento generale, negli ambienti di Cosa nostra ma anche in quelli (politico-istituzionali) che per anni avevano offerto protezione al boss. Una lettera anonima, inquietante per le mezze verità addirittura «anticipate», annunciava in giugno la fine di Riina. Secondo l’anonimo sarebbe stato lo stesso Riina a consegnarsi, barattando così un successo «elargito» allo Stato in cambio di una sorta di condono per il passato.
Tutto mentre altri equilibri politicomafiosi, concordati tramite la mediazione dei servizi di sicurézza più o meno deviati, sarebbero già pronti a rimpiazzare chi, percHé in galera o perché al cimitero, è andato fuori giuoco: in testa a tutti, Riina, Lima e Ciancimino. Insomma, fine di un’epoca.
Qual è la verità? Riina è stato venduto da Cosa nostra? Gli è venuta meno la «solidarietà» di alcuni pezzi delle istituzioni? C’è già pronto un altro Padrino? All’orizzonte non si vede nessuno, né grande né piccolo. Comunque siano andate le cose, un fatto è certo: il fallimento della «politica» di Riina. Cosa nostra potrebbe tornare indietro e giocare di nuovo la carta della mediazione. Tornare alla filosofia della «pacifica convivenza».
Ora dipende dallo Stato. Certamente la mafia va incontro ad un periodo di incertezza, di sbandamento. Sarebbe un errore cullarsi nei successi e cantare vittoria. Potrebbe pentirsi, Riina? Un simile gesto avrebbe senso solo se il boss accettasse di «sorvolare» sugli aspetti ormai sviscerati da tutti gli altri collaboratori, per soffermarsi sul racconto di amicizie e protezioni che gli hanno consentito una latitanza lunga quasi 24 anni.
Francesco La Licata Da braccio destro di Liggio a imperatore delle cosche Poi la lunga scia di sangue l’attentato a Chinnici il massacro di Capaci e la bomba in via D’Amelio Nella vita un solo amore La moglie Antonietta lo ha seguito nei suoi ventitré anni di latitanza durante i quali gli ha dato quattro figli I quattro volti del superbo» Totò Riina: in senso orario partendo da sinistra il numero uno di Cosa Nostra negli Anni Sessanta, nell’immagine senza data che è stata per questi anni la sola in mano alla polizia, come è apparso ieri ai carabinieri che lo hanno fermato e nella ricostruzione del volto fatta dai tecnici dell’Fbi. 16.1.1993 LA STAMPA