Il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso 416 bis c.p. tra “Littera legis” e giurisprudenza giuscreatrice.

Il clan Fasciani di Ostia e le mafie non tradizionali ​  (Cass. pen., Sez. II, 29 novembre 2019 – 16 marzo 2020, sent. n. 10255)​

(del dott. Emilio Orlando giornalista e scrittore) – (dell’avv. prof. Leonardo Ercoli docente e avvocato penalista)

– Il fatto storico ​
– L’art. 416 bis c.p. – la fattispecie associativa ​
– L’art. 416 bis comma III associazione mafiosa ​
– Art. 416 bis comma III e il metodo mafioso ​
– Il metodo mafioso, il principio di legalità in materia penale ​
– Lo screening di mafiosità e gli indici sintomatici 

Introduzione

La piovra della ‘ndrangheta e della mafia sul litorale romano, laziale e nella Capitale: la conferma arriva dalle sentenze. Si riaprono anche i “cold case” legati alla malavita. ​ Tre sentenze abbastanza recenti scuotono il Lazio. Dopo quella di Mafia Capitale, e quella emessa dai giudici di Velletri che riconosciuto lo stampo mafioso nella sentenza del Processo Mysothis, giudicando colpevoli undici dei tredici imputati arriva anche quella legata al clan Fasciani di Ostia. ​ Omicidi, regolamenti di conti e delitti irrisolti tra i segreti delle n’drine trapiantate nel Lazio. Le rivelazioni del pentito Daniele Cretarola hanno fornito agli inquirenti importanti spunti investigativi con cui si possono rileggere i moventi di diversi omicidi, probabilmente di stampo mafioso, rimasti senza colpevole.​ Per gli undici condannati, è scattata anche l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con pene che vanno dai ventiquattro ai trenta anni di carcere, nei confronti di appartenenti alla cosca n’dranghetista dei Gallace-Novella, clan malavitoso originario della Calabria e ramificato da anni nella capitale e lungo il litorale di Anzio e Nettuno, con propaggini estese anche nei quartieri periferici di Giardinetti ,Tor Bella Monaca e San Basilio.​ Queste sentenze riaprono fatti di sangue avvenuti a Roma e rimasti impuniti. Nuovi scenari d’indagine si sono riaperti su alcuni “cold case”. Per la seconda volta i giudici dei tribunali romani hanno accolto gli l’impianti accusatori dei pubblici ministeri della direzione nazionale antimafia e nel caso delle recenti condanne quello illustrato dal magistrato antimafia Francesco Polino relativamente al secondo filone dell’ inchiesta “Mythos” che nel 2013 vide condannati gli imputati per complessivi centonovanta anni di carcere.​
Sentenza per altro confermata nello scorso mese di giugno dalla corte d’ appello capitolina. Due sentenze che forniscono una fotografia precisa di come la mafia calabrese sia riuscita a colonizzare alcune zone del Lazio ed i quartieri romani, attraverso l’investimento di denaro sporco in settori strategici per l’economia. Secondo il collaboratore e pentito Daniele Cretarola, affiliato al clan Pizzata rivale dei gruppi dello Ionio Reggino, rientranti nella cosiddetta faida Di San Luca, una delle più sanguinarie di Gioia Tauro, i mandanti dell’esecuzione di Vincenzo Femia, boss indiscusso del narcotraffico tra la Calabria e Montespaccato freddato a Roma il 24 gennaio del 2013 in via della Castelluccia all’Ardeatino rientrano in quest’ ambito. Il pentito, durante l’ audizione protetta, racconta anche la genesi della criminalità organizzata di Gioia Tauro nella capitale.​ Secondo il racconto di Cretarola, un primo importante accordo tra la malavita romana e quella del sud avvenne negli anni settanta durante un pranzo al ristorante “Il Fungo” dell’ Eur. Riunione a cui partecipò Gianfranco Urbani detto “er pantera” affiliato alla banda della Magliana, che iniziò a tessere accordi con dei veri e propri accordi” commerciali” illeciti che riguardavano traffico di ingenti quantità di droga, eroina e cocaina, reinvestimento dei proventi derivanti dalle bische clandestine.​ Un ruolo fondamentale, emerso dopo le indagini della direzione nazionale antimafia, che hanno portato alle condanne emesse dal tribunale di Velletri, lo ha giocato l’infiltrazione delle cosche Gallace-Novella di Guardiagrele, Santa Caterina allo Ionio Badolato sul litorale di Anzio e Nettuno.​ Inoltre, il verdetto dei giorni scorsi si unisce a quello dei magistrati del tribunale di Latina che ha condannato i reggenti delle cosche che avevano “conquistato” il mercato ortofrutticolo di Fondi. Il quadro allarmante emerge anche nei regolamenti di conti che si sono verificati nella capitale negli ultimi anni. Il sequestro ” lampo” avvenuto il 27 novembre del 2013 nel quartiere Africano, dove venne rapito uno dei fratelli del boss del clan Coluccio di Gioiosa Jonica per intimidirli circa gli errati investimenti che avevano fatto con capitali illeciti.