«BENI CONFISCATI ALLA MAFIA, C’È CHI TENTA DI SMANTELLARE LA LEGGE: UN SEGNALE PREOCCUPANTE»

di Daniela Mainenti
L’introduzione nel nostro ordinamento delle misure di prevenzione patrimoniali si deve, come sappiamo, alla legge Rognoni-La Torre del 1982 e alla misura della confisca, la cui peculiare caratteristica risiede nell’essere una misura sul patrimonio del tutto svincolata dalla condanna penale e dal processo penale. Si tratta cioè di una misura basata su requisiti, tra i quali non figura l’accertamento di un reato, che viene disposta in virtù di un procedimento autonomo e indipendente da quello penale.
Per quanto innovativa si sia dimostrata l’introduzione della confisca “di prevenzione” nel 1982, ben più risalenti nel tempo appaiono le sue origini, nonostante taluni sostengano erroneamente la sua incompatibilità con la nostra attuale civiltà giuridica. Ciò consentirebbe di parlarne sin già al diritto romano, con impressionanti analogie con la vigente confisca antimafia, nella figura dell’ademptio bonorum, il cui utilizzo già in epoca romana consentirebbe di constatare quanto antico sia (praticamente da sempre) l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali: allora “strumento di purificazione della comunità”, oggi arma per il contrasto della criminalità economica, anche, di tipo organizzato.
I detrattori odierni, tra accademici e giuristi in corte, fanno perfino riferimento all’uso politico che ne fece il fascismo sottolineando la distanza della confisca dalle garanzie proprie di uno Stato di diritto. Solo all’inizio degli anni 80 sorse l’esigenza di apprestare nuovi e più efficienti strumenti di contrasto economico della criminalità organizzata che, proprio in quegli anni, stava destando un crescente allarme sociale e, contemporaneamente, il comprensibile timore che la legge potesse costituire un esempio di legislazione simbolica, volta a rassicurare i cittadini sulla volontà dello Stato di combattere la criminalità mafiosa.
Certo, non si può negare che tali eventi avessero influito sull’intervento del legislatore, ma anche che, col tempo, la legge Rognoni-La Torre abbia dimostrato di non essere un tipico prodotto della legislazione d’emergenza, bensì di rappresentare, al contrario, una radicale svolta nell’impegno dello Stato nella lotta contro tale forma di criminalità, rappresentando una scelta destinata a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia. Vista con la dovuta lucidità essa è stata un punto di partenza per l’apertura di un nuovo orizzonte internazionale dell’attività giudiziaria tale da cambiare per sempre il volto delle indagini di mafia.
Lo stretto collegamento, infatti, tra l’impulso dato da Giovanni Falcone alle indagini sulla dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, mediante la valorizzazione degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale, e la decisione di ucciderlo, attuata mediante la strage di Capaci del 23 maggio 1992, è stato sottolineato dalle pronunce giurisdizionali emesse negli ultimi anni.
L’introduzione nel nostro ordinamento delle misure di prevenzione patrimoniali si deve, come sappiamo, alla legge Rognoni-La Torre del 1982 e alla misura della confisca, la cui peculiare caratteristica risiede nell’essere una misura sul patrimonio del tutto svincolata dalla condanna penale e dal processo penale. Si tratta cioè di una misura basata su requisiti, tra i quali non figura l’accertamento di un reato, che viene disposta in virtù di un procedimento autonomo e indipendente da quello penale.
Per quanto innovativa si sia dimostrata l’introduzione della confisca “di prevenzione” nel 1982, ben più risalenti nel tempo appaiono le sue origini, nonostante taluni sostengano erroneamente la sua incompatibilità con la nostra attuale civiltà giuridica. Ciò consentirebbe di parlarne sin già al diritto romano, con impressionanti analogie con la vigente confisca antimafia, nella figura dell’ademptio bonorum, il cui utilizzo già in epoca romana consentirebbe di constatare quanto antico sia (praticamente da sempre) l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali: allora “strumento di purificazione della comunità”, oggi arma per il contrasto della criminalità economica, anche, di tipo organizzato.
