VIA D’AMELIO in Commissione Antimafia Sicilia

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La RELAZIONE finale

 

Palermo 9 Dicembre 2019 – RELAZIONE FINALE COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIAIncontro pubblico con Fava, Scarpinato e Borsellino

 

 

 

 

presentata la 2° PARTE DELLA RELAZIONE SUL DEPISTAGGIO

 

 

13.7.2021 Borsellino, l’Antimafia regionale: “Depistaggio mai finito. Ancora silenzi da 007 Abbiamo sentito l’esigenza di tornare a occuparci del depistaggio sulle indagini di via d’Amelio perché ci siamo convinti che esisteva un perimetro di responsabilità, di reticenza, di irregolarità formale, procedurale e investigativa che andava oltre la Sicilia, che investiva anche la dimensione nazionale, apparati dello Stato, della politica. Ma c’è anche un’altra ragione che in corso d’opera si è manifestata: la sensazione che questo depistaggio non sia mai finito“. Così Claudio Fava, presidente della commissione regionale antimafia dell’Ars presentando la seconda relazione sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino del 19 luglio 1992.“Continuano a mancare delle risposte. E’ forse – aggiunge – il tratto più imbarazzante di questa vicenda, e come se da 29 anni coloro che una risposta possono darla e cercarla hanno deciso di non farlo, ritenendosi del tutto soddisfatti di queste parziali verità che si sono accumulate“.“Facciamo l’esempio dei Servizi di intelligence – ha proseguito – oggi il Sisde potrebbe chiedersi che cosa accadde dalla sera del 20 luglio quando al procuratore Tinebra e al capo della polizia Parisi venne sollecitato un intervento diretto e manifesto e palesemente contrario alla legge dell’allora Sisde. Da 29 anni i servizi di intelligence continuano a convivere serenamente con il sospetto che forse in passato apparati dei Servizi sono stati coinvolti in questa vicenda, nella strage prima e nel depistaggio dopo, senza che si sia trovato la determinazione per portare in fondo le domande, per provare a ricostruire le catene di comando e per individuare le eventuali responsabilità“.

“Al di là dei fatti ricostruiti, noi pensiamo che la funzione di questa relazione sia anche quella di spiegare che c’è una parte del Paese che non si rassegna all’idea che ci si debba accontentare di mezze verità su quello che è accaduto in via d’Amelio“, spiega Fava, presidente della commissione regionale antimafia dell’Ars presentazione la seconda relazione sul depistaggio.

“Se mettiamo insieme tutto questo ne viene fuori un quadro preoccupante – ha sottolineato – non soltanto per quanto tenace sia ancora oggi il tentativo di portare se non le indagini, ma la ricostruzione sulla verita’ storica di via d’Amelio su lidi più sicuri, ma anche sul fatto che su molte di queste domande ci sono oggi soggetti istituzionali che hanno strumenti per dare risposte che non vengono date. Come se la corda pazza rappresentata da questa strage e’ una corda che fa ancora molto paura per cui va accarezzata con molto prudenza o va del tutto ignorata”. IL SICILIA 13.7.2021


13.7.2021 “Via D’Amelio, un depistaggio che non è mai finito”Fava, indagine sui beni confiscati  Fava: “Reticenze e irregolarità investigative che vanno oltre i confini siciliani” “Abbiamo sentito l’esigenza di tornare a occuparci del depistaggio sulle indagini della strage di via D’Amelio perché siamo certi che le reticenze e le irregolarità investigative vadano oltre i confini siciliani e che questo depistaggio non sia mai finito. Il tentativo di manipolare la verità optando per versioni più confortanti come quella che la strage sia l’ultimo colpo di coda di Riina per vendetta verso Borsellino e che tutto sia riconducibile solo a Cosa nostra lo troviamo riproposto ora e questo è un filo preoccupante che lega episodi lontani nel tempo. Filo che unisce tentativi di declassificare l’attentato a Borsellino a sola cosa di mafia e che troviamo riproposto nelle parole del collaboratore di giustizia Avola”. Lo dice il presidente dell’Antimafia regionale Claudio Fava illustrando la relazione della commissione sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta. LIVE SICILIA 13.7.2021


13.7.2021 Borsellino, l’Antimafia Sicilia accusa i servizi: “Nessuna collaborazione con la nostra indagine. Preferiscono accettare sospetti sul coinvolgimento nella strage di via d’AmelioDopo la relazione di tre anni fa, negli ultimi mesi la commissione guidata da Claudia Fava è tornata ad occuparsi della strage del 19 luglio 1992 per ricostruire i vari punti rimasti inevasi. A cominciare dal ruolo dei servizi. Che però, 29 anni dopo la strage, non hanno voluto collaborare al lavoro di ricostruzione dell’organo parlamentare. Il direttore dell’Aisi, Mario Parente, ha declinato l’invito a essere audito. “E’ grave – scrive la commissione – che l’intelligence italiana abbia accettato – e continui ad accettare – di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia”  di Manuela Modica

