Non câè stato patto tra lo stato e Cosa nostra. Paolo Borsellino ucciso per vendetta e per le inchieste su mafia e appalti. Due sentenze contro una. E contro la narrazione dominante
Câè unâaltra veritĂ sulla cosiddetta âtrattativa stato-mafiaâ. Una veritĂ che non ha trovato posto nella narrazione che ha anticipato, accompagnato e seguito la sentenza di primo grado del processo sulla trattativa, emessa dalla Corte dâassise di Palermo il 20 aprile 2018, che ha condannato gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni (12 anni per entrambi) e Giuseppe De Donno (8 anni), lâex senatore Marcello DellâUtri (12 anni), Massimo Ciancimino (8 anni) i boss Leoluca Bagarella(28 anni) e Nino CinĂ (12 anni).
La sentenza ha affermato che la trattativa ci fu, che pezzi dello stato minacciarono lo stato stesso (nonostante il paradosso) e che questo dialogo con la mafia accelerò lâomicidio di Paolo Borsellino.
Ma câè unâaltra veritĂ , che non ha ancora ricevuto la minima attenzione da parte dei diligenti oracoli dellâantimafia, che da anni sfornano articoli, libri e persino film sul tema con la medesima trama: ultima uscita, due settimane fa LaTrattativaâ, il docufilm di Sabina Guzzanti del 2014, in prima serata su Rai2.
Una veritĂ che, però, è anchâessa di carattere giudiziario e che quindi, in teoria, avrebbe dovuto ricevere unâattenzione pari a quella posta alla sentenza di Palermo (per giunta solo di primo grado), se non superiore, essendo basata su due sentenze che fanno anche riferimento a fatti accertati da pronunce passate in giudicato: da un lato, la sentenza del 4 novembre 2015 con cui il giudice per le udienze preliminari del tribunale di Palermo ha assolto lâex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio (in rito abbreviato) sulla presunta trattativa stato-mafia; dallâaltro, la sentenza del processo âBorsellino quaterâ, sulla strage di Via DâAmelio, pronunciata dalla Corte dâassise di Caltanissetta il 20 aprile 2017 e depositata nel giugno 2018, e che fa riferimento a molte risultanze della sentenza definitiva del processo âBorsellino terâ, pronunciata il 22 aprile 2006 dalla Corte dâassise di appello di Catania (n. 24/2006).
Le due sentenze ci consegnano un quadro completamente opposto a quello raffigurato dalla sentenza di Palermo e riassumibile cosĂŹ: non ci fu nessun patto tra lo stato e la mafia, nĂŠ fu questo fantomatico accordo ad accelerare lâassassinio brutale di Paolo Borsellino, che invece fu ammazzato per vendetta per la sentenza del maxiprocesso e per lâimpegno crescente che stava dedicando ad alcune inchieste scomode a Cosa nostra, in particolare in materia di mafia e appalti.
Lâassoluzione di Calogero Mannino
Secondo i pm palermitani (Antonio Ingroia, che poi abbandonò lâincarico in procura, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e, prima di loro, Roberto Scarpinato) fu Mannino a promuovere la trattativa tra lo stato e Cosa nostra in un momento da collocarsi tra lâattentato a Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la strage di Via DâAmelio (19 luglio 1992). Lâobiettivo su larga scala sarebbe stato quello di concedere benefici a esponenti di Cosa nostra in cambio dellâabbandono del piano stragista, mentre sul piano personale lâintento di Mannino sarebbe stato salvare la propria vita e recuperare il ârapporto affaristico-elettorale .Fu dunque Mannino, sempre secondo la procura, a spingere gli allora vertici del Ros â il capo Antonio Subranni, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno â a farsi intermediari della trattativa, incontrando Vito Ciancimino, giĂ allora condannato come intraneo a Cosa nostra e in strettissimi rapporti dâaffari con i suoi compaesani corleonesi Provenzano e Riina.