I detrattori odierni, tra accademici e giuristi in corte, fanno perfino riferimento all’uso politico che ne fece il fascismo sottolineando la distanza della confisca dalle garanzie proprie di uno Stato di diritto. Solo all’inizio degli anni 80 sorse l’esigenza di apprestare nuovi e più efficienti strumenti di contrasto economico della criminalità organizzata che, proprio in quegli anni, stava destando un crescente allarme sociale e, contemporaneamente, il comprensibile timore che la legge potesse costituire un esempio di legislazione simbolica, volta a rassicurare i cittadini sulla volontà dello Stato di combattere la criminalità mafiosa.
Certo, non si può negare che tali eventi avessero influito sull’intervento del legislatore, ma anche che, col tempo, la legge Rognoni-La Torre abbia dimostrato di non essere un tipico prodotto della legislazione d’emergenza, bensì di rappresentare, al contrario, una radicale svolta nell’impegno dello Stato nella lotta contro tale forma di criminalità, rappresentando una scelta destinata a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia. Vista con la dovuta lucidità essa è stata un punto di partenza per l’apertura di un nuovo orizzonte internazionale dell’attività giudiziaria tale da cambiare per sempre il volto delle indagini di mafia.
Lo stretto collegamento, infatti, tra l’impulso dato da Giovanni Falcone alle indagini sulla dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, mediante la valorizzazione degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale, e la decisione di ucciderlo, attuata mediante la strage di Capaci del 23 maggio 1992, è stato sottolineato dalle pronunce giurisdizionali emesse negli ultimi anni.
Al tempo stesso, però, proprio in quel processo di costruzione, ha preso avvio un metodo che è divenuto adesso il principale modello di riferimento su cui la comunità internazionale sta progettando il futuro del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Da qui la reale funzione delle misure di prevenzione patrimoniale, ossia quella di “neutralizzazione dei vantaggi” prodotti dall’attività patrimoniale illecita e, in particolare, dall’impresa mafiosa o corruttiva, indipendentemente da qualsiasi giudizio in ordine alla pericolosità del titolare e alla idoneità a essere reimpiegati (in attività illecite o addirittura lecite) elementi la cui sussistenza è sostanzialmente accidentale.
In questa materia la Costituzione, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), la Corte di Strasburgo costituiscono i parametri di garanzia per il cittadino perché dalla loro giurisprudenza è emersa la piena legittimazione delle nostre misure di prevenzione quali strumenti necessari per il conseguimento di obiettivi pienamente compatibili con la Convenzione in virtù del fatto che la prevenzione è un compito essenziale dello Stato e agisce in una fase precedente alla repressione del crimine. Per questo bisogna riconsegnare alla Comunità degli italiani le ricchezze accumulate in maniera illegale, intaccando la criminalità nei propri interessi economici e nei conseguenti risvolti sociali e organizzativi.
E quindi, per quanto sopra esposto, non è dato comprendere quali siano le logiche dei promotori del disegno di legge a prima firma on. Giammanco, di Forza Italia, in direzione diametralmente opposta, volendo vincolare tali misure alla pena, se non, fuori da ogni lettura sociologica o politica, attraverso la stridente attualità delle parole con cui il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, ucciso in un agguato mafioso a Catania nel 1984, rispondeva alle domande poste dal collega Enzo Biagi, durante l’ultima intervista documentata disponibile ad oggi: “I mafiosi stanno in ben altri luoghi e in ben altre assemblee, il problema della mafia è molto più tragico e più importante; è un problema di vertice nella gestione della nazione, ed è un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale definitivo l’Italia…”.
(da “ilfattoquotidiano.it” https://bit.ly/3GrqOS3 – l’autrice è Professore Straordinario di Diritto Processuale Penale Comparato