Un’informativa dei servizi che già pochi giorni dopo la strage di Capaci lanciava l’allarme sulla vita di Paolo Borsellino. La presenza di uomini “dei servizi” in giacca e cravatta in Via D’Amelio, pochissimi minuti dopo la strage, alla ricerca dell’agenda rossa. Il ruolo del Sisde di Bruno Contrada nelle prime indagini della Procura di Caltanissetta. Sono questi i tre punti chiave tratteggiati nella relazione della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana sulla strage dei 19 luglio 1992. Già tre anni fa l’organo guidato da Claudio Fava aveva pubblicato una relazione in cui, essenzialmente, ricostruiva come depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio fosse cominciato ancor prima che lo stesso Borsellino venisse assassinato. Negli ultimi mesi la commissione siciliana è tornata ad occuparsi dell’argomento, per ricostruire i vari punti rimasti inevasi. A cominciare, appunto, dal ruolo dei servizi. Che però, 29 anni dopo la strage, non hanno voluto collaborare al lavoro di ricostruzione di Fava. La commissione Antimafia siciliana, infatti, ha convocato in audizione il direttore dell’Aisi, Mario Parente, che però ha declinato: “Nessuna risposta dell’Aisi, nessuna collaborazione, nessuna disponibilità a riferire dinnanzi ad una commissione d’inchiesta parlamentare quali siano state – su questo punto e su molti altri – gli interventi, le valutazioni e le interferenze del Sisde nelle indagini sulla strage di via D’Amelio”, si legge nella relazione finale dell’Antimafia appena resa nota. “Quello che emerge è un quadro preoccupante. Il depistaggio non è mai finito e ancora oggi c’è un tentativo di manipolare la verità. Anche dietro le ricostruzioni fantasiose del pentito Maurizio Avola c’è il tentativo di ridurre tutto alla questione di una vendetta della mafia contro il giudice. Abbiamo un filo che da 29 anni tiene insieme tutto e che ha come obiettivo quello di portare fuori strada la lettura complessiva di via d’Amelio”, ha spiegato Fava in conferenza stampa.

Il silenzio dell’intelligence – Ma neanche Giuliano Amato, all’epoca presidente del consiglio, ha voluto presentarsi di fronte alla commissione: “Avremmo voluto chiedere al professor Giuliano Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, e dunque l’autorità a cui rispondevano funzionalmente i nostri servizi di intelligence, se ebbe mai sentore di questa collaborazione così impropria. Il professor Amato ha ritenuto di declinare l’invito di questa Commissione”. Amato, però, spiega il perché: “… Quanto alla catena delle comunicazioni e delle decisioni istituzionali riguardanti il Sisde, so quanto conseguiva dall’allora vigente legge n. 801, che poneva il Presidente del Consiglio in rapporto costante con il segretario generale del Cesis, allora l’ambasciatore Fulci… Non essendo in grado di fornire altri elementi utili oltre a quelli qui menzionati e citati, non ravviso le condizioni per accogliere il Suo invito”. A rispondere, però, saranno altri che sottolineeranno il ruolo dei servizi prima e dopo la strage. Per questo a conclusione, la commissione sottolinea: “È grave che l’intelligence italiana abbia accettato – e continui ad accettare – di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia”. Evidentemente, continua l’organo guidato da Fava, si tratta di “un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa”.

L’informativa sul rischio attentati – In 88 pagine di relazione, la commissione ripercorre molti dei punti ancora oscuri sulla strage di via d’Amelio. “Progetto di attentato in persona del dottor Paolo Borsellino”: è il 28 maggio del 1992, il centro Sisde di Palermo trasmette un’informativa alla direzione di Roma con questo oggetto. Mentre, sempre negli stessi giorni, un’altra informativa del Ros indica come Borsellino e Antonio Di Pietro siano nel mirino di attentati. La strage di Capaci risale solo a pochi giorni prima: la famiglia di Di Pietro verrà mandata all’estero e al pm di Mani pulite verrà rafforzata la scorta. Borsellino invece sprofonderà sempre più nell’isolamento: la nota del Ros che smuove la sicurezza in tutta urgenza per Di Pietro sarà inviata a Palermo per posta ordinaria: “Arriverà solamente quattro giorni dopo che l’inferno ha fatto tappa in via D’Amelio”. Il caposcorta di Borsellino, l’unico sopravvissuto, Antonio Vullo conferma in commissione che di quelle informative gli agenti – e lo stesso magistrato – non sapevano nulla. Mentre anche Di Pietro si chiede come sia stato possibile che quella del Ros fosse inviata con posta ordinaria: “Questo me lo chiedo anch’io sinceramente – ha detto l’ex leader di Italia dei valori alla commissione siciliana -. È senza una logica… Anche perché, voglio dire, poche settimane prima era stato ammazzato Falcone, non è che stiamo parlando che era una cosa a ciel sereno… in quei giorni era una carneficina continua”. Una carneficina destinata a continuare anche a causa degli inspiegabili ritardi nel garantire la sicurezza di Falcone.