​ Gli altri omicidi n’drangheta, commessi da cellule mafiose calabresi nella Capitale sono quello di Angelo Di Masi, originario di Mileto la cui esecuzione avvenne al Prenestino dentro una sala slot in via Fumaroli. Il sicario lo freddò con undici colpi di rivoltella di cui due in pieno viso. Un anno prima, un meccanico di 43 anni, Teodoro Battaglia, originario di Satriano nella provincia di Catanzaro venne gambizzato in via di Rocca Cencia alla Borghesiana.​ ​In quegli anni, un altro misterioso omicidio è rimasto senza colpevole. Quello del fotografo dei vip, Daniele Lo Presti, originario di Palmi. Il paparazzo venne assassinato alla fine di febbraio del 2013, con un colpo d’ arma da fuoco alla testa, mentre faceva jogging sulla pista ciclabile che costeggia il Tevere all’ altezza di Ponte Testaccio. Il professionista, estraneo comunque ad ambienti malavitosi, potrebbe essere finito nel mirino dei clan della ndrangheta operanti nella capitale, per cause ancora da decifrare, come pure l’ esecuzione di Claudio D’ Andria avvenuta nello stesso anno a Tor Sapienza in via Giorgio Morandi. Dalle rivelazioni di qualche pentito gli investigatori potrebbero arrivare alla chiave di volta per risolvere questi casi​. Con la sentenza 10255 del 16 marzo 2020, epilogo della vicenda del clan Fasciani di Ostia, la Suprema Corte di Cassazione affronta con chiarezza e precisione ancora una volta il tema della configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p) in riferimento alle mafie ” non tradizionali”. Il paradigma è quello di cui al comma terzo dell’art. 416-bis c.p che prevede che è di tipo mafioso l’associazione i cui partecipanti si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo, dell’assoggettamento e dell’omertà che ne deriva. Ma cosa ne è allora di quei sodalizi che non hanno una connotazione criminale storica? La Corte ci fornisce un catalogo di preziosi “indici di mafiosità” invitando a non perdere mai di vista i principi costituzionali in materia penale, di legalità di offensività, di determinatezza e della precisione della fattispecie penale che non devono mai essere sacrificati neppure davanti al crimine organizzato. ​ Il ragionamento svolto dagli Ermellini spiega perché maggiore attenzione dovrà essere prestata dall’organo giudicante nel caso in cui si abbia a che fare con una realtà associativa delinquenziale diversa dalle “mafie già note”. E’ noto che l’associazione mafiosa costituisca un pericolo per l’ordine pubblico ma ciò non toglie che il relativo metodo, per integrare la fattispecie incriminatrice deve essere posto all’attenzione scrupolosa del giudicante che non deve sconfinare dal “tipo normativo” in connotazioni meramente soggettivistiche. ​
Il fatto storico La sentenza in commento costituisce l’epilogo dell’inchiesta “Alba Nuova”, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma ed eseguita dalla Squadra mobile nel luglio del 2013 e statuisce che il Clan Fasciani è un’associazione a delinquere di stampo mafioso riconoscendo la mafia a Roma per la prima volta nella storia criminale della città. Dopo che in primo grado era stata riconosciuta l’associazione di stampo mafioso, la Corte d’Appello di Roma ha negato l’applicazione dell’art. 416-bis c.p.; ​ La sentenza di primo grado ha riconosciuto la sussistenza in Ostia di un’associazione di stampo mafioso, ritenendo provato che gli imputati agirono in accordo tra loro per la commissione di un numero potenzialmente indeterminato di reati, relativi a plurimi settori, compreso quello dell’accaparramento delle attività economiche. La prima sentenza di appello ha, invece, escluso il carattere mafioso del sodalizio in ​ ragione dell’assenza di prova della pervasività sia dell’associazione criminosa che del suo potere coercitivo e del conseguente stato di assoggettamento e condizione di omertà. ​ Tale decisione, oggetto di ricorso per cassazione tanto degli imputati che del P.G. presso la Corte di appello di Roma, è stata annullata, in accoglimento del ricorso della parte pubblica, con rinvio dalla Sesta sezione di questa Corte sul rilievo del disconoscimento del carattere mafioso dell’associazione, avendo essa violato la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. ed essendo la motivazione risultata contraddittoria, quando non manifestamente illogica, rispetto alle acquisizioni probatorie date per conseguite dallo stesso giudice del merito. ​ Le difese di tutti gli imputati per i quali è stata affermata la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. hanno avanzato motivi, tanto sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta riconducibilità del clan Fasciani ad un sodalizio di stampo mafioso. Risulta, pertanto, opportuno soffermarsi, seppur brevemente, sui connotati tipici che caratterizzano tale fattispecie, al fine di verificare se il giudice del merito ne abbia fatto corretta applicazione, attraverso una congrua motivazione. ​