Da questo incontro sarebbe scaturito il famoso âpapelloâ con le dodici proposte di Riina, documento fornito (in fotocopia) ai pm dal figlio di Vito, Massimo Ciancimino. Sarebbe stato questo segnale di debolezza mostrato dallo stato a spingere Riina a uccidere, dopo Falcone, anche Borsellino. La trattativa poi â secondo il disegno dei pm â avrebbe conosciuto unâevoluzione con la sostituzione di Provenzano a Riina (arrestato il 15 gennaio 1993) e la sostituzione di Marcello DellâUtri a Vito Ciancimino come intermediario tra la politica e Cosa nostra.
Questo il castello accusatorio messo in piedi dalla procura, e interamente bocciato dalla giudice per le udienze preliminari di Palermo, Marina Petruzzella, nella sentenza che assolve Mannino.
Nota, innanzitutto, Petruzzella che sono stati gli stessi Mori e De Donno a non fare mai mistero degli incontri avuti con Vito Ciancimino, sostenendo che la finalitĂ di quel dialogo era âesclusivamente quella di cercare un modo per catturare i latitanti di Cosa nostra piĂš pericolosi e di porre rimedio al rischio della prosecuzione dellâattacco stragistaâ. Inoltre, i due âhanno sempre negato di essere stati emissari di Mannino o di altri politici, ma di essere andati da Ciancimino come rappresentanti di loro stessi e del loro superiore generale Subranni, che tali tentativi con Vito Ciancimino abortirono subito e che quindi per conto loro la trattativa di cui sono accusati in qualitĂ di mandatari di Mannino, nel senso inteso dalla pubblica accusa, non è mai esistitaâ.
Un quadro opposto a quello raffigurato anche nel film di Sabina Guzzanti â#LaTrattativaâ, visto di recente in prima serata su Rai2
Fatta questa premessa, la giudice esamina tutti i presunti elementi probatori forniti dallâaccusa per sostenere la tesi della âtrattativaâ e conclude senza mezzi termini: âNon câè qualcosa, come delle fonti orali o documentali, che dimostri il collegamento tra lâiniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e lâevento ipotizzato dallâaccusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontĂ ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governoâ. âAllo stato degli atti â prosegue Petruzzella â appare improvabile, da un punto di vista processuale â che applica i canoni della gravitĂ e della precisione indiziaria degli elementi di fatto su cui fondare un ragionamento probatorio â collegare il fatto che Mannino si raccomandasse con i Ros alla interlocuzione tra i Ros e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelliâ. Insomma, mentre secondo la procura la nomina di Mancino al Viminale al posto di Scotti avrebbe rappresentato un segnale di cedimento dello stato alla mafia, con lâallontanamento di un ministro ritenuto troppo rigoroso, la giudice riconosce che alla base della nomina vi furono solo esigenze politiche, come spiegato dallo stesso Mannino in processo (semplicemente era necessario trovare una collocazione a Mancino visto che il posto che ricopriva, come capogruppo al Senato, era andato al collega di partito Antonio Gava). âEâ ragionevole â afferma inoltre Petruzzella â ritenere che i descritti comportanti di Mannino con Guazzelli (il maresciallo dei carabinieri al quale Mannino si rivolse per chiedere protezione, ndr) e con i Ros siano stati determinati dalla volontĂ di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politicoâ. In altre parole, Mannino si rivolse a Guazzelli e ai Ros non per avviare una fantomatica trattativa con la mafia, ma solo per ottenere protezione di fronte alla condanna a morte che Cosa nostra aveva da tempo decretato nei suoi confronti.
Le âinterpretazioni indimostrateâ dei pm
La decostruzione delle tesi dei pubblici ministeri da parte della giudice Petruzzella non si ferma.
Nella sentenza, la giudice sottolinea come la requisitoria dei pm si basasse su una serie di fatti storici: dai timori di Mannino per la propria vulnerabilitĂ fisica e politica allâindagine sullâanonimo âCorvo 2â, che aveva raccontato di fantomatici incontri tra lo stesso Mannino e Totò Riina, dalle vicende attorno al carcere duro alla sostituzione di Scotti con Mancino e quella di Martelli con Conso. Ma â nota la giudice â si tratta di âfatti ai quali i canoni della conoscenza e dellâesperienza possono attribuire varie ragionevoli interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal pmâ. In sostanza, nellâarticolata ricostruzione dei pm âelementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo di un complesso disegno sottostante â la trattativa con Cosa nostra â e delle mosse per la sua attuazioneâ. Questi vengono poi accostati ad altri âelementi considerati cause presunte della condotta dellâimputatoâ. Infine, âtutti questi elementi â accusa Petruzzella â vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolaritĂ probatoriaâ.
Paolo Borsellino ucciso anche per reagire a unâazione repressiva nei confronti della mafia che mai come allora era stata cosĂŹ incisiva Â
Eppure, si ripete, âciascuno dei fatti âpoliticiâ valorizzati dal pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontĂ di evitare la linea netta di contrarietĂ al 41 bis o. p. (come quella che, in realtĂ , veniva allâepoca propugnata da Nicolò Amato, rivelata dalle note che questi allâepoca scriveva al ministro), ovvero dalla volontĂ di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessitĂ di un accordo siglato con una parte mafiosa. E ciò sia se le medesime situazioni si considerino autonomamente lâuna dallâaltra sia se si considerino nel loro insiemeâ.
I casi Amato e Conso
Eâ proprio la complessa vicenda che coinvolse lâallora capo del Dipartimento per lâamministrazione penitenziaria (Dap), Nicolò Amato, a risultare âemblematica di come elementi di sospetto, che non abbiano quindi una grave e autonoma natura indiziaria, se invece considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi a interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processualeâ.Secondo i pm, fu lâallora capo dello stato, Oscar Luigi Scalfaro, a adoperarsi per rimuovere dal Dap Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. âInvero â nota la giudice Petruzzella â ricorrendo a criteri indiziari elastici, come quelli utilizzati dal pm, avrebbero potuto individuarsi anche a carico di Nicolò Amato una serie di situazioni sospette e astrattamente indicative di una sua volontĂ di favorire lâabolizione del 41 bis, con lâintento di favorire la mafia e quindi la trattativaâ.
Come a dire che adoperando il fantasioso criterio interpretativo dei pm, si potrebbero rintracciare elementi di sostegno alla trattativa con Cosa nostra nellâoperato di innumerevoli esponenti delle istituzioni che in quegli anni ebbero un ruolo nella lotta alla mafia.
Amato, ad esempio, non solo divenne in seguito avvocato di Vito Ciancimino, ma fu autore il 6 marzo 1993, poco prima di essere rimosso dal Dap e diversi mesi dopo le stragi di Capaci e di Via DâAmelio, di una missiva indirizzata allâallora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, subentrato da poche settimane a Claudio Martelli, in cui si proponeva al Guardasigilli di revocare i decreti di carcere duro per i boss mafiosi (âsalvo ricorrervi successivamente nella malaugurata, deprecabile ipotesi di un ripresentarsi delle situazioni eccezionali che li giustificanoâ), in modo da uscire da una situazione emergenziale e tornare a âun regime penitenziario normaleâ.
Dâaltra parte, però, nota la giudice Petruzzella, âun modo elastico di attribuire natura indiziaria ai fatti, dovrebbe portare a prendere in considerazione anche che nello stesso âAppuntoâ del 6 marzo 1993 Amato aveva indicato in alternativa al 41 bis una serie di misure, come la registrazione dei colloqui e le videoconferenze per evitare il âturismo giudiziarioâ dei mafiosi (che se ben applicate avrebbero ostacolato concretamente le comunicazioni con i detenuti e quindi ostacolato la mafia), e tale fatto che porterebbe a ribaltare le valutazioni negative su di lui indotte da tutti quegli altri elementi sospettiâ.
Lo stesso si potrebbe dire dei comportamenti tenuti dal ministro Conso, accusato dai pm di non aver rinnovato, nel novembre 1993, i decreti che prevedevano il carcere duro per 334 mafiosi, con lo scopo di lanciare un messaggio di âdialogoâ a Cosa nostra. La giudice Petruzzella, però, ricorda come Conso nel luglio 1993, vale a dire alla prima scadenza annuale dei primi decreti di 41 bis, rinnovò quei decreti (emessi allâindomani della strage Borsellino) e nota: âLa circostanza che tra il 27 e il 28 luglio dello stesso anno vi furono gli attentati di Roma e Milano, e che dopo quegli attentati, a novembre, il ministro Conso, prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41 bis, coerentemente dovrebbe deporre nel senso sostenuto da Conso, che la sua cioè fu una decisione autonoma, presa sotto la pressione del senso di responsabilitĂ che gravava sulla sua coscienzaâ.
Il castello accusatorio messo in piedi dalla procura interamente bocciato dal gip Marina Petruzzella nella sentenza che assolve ManninoÂ
Insomma, gli esempi di Amato e Conso, spiega Petruzzella, âdimostrano a quale circolaritĂ inestricabile e a quali vani risultati probatori porti lâattribuire valore dimostrativo a fatti non gravemente e precisamente significativi dellâassunto da provareâ. Talmente gravi sono le lacune dei pm palermitani sul piano probatorio che Petruzzella, come in una sorta di lezione di diritto processuale penale, si spinge a ricordare agli inquirenti alcune basilari sentenze della Cassazione âsecondo cui il semplice assemblaggio e la mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nellâinterpretazione dei risultati probatoriâ: âSecondo i rigorosi criteri legali dettati dallâart. 192 comma 2 cod. proc. pen. gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, per accertarne il valore probante individuale in base al grado di inferenza dovuto alla loro gravitĂ e precisione, per poi essere esaminati unitariamente per porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo. Ogni âepisodioâ va dapprima considerato di per sĂŠ come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della âstoriaâ racchiusa nellâimputazioneâ. Una procedura ignorata dai pm.
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Le patacche di Massimo Ciancimino
Nella sentenza, la giudice Petruzzella sottolinea lâassoluta mancanza di credibilitĂ delle testimonianze fornite da Massimo Ciancimino, per anni icona dellâantimafia prima che la sua vena pataccara emergesse in tutta la sua chiarezza, anche in sede giudiziaria (è stato condannato in via definitiva a tre anni di reclusione per detenzione abusiva di materiale esplosivo â arsenale ad altissimo potenziale che deteneva in giardino ma che sostenne gli fosse stato recapitato per metterlo a tacere â e in primo grado a sei anni per le calunnie rivolte allâex capo della polizia, Gianni De Gennaro).
Scrive Petruzzella: âLâanalisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato lâassenza di coerenza e ha reso palese la strumentalitĂ del comportamento processuale del Ciancimino, la gravitĂ degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere âsulla cordaâ i pubblici ministeri col protrarre la promessa di consegnar loro il papello, carpirne cosĂŹ la considerazione e mantenere sempre alta su di sĂŠ lâattenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuziaâ (e qui il pensiero va alla celebrazione di Ciancimino fatta da Michele Santoro e Marco Travaglio in tv, e dal Fatto quotidiano e dal gruppo Espresso).
In particolare, Ciancimino â prosegue Petruzzella â âsul finire del 2008 creava abilmente nei pm lâaspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009 (e solo quando vi era costretto dallâaut aut ricevuto dai pm, che se non lo avesse consegnato avrebbero provveduto dâufficio), dopo averli inondati di documenti del padre, selezionati a suo piacimento e consegnati nei tempi da lui prescelti, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicandoâ.
Petruzzella sottolinea, allo stesso tempo, come il papello infine consegnato ai pm, e âsu cui si fonda buona parte del costrutto accusatorioâ, sia da ritenersi âfrutto di una sua grossolana manipolazioneâ: âLo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte allâestero non avrebbe impedito la consegna dellâoriginale; è evidente che le fotocopie, con lâuso di carte e inchiostri datati, impediscano lâaccertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito lâoriginale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita âconsegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Rosâ, attaccato alla fotocopia del papello; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dallâestero, come da lui sostenuto, nĂŠ perchĂŠ non potesse dirlo ai pm; ha detto di non conoscere lâautore del papello (non glielo ha rivelato, questa volta, nemmeno il signor Franco/Carlo; ndg); e naturalmente non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti dal Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originaleâ.
La trattativa che non ci fu
Demoliti i teoremi dei pubblici ministeri, la giudice Petruzzella trae le conclusioni: âResta accertato che lâomicidio di Lima, la strage di Capaci, la strage di Via DâAmelio e tutti gli eccidi posti in essere da Cosa nostra fino al â94, assunsero unâindubbia finalitĂ politico eversiva e implicarono una minaccia anche al governo, che era diretta a condizionare lâazione repressiva contro la stessa organizzazione. Resta inoltre accertato che Mannino fu ben in grado di comprendere, almeno fin dalla fine del 1991, che i corleonesi nutrissero propositi di vendetta anche nei suoi confronti (ne ebbe conferma anche dagli atti intimidatori subiti, di tipico stampo mafioso), e che in tale contesto si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi a Subranni, Mori, a Contrada e altri, per ottenerne protezioneâ. Poi sottolinea di nuovo che gli elementi concreti per collegare lâinterlocuzione tra Mori e Ciancimino con lâiniziativa di Mannino di chiedere protezione ai Ros âappaiono fragili, come pure, si ribadisce, gli elementi per attribuire a Mori una volontĂ di patteggiare, attraverso Ciancimino, benefici per Cosa nostraâ.
Inoltre, scrive Petruzzella, âva preso in considerazione il contesto in cui Mori e De Donno si trovavano, che rende molto difficile formulare giudizi negativi o meno sul loro operato. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il â91 e il â92, i corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Riina, il suo sentirsi a capo di unâorganizzazione che potesse contrastare lo stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria e di rottura dei vecchi equilibri che lâorganizzazione mafiosa aveva mantenuto con il partito di maggioranza assolutaâ.
âResta il fatto â conclude Petruzzella â che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei piĂš pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui unâinterlocuzione che, relativamente a quanto può considerasi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi di ordine pubblico e principalmente la cattura di Riinaâ.
La sentenza Borsellino quater
Se la sentenza di assoluzione nei confronti di Mannino demolisce le fondamenta delle ricostruzioni fatte dalla procura di Palermo sul presunto patto tra stato e mafia, la sentenza del processo âBorsellino quaterâ pronunciata dalla Corte dâassise di Caltanissetta il 20 aprile 2017 smentisce un altro dei punti fondamentali della recente sentenza palermitana sulla trattativa, vale a dire la teoria secondo cui sarebbe stato il dialogo tra lo stato e Cosa nostra a determinare âlâeffetto dellâaccelerazione dellâomicidio di Borsellinoâ.
Per la sentenza âBorsellino quaterâ, infatti, le indagini hanno dimostrato che i motivi che spinsero Cosa nostra a uccidere Borsellino furono di tuttâaltro genere. Eâ stato provato, infatti, che la strategia stragista adottata da Cosa nostra aveva un triplice obiettivo: âLa reazione vendicativa susseguente al previsto esito sfavorevole del âmaxiprocessoâ, la destabilizzazione della compagine statale e la ricerca di referenti politici in sostituzione dei precedenti dimostratisi inaffidabiliâ.
Vendetta contro il maxiprocesso
Sul primo obiettivo (le stragi come reazione vendicativa alla sentenza del maxiprocesso contro Cosa nostra del 30 gennaio 1992), i giudici fanno riferimento alle risultanze evidenziate anche dalla sentenza n. 24/2006 della Corte dâassise di appello di Catania nel processo âBorsellino terâ, passata in giudicato: âIl Riina si è impegnato, in modo spasmodico, onde ottenere un esito favorevole di tale maxiprocesso per gli interessi di Cosa nostra. Non era per lui importante la conferma delle statuizioni di responsabilitĂ per i reati associativi, era invece fondamentale che venisse smentita lâimpostazione data dal giudice Falcone in merito alla struttura organizzativa di Cosa Nostra ed alla responsabilitĂ dei suoi organi di vertice. Era in gioco la credibilitĂ del Riina nei confronti dellâintera organizzazione e anche la stessa immagine di Cosa nostraâ. Il fatto che Riina riponesse la massima attenzione sullâesito del maxiprocesso trova conferma anche nelle parole di uno dei pochi collaboratori di giustizia ascoltati durante le indagini sulla strage di Via DâAmelio e ritenuti credibili, vale a dire Antonino Giuffrè: âIl maxiprocesso era la spina nel fianco di Salvatore Riina, (âŚ) lâesito positivo era di importanza vitaleâ.
Riina si impegnò âin modo spasmodicoâ per un esito favorevole del maxiprocesso. Falcone e il carattere unitario di Cosa nostra
Ma per comprendere a pieno i motivi per i quali Riina temeva cosĂŹ tanto lâesito della sentenza occorre considerare il principio fondamentale che fu effettivamente affermato dalla Cassazione con la sentenza del 30 gennaio 1992, vale a dire âil principio, sul quale Giovanni Falcone aveva impostato tutto il suo lavoro, del carattere unitario di Cosa nostra e, quindi, della riconducibilitĂ degli âomicidi eccellentiâ alla volontĂ della âcommissioneâ provinciale di Palermoâ. âCome è stato sottolineato dalla sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte dâassise di Caltanissetta nel processo âBorsellino terâ â ricordano i giudici â una tale impostazione aveva effetti devastanti per lâintera organizzazione, poichĂŠ chiamava a rispondere dei delitti piĂš gravi i soggetti che avevano ruoli direttivi, compromettendo la stabilitĂ di una struttura le cui fortune si fondavano essenzialmente sullâimpunitĂ dei suoi componenti, impunitĂ che operava con gradazioni diverse e crescenti a seconda del ruolo ricoperto. Se, infatti, coloro che intervenivano nella fase esecutiva del delitto si esponevano in certa misura al rischio dellâintervento repressivo, specie nella flagranza del reato, coloro che deliberavano il delitto e svolgevano solo il ruolo di mandanti erano sottratti anche a tale rischio e lâomertĂ per lungo tempo imperante allâinterno del sodalizio criminale impediva lâaccesso ai segreti della fase decisionale e quindi la verifica delle responsabilitĂ penali. Lâaccertamento, invece, del meccanismo di formazione del consenso per le deliberazioni piĂš importanti, unitamente alla nascita del fenomeno delle collaborazioni di coloro che si dissociavano dallâorganizzazione, scardinava tali certezze ed esponeva al concreto pericolo di una lunga detenzione anche i titolari del potere decisionale in Cosa nostraâ.
Chiarita lâimportanza cruciale per Cosa nostra della sentenza è facile comprendere perchĂŠ, come affermano i giudici, la condanna a morte nei confronti di Falcone e Borsellino venne decretata da Cosa nostra sul finire del 1991, quando ormai era diventato chiaro per Riina che i tentativi compiuti per condizionare la sentenza del maxiprocesso (come quello di far presiedere il processo al giudice Corrado Carnevale, anzichĂŠ ad Arnaldo Valente, ipotesi su cui si era opposto Falcone in persona) non erano andati in porto e che dunque era ormai da ritenersi certa una sentenza sfavorevole: âNon vi è dubbio â scrivono i giudici â che al momento della riunione della Commissione provinciale di Cosa nostra svoltasi tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre del 1991, i vertici dellâorganizzazione mafiosa fossero nelle condizioni di prevedere, fondatamente, un esito per loro negativo del âmaxiprocessoâ, e considerassero questa prospettiva come una minaccia gravissima per gli assetti di potere su cui poggiava lâillecito sodalizioâ. Prima ancora, era stata la Corte dâassise di appello di Catania a rilevare che ânella riunione in esame, caratterizzata dalla fondata certezza che il maxiprocesso avrebbe avuto un esito negativo per Cosa nostra, è stato affermato un obiettivo strategico che si può definire come quello della reazione vendicativaâ. Infatti, come piĂš volte raccontato dallo stesso Giuffrè, è in quellâoccasione che fu âmesso in evidenza da Salvatore Riina che eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti, (âŚ) cioè verrĂ attuato quel piano che è andato maturato nel tempo e sono stati fatti i nomi di Falcone, di Borsellino e di Limaâ.
Dietro la strage di Via DâAmelio le inchieste sugli appalti e sulla morte di Falcone, la possibile nomina alla Procura nazionale antimafia
I giudici di Caltanissetta sottolineano come il piano vendicativo di Cosa nostra âsi indirizzasse, oltre che nei confronti di Giovanni Falcone, anche contro Paolo Borsellino, il quale aveva intrapreso con gli altri colleghi del âpoolâ antimafia dellâUfficio istruzione di Palermo, diretto prima da Rocco Chinnici e successivamente da Antonino Caponnetto, la straordinaria attivitĂ investigativa sfociata nellâordinanza di rinvio a giudizio del âmaxiprocessoââ.
Il piano stragista, affermano sempre i giudici, âassunse un contenuto strategico piĂš âestesoâ nel corso delle successive riunioni ristrette di febbraio-marzo 1992, mirando anche alla âdestabilizzazioneâ della compagine statale e alla ricerca di referenti politici in sostituzione dei precedenti dimostratisi del tutto inidoneiâ.
La volontĂ di Riina di destabilizzare lo stato, tuttavia, non traeva origine dai segnali di debolezza che lâapparato statale avrebbe palesato mostrandosi disponibile a trattare con Cosa nostra (come affermato dai giudici palermitani della sentenza sulla trattativa), bensĂŹ proprio dalla necessitĂ di reagire a unâazione repressiva nei confronti della mafia che mai come allora era stata cosĂŹ incisiva. In questo senso, si richiamano gli âapprofonditi rilieviâ formulati dalla Corte dâassise di Caltanissetta nel 1999 nel processo Borsellino ter: âRisulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalitĂ di vendetta e di cautela preventiva, bensĂŹ anche per esercitare â cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti â una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia piĂš intensa che in passato e indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politicaâ.
Lâinchiesta mafia-appalti
Ad accelerare lâuccisione di Borsellino fu anche la pericolositĂ , per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti dopo lâomicidio del collega Falcone: âSe il desiderio di vendetta che animava gli affiliati di Cosa nostra nei confronti di Paolo Borsellino per lâattivitĂ giudiziaria che egli aveva saputo svolgere costituiva un forte movente per volerne lâuccisione â scrivono i giudici di Caltanissetta â altrettanto certo appare che tale volontĂ era rafforzata dalla precisa consapevolezza che il magistrato rappresentava anche per il futuro un concreto pericolo per lâorganizzazione mafiosa proprio a causa del particolare impegno e della straordinaria efficacia della sua attivitĂ professionale, che si avvaleva della profonda conoscenza e della memoria storica da lui acquisite su quel fenomeno criminale. Tale pericolo nasceva sia dalle funzioni giudiziarie allora svolte dal magistrato, nonchĂŠ dallo specifico oggetto delle attivitĂ di indagine da lui espletate nel periodo in esame, sia dalla prospettiva che egli fosse nominato Procuratore nazionale antimafiaâ.
âAl riguardo â aggiungono i giudici â deve osservarsi che lâattivitĂ svolta da Paolo Borsellino nei 57 giorni intercorrenti tra la strage di Capaci e la strage di Via DâAmelio si riferiva sia alla raccolta delle dichiarazioni rese da Gaspare Mutolo a seguito della sua scelta di collaborazione con la giustizia, sia alla gestione mafiosa degli appalti pubblici, sia ad una coraggiosa ricerca della veritĂ sulle ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare lâeliminazione di Giovanni Falcone, a breve distanza di tempo dallâomicidio Limaâ.
La condanna a morte di Falcone e Borsellino quando era diventato chiaro che condizionare la sentenza del maxiprocesso non era possibileÂ
Su questo punto si fa riferimento alle conclusioni raggiunte dalla Corte dâAssise di Caltanissetta con la sentenza n. 23/1999: âLe dichiarazioni di Giovanni Brusca, che ha riferito che Cosa nostra era a conoscenza del fatto che Borsellino voleva capire le ragioni dellâattentato a Falcone e voleva continuarne lâopera, dimostrano inequivocabilmente come non fosse sfuggita a quella consorteria criminale la manifestazione di intenti coraggiosamente enunciata dal magistrato in un momento in cui un senso di frustrazione poteva assalire gli investigatori per la gravitĂ del reato che tale sodalizio era stato in grado di porre in essere. Ben comprensibile doveva essere, quindi, lâallarme suscitato in Cosa nostra dalle esternazioni del magistrato, allarme destinato ad acuirsi quando nel giugno del 1992 incominciarono, dopo un lungo periodo di interruzione di nuove scelte collaborative, le collaborazioni del Mutolo e del Messina, ed entrambi vennero sentiti tra il giugno e il luglio di quellâanno da Borsellino, di cui si aveva ragione di temere che potesse nuovamente ripetere, dallâalto della sua grande esperienza e capacitĂ e grazie alle piĂš recenti acquisizioni probatorie che i predetti consentivano, le fruttuose inchieste che avevano portato al primo maxiprocesso. Ed appare ovvio che le indagini che maggiormente si prospettavano dannose per gli esponenti di Cosa nostra erano da una parte quelle aventi a oggetto i delitti di sangue, puniti con la pena perpetua, veramente temuta dagli affiliati (âŚ), dallâaltra le indagini che toccavano gli interessi strategici dellâorganizzazione, e cioè le sue fonti di arricchimento e i collegamenti con ambienti del mondo politico e imprenditorialeâ.
Per i giudici furono i timori di Cosa nostra legati al crescente impegno profuso da Borsellino nellâinchiesta mafia-appalti, di cui si era occupato Falcone prima della morte, ad accelerare lâesecuzione del magistrato: âVarie deposizioni dimostrano che Borsellino aveva mostrato particolare interesse dopo la morte di Falcone alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti, e ciò non solo perchĂŠ lo riteneva di fondamentale importanza per quella organizzazione ma anche perchĂŠ convinto che potesse lĂŹ rinvenirsi una delle principali ragioni della strage di Capaciâ.
Borsellino âstava giĂ traducendo in atti questo progettoâ, come dimostra lâincontro da lui avuto con Mori e De Donno il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, in cui venne proposta âla costituzione presso il Ros dei carabinieri di un gruppo coordinato dal De Donno che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia e appalti, riferendo direttamente ed esclusivamente a Borsellinoâ. Anche la scelta da parte di Borsellino degli investigatori cui affidare lâinchiesta che maggiormente gli stava a cuore in quel momento ânon era casualeâ, scrivono i giudici, se si considera che De Donno era lâautore delle indagini che avevano portato alla stesura del rapporto su mafia e appalti che era stato inizialmente consegnato a Falcone.
Borsellino era cosĂŹ convinto dellâimportanza dellâinchiesta mafia-appalti che ne parlò anche con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini su Mani pulite, come da questi rivelato nel corso di una testimonianza nel processo: âIl senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quellâorganizzazioneâ. Dal momento che dalle indagini effettuate dai Ros stavano emergendo nomi che rientravano anche nellâinchiesta di Mani pulite, Di Pietro e Borsellino si mostrarono intenzionati a âsviluppare di comune intesa delle modalitĂ investigative, fondate anche sulle conoscenze giĂ acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altroveâ.
Le dichiarazioni rilasciate nel processo da Brusca e, soprattutto, da Angelo Siino, colui al quale era stato affidato il compito di gestire per conto di Cosa nostra lâintero sistema di appalti pubblici a Palermo, per i giudici âhanno confermato che ancora una volta lâacume investigativo di Borsellino aveva colto nel segno, intuendo ben al di lĂ di quanto ancora era emerso dal primo rapporto del Ros quanto fosse strategico per Cosa nostra il suo coinvolgimento nella gestione degli appaltiâ. In particolare, âSiino ha riferito che Cosa Nostra sapeva che anche Borsellino aveva espresso sui giornali la conoscenza su quel fenomeno e la convinzione che uno dei motivi dellâattentato a Falcone risiedesse proprio nellâacquisita consapevolezza da parte sua di quel collegamento perversoâ.
Massimo Ciancimino e il papello âsu cui si fonda buona parte del costrutto accusatorio⌠frutto di una sua grossolana manipolazioneâÂ
Borsellino fu quindi ucciso proprio per i crescenti timori di Cosa nostra circa lâinchiesta mafia-appalti: âAppare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto allâepoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Costa nostra, tuttavia lâinteresse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini, unitamente allâincarico che egli ricopriva nellâUfficio titolare dellâinchiesta e ancor piĂš la prospettiva dellâincarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dellâattentato a quel magistrato subito dopo quello a Falconeâ.
IL FOGLIO 30.6.2019
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âTrattativa Stato-mafiaâ – La Cassazione demolisce le accuse. Depositate le motivazioni
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