Gli uomini in “giacca e cravatta” sul luogo della strage – Un inferno di fuoco. Lo scenario in via D’Amelio dopo l’esplosione è apocalittico. Sulla scena irrompono subito “quattro o cinque uomini” in “giacca e cravatta, belli freschi”, “gente di Roma”. Gente dei servizi che spunta a pochi passi dal cadavere di Borsellino solo pochi minuti dopo l’esplosione della Fiat 126 imbottita di tritolo. “Cioè la cosa strana è che io notai molta gente che si aggirava giacca e cravatta dei Servizi. Ho detto: “Ma questi come hanno fatto… a sapere già…? Ma dopo dieci minuti io già ne avevo visto un paio là che gironzolavano”. Il racconto appartiene al sovrintendente Francesco Paolo Maggi ed è stata resa al processo “Bosellino quater”. Maggi è all’epoca in servizio presso la squadra mobile di Palermo. Lui e Giuseppe Garofalo, oggi ispettore, furono i primi due poliziotti ad arrivare in Via D’Amelio. E di quegli uomini in giacca e cravatta ce n’è uno in particolare che nota Garofalo: “Abito civile, vestito con una giacca, ecco, la cosa che ha attirato la mia attenzione è stata proprio che aveva una giacca e in estate nessuno porta la giacca e questo è stato il momento in cui io ho avuto un minimo di attenzione… ma anche perché era lì, ora non ricordo se mi ha chiesto della borsa del dottore Borsellino, o piuttosto era in possesso della borsa”, ha detto il poliziotto alla commissione guidata da Fava, che sottolinea nella relazione: “Dietro a quello che può apparire come un ricordo sfuocato potrebbe celarsi la fase embrionale del depistaggio. Ossia il momento in cui l’agenda rossa di Paolo Borsellino scompare (o, per meglio dire, viene fatta sparire) dalla scena del crimine”. Ma perché scompare l’agenda rossa? A questa domanda prova a rispondere Roberto Scarpinato, all’epoca nel pool di Falcone e Borsellino: “Non basta uccidere Borsellino. Perché se tu lo uccidi, vabbè, Cosa nostra ha fatto quello che doveva fare. Ma se l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato tutti i dialoghi informali e così via finisce nelle mani della magistratura è finita. È finita perché… le chiavi che lo avevano sgomentato sono in grado di aprire scenari che non colpiscono soltanto gli interessi di Cosa nostra ma colpiscono e portano ad individuare i mandanti ed i complici esterni di quella strage”.

La Procura di Caltanissetta sceglie il Sisde – Un altro punto su cui ha lavorato l’Antimafia è la scelta della procura di Caltanissetta, all’epoca guidata da Gianni Tinebra, di avvalersi della collaborazione del Sisde di Contrada per indagare sulla strage, già nelle ore immediatamente successive all’esplosione di via d’Amelio. Una decisione vietata per legge oltre che irrituale, anche perché esistevano “altri corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta”, scrive Fava. E Claudio Martelli, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia, ha detto: “Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini”. Mentre la Dia venne esclusa, e su questo punto l’ex pm Antonio Ingroia sottolinea di fronte alla commissione: “All’epoca il capo della Dia era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino”. “Il ruolo svolto dal Sisde nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio non era noto”, conferma alla commissione Massimo Brutti, allora presidente del comitato di controllo parlamentare di controllo sui servizi segreti. Ma nelle indagini della commissione regionale Antimafia entrano anche i fondi neri del Sisde. È Contrada che riferisce alla commissione di soldi dati sottobanco al prefetto di Palermo Mario Iovine, il segretario personale di Dalla Chiesa, e Arnaldo La Barbera: “Siccome al dottor La Barbera piaceva soggiornare in albergo, quindi, per venire incontro alle sue esigenze economiche gli faceva avere mensilmente il denaro”. IL FATTO QUOTIDIANO 13.7.2021


17.6.2021- ROBERTO SCARPINATO / STRAGI, I MANDANTI POLITICI Nell’agenda rossa di Paolo Borsellino, incredibilmente sparita, c’erano di sicuro le prove sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio. La prova che ‘menti raffinatissime’ hanno coordinato la strategia stragista, che il rapporto tra mafia e politica era diventato ormai organico e che spesso e volentieri la mafia era il braccio armato per eseguire copioni di stampo politico.