L’art. 416 bis c.p. – la fattispecie associativa ​  La Suprema Corte si sofferma inizialmente sui principi di diritto enunciati in tema di associazione mafiosa, di cui il giudice del merito ha fatto corretta applicazione mediante una ricognizione di tutti gli elementi fattuali, la cui combinazione logico-giuridica dà conto della sussistenza dei caratteri tipici della fattispecie incriminatrice. Visto che le difese di tutti gli imputati per i quali è stata affermata la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. hanno avanzato motivi, tanto sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta riconducibilità del clan Fasciani ad un sodalizio di stampo mafioso, si sofferma seppur brevemente, sui connotati tipici che caratterizzano tale fattispecie, al fine di verificare se il giudice del merito ne abbia fatto corretta applicazione, attraverso una congrua motivazione. ​ E’ noto che la fattispecie associativa delineata dall’art. 416-bis c.p., è stata introdotta nel “sistema” dei reati associativi dalla legge Rognoni-La Torre del 1982, per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà associative più “complesse” delle ordinarie associazioni criminali, in quanto “storicamente” dedite alla “sopraffazione” di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica. ​ Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi perseguiti dalle associazioni di stampo mafioso possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale, tipica di tutte le associazioni per delinquere, allo svolgimento di attività in se lecite, come l’acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti; all’impedimento o all’ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o per procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. ​ Un “mosaico” dunque, di finalità, tanto ampio che mal si concilia con l’individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di “tipo mafioso”. ​
L’art. 416 bis comma III associazione mafiosa ​  Come è ben noto il terzo comma dell’articolo 416 bis definisce l’associazione mafiosa ” L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero l fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Il nucleo della fattispecie incriminatrice si colloca dunque nell’art. 416-bis comma 3 del codice penale laddove il legislatore definisce il metodo e la finalità dell’associazione mafiosa che si qualifica solo se c’è uno specifico “metodo” che l’alimenta delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, una gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini. La Corte, innanzitutto, analizza la natura e gli elementi costitutivi del reato di associazione di ​tipo mafioso. A prescindere dalle varie finalità che un sodalizio di questo tipo può perseguire, finalità peraltro tutte contemplate dal legislatore e da sempre considerate alternative dalla giurisprudenza, è invece il metodo utilizzato che qualifica l’associazione mafiosa in quanto tale. In altri termini, sembra di poter rilevare come il delitto di associazione di tipo mafioso stia subendo un’opera di trasformazione, dal modello arcaico delle mafie tradizionali, dedite sostanzialmente alla violenza in un ambiente originariamente di tipo rurale, ad un modello molto diverso, di carattere imprenditoriale, nell’ambito del quale è evidente la svalutazione degli stessi concetti di intimidazione, assoggettamento ed omertà, che devono infatti sussistere ma solo in potenza perché evidentemente, come dimostrerebbe proprio il processo di Mafia Capitale, ormai le organizzazioni criminali sono soprattutto dedite all’attività di corruzione dei pubblici poteri. ​
Art. 416 bis comma III e il metodo mafioso ​  La Corte precisa che le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”, dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse “non basta la parola” mafia, camorra, ndrangheta ma occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro. ​ Il fulcro del processo d'”identificazione” non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso – puntualizza, infatti, l’art. 416-bis c.p. – l’associazione i cui partecipanti “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e di omertà che ne deriva”. ​ L’esistenza di un “metodo” che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall’esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo lo stesso persegue. Il metodo mafioso, così come descritto dall’art. 416-bis c.p., comma 3 colloca la fattispecie all’interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce “a struttura mista”, in contrapposizione a quelli “puri”, il cui modello sarebbe rappresentato dalla “generica” associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.. La differenza consisterebbe proprio in quell’elemento “aggiuntivo” rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l’associazione mafiosa è composta da soggetti che “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”, parrebbe denotare – come l’uso dell’indicativo presente evoca – che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di “effettività”: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di “possedere in concreto” quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso. ​ Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza “oggettiva”, tali da qualificare non soltanto il “modo d’essere” dell’associazione (l’affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo “modo di esprimersi” in un determinato contesto storico e ambientale. La forza di intimidazione, il vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un “metodo” che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire “di esibizione”, pur se priva di connotati eclatanti. ​ “Assoggettamento” ed “omertà” rappresentano, dunque, gli “eventi” che devono scaturire dall’intimidazione: “fatti”, quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale. ​​
Il metodo mafioso e il principio di legalità in materia penale ​  La Suprema Corte pone la questione di quale sia la portata da annettere al “metodo mafioso”, dal momento che l’estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza possa comportare il rischio nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch’esse non poco variegate. C’è infatti chi sostiene che la formulazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici, possa in qualche modo essere in contrasto con il principio di legalità in materia penale. E’ anche ben noto che sotto il profilo dell’aderenza al principio di legalità penale, ci si interroga in che direzione ormai vada il diritto penale che secondo alcuni studiosi è destinato a mutare il proprio volto. ​ Una volta individuate le complesse ragioni dell’attuale crisi della divisione dei poteri dello Stato, si può comprendere come la proliferazione della giurisprudenza giuscreativa sia anche frutto di una maggiore erosione dell’attività parlamentare. ​ E’ noto, a questo riguardo, come il principio della riserva di legge, che la dottrina qualifica come “tendenzialmente assoluta”, sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici ovvero la precisione, la determinatezza e la tassatività della fattispecie penale. Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l’esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall’art. 25 Cost., comma 2, non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica. Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la “impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta. Il problema è quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al “metodo mafioso”, dal momento che l’estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch’esse non poco variegate. Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici. Nella sentenza della Suprema Corte nel caso Fasciani, assistiamo ad un’evidente svalutazione dei requisiti di fattispecie dell’art. 416-bis c.p., ad esempio quando si afferma che l’associazione per delinquere di stampo mafioso può essere costituita anche soltanto da tre persone, il numero esiguo delle quali rende francamente problematica la realizzazione delle condotte indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p., il che costituisce un sintomo di quello che si osservava in precedenza, cioè a dire che per quest’ultimo orientamento della giurisprudenza la norma di legge è un punto di partenza e non di arrivo e soprattutto che compito del giudice penale non è quello classico ed esclusivo di sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta , ma, al contrario, quello di far aderire possibilmente la fattispecie astratta, estendendola oltre misura, al fatto in concreto verificatosi. Dunque, i profili definitori offerti a proposito del “metodo mafioso” vanno “estrapolati” sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della “storia” e delle “esperienze” maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali. Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi “atteggiamenti” genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il ​ cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato “soggettivo interiore” (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di “registrazione” e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo “è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza Corte Cost., n. 96 del 1981, “nella dizione dell’art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà”. Infine per ciò che riguarda l’ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità, vale a dire, quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell’art. 14 preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e art. 25 Cost.. Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite “estensioni” alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non “tradizionali”, dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi – di antica “sperimentazione” – praticati nei territori “occupati” da mafia, camorra o ‘ndrangheta. Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura “oggettivistica” del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo. E’ di tutta evidenza, infatti, che se per raggiungere gli obiettivi descritti dall’art. 416-bis c.p., un’associazione “priva di storia” determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un’applicazione “analogica” della fattispecie, ma una normale applicazione del “fatto” tipizzato. D’altronde quella che gli Ermellini propongono è un’indagine a tutto campo sull’origine, sulla struttura e sull’evoluzione storica del sodalizio di volta in volta considerato (nel caso di specie, il Clan Fasciani di Ostia), indagine da demandare ovviamente all’organo giudicante. Al giudice, dunque, il compito di analizzare, attraverso il suo prudente e rigoroso apprezzamento, se dal compendio probatorio raccolto nel singolo processo emerga la “mafiosità” della consorteria. ​
Lo screening di mafiosità e gli indici sintomatici  La Corte propone dunque un’indagine attenta sulla struttura del sodalizio criminale di volta in volta considerato. Al giudice penale spetta il compito di analizzare se dal compendio probatorio emerga la mafiosità. Sono dunque di particolare importanza i cd. indici di mafiosità come (l’intensità del vincolo di assoggettamento, la natura e le forme degli strumenti intimidatori, la caratura criminale dei soggetti coinvolti, la manifestazione esterna del potere decisionale, la sudditanza di professionisti e soprattutto la mancanza di denunce che rafforzano il clima di omertà). Ulteriore ed adeguato riscontro circa l’esistenza della pervasività si coglie nel riferimento alla c.d. “zona grigia”, ossia all’accertata succube sudditanza verso gli interessi del clan proveniente da professionisti di varia estrazione (dal direttore di banca ai custodi giudiziari ai funzionari pubblici, commercialisti), sempre pronti ad aderire o addirittura a prevenire con estremo zelo le richieste in ordine ai bisogni o alle aspettative più svariate, anche quando non compatibili con norme di legge o doveri deontologici, per il “rispetto” portato verso il capo della consorteria ed il desiderio di evitare qualsiasi genere di insoddisfazione dei temibili interlocutori. L’analisi della struttura associativa e dell’evoluzione criminale che ha caratterizzato il sodalizio di Ostia negli ultimi anni ha permesso, infatti, di evincere che quella che in origine appariva come una semplice associazione per delinquere si è lentamente mafiosizzata consentendo il passaggio dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel “quid pluris” che ne ha permesso l’inquadramento in quella di tipo mafioso. Sulla base del compendio probatorio sopra delineato, la Corte conclude affermando che «anche la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza “mafiosa”, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento. Nell’attesa che le Sezioni Unite Penali intervengano nella loro funzione di nomofilachia, resta questo prezioso contributo delle singole Sezioni.

Fonte: Il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p. https://www.studiocataldi.it/articoli/38167-il-delitto-di-associazione-per-delinquere-di-tipo-mafioso-ex-art-416-bis-cp.asp#ixzz7G9cPYuDA  (www.Studio Cataldi.it)