E’ il senso delle fresche dichiarazioni rese dell’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti alla commissione regionale antimafia che indaga sul depistaggio delle indagini per la strage di via D’Amelio, culminate con il taroccamento del ‘pentito’ Vincenzo Scarantino e oggi al centro del processo che vede come imputati tre poliziotti mentre le posizioni di due magistrati (Anna Maria Palma e Carmelo Petralia) che avevano per primi svolto le indagini sono state archiviate.

Ecco alcune tra le più significative dichiarazioni di Scarpinato. 

  • “Non bastava uccidere Borsellino, si doveva far sparire l’agenda rossa, perché se fosse stata trovata sarebbe finito tutto, visto che dentro c’erano chiavi in grado di aprire scenari che colpivano i mandanti esterni”.
  • “La bomba la fanno esplodere i mafiosi, ma l’agenda la fanno sparire soggetti insospettabili che possono agire sfruttando la loro veste istituzionale. Nella borsa di Borsellino c’erano due agende. Una viene lasciata, l’altra sparisce. Si capisce che non è un’operazione protocollare dei Servizi”.
  • “Il capitano Arcangioli (Giovanni Arcangioli, indagato per la sparizione dell’agenda rossa ma subito prosciolto, ndr) prende la borsa dalla macchina di Borsellino e si allontana, poi torna indietro e la rimette nell’auto. La borsa a quel punto resta integra, nonostante un nuovo incendio si fosse sviluppato nell’abitacolo, solo perché un vigile spegne il fuoco”.

Poi Scarpinato parla di un’altra misteriosa sparizione, stavolta relativa ad alcuni documenti che Giovanni Falcone custodiva nel suo ufficio al ministero della Giustizia dove aveva iniziato a lavorare (guardasigilli, all’epoca, Claudio Martelli). Osserva l’ex procuratore generale di Palermo: “Dopo la strage di Capaci, nella stanza di Falcone entrano alcuni sconosciuti che accendono il pc del magistrato e guardano alcuni file. Dalla perizia fatta si vide che furono aperti solo i documenti relativi all’omicidio Mattarella e a Gladio”.

Scarpinato rammenta un dialogo avuto con Falcone, nel corso del quale gli disse che “se avesse fatto il procuratore nazionale Antimafia avrebbe fatto cose che nessuno si aspettava grazie a nuove collaborazioni che stavano maturando”.

Sulla decisione di anticipare la strage di via D’Amelio, Scarpinato la motiva con il fatto che Totò Riina “aveva preso accordi con soggetti esterni”.

Osserva ancora: “Negli omicidi Dalla Chiesa, La Torre e Mattarella la mafia è il braccio armato di altri che hanno usato la causale mafiosa per occultare causali politiche che se svelate avrebbero destabilizzato il sistema”.

“Borsellino venne travolto dal grande gioco, ma quello che mi angoscia è ciò che continua ad accadere e che mi fa pensare che la storia continui ancora”.

Entrando ancor più nel vivo, Scarpinato sottolinea che “Paolo Borsellino forse aveva capito che c’erano dei pezzi esterni a Cosa Nostra invischiati nella strage di Capaci. Lui capisce che sarà la mafia a ucciderlo, ma che al contempo ci sono entità superiori che lo decideranno prima. Borsellino è inquieto, sua moglie ricorda che aveva dei conati di vomito. Acquisisce altre notizie con cui capisce che c’era un continuo colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato”.

“Prima della strage di via D’Amelio c’è la morte di Vincenzo Milazzo, che evidenzia la costante presenza di soggetti appartenenti a settori deviati in tutta la stagione stragista. Sono soggetti che portano interessi convergenti all’organizzazione. Ma nella strage di via D’Amelio questi interessi sembrano addirittura sovrapporsi a quelli mafiosi. Riina dice che non può aspettare 19 giorni e che la strage va eseguita prima. Riina non dà spiegazioni che siano coerenti con gli interessi di Cosa Nostra, taglia corto e dice di assumersi la responsabilità. Viene ritenuto pazzo dai suoi, ma la verità è che aveva preso un impegno con soggetti esterni e stava sacrificando gli interessi della sua organizzazione. Ma la vera domanda è: cosa poteva fare Borsellino in 19 giorni di così pericoloso tanto da far sacrificare a Riina gli interessi di Cosa Nostra?”.

La strage di via D’Amelio – secondo Scarpinato – “continua ad essere un affare di Stato, un war games. La storia di via D’Amelio non è finita, è ancora tra noi, il depistaggio continua, anche mettendo in giro falsità. La sparizione dell’agenda rossa è stato il colpo da maestro che dimostra che c’è un apparato che si muove. Il depistaggio parte da là. E ciò che è avvenuto e continua ad avvenire sono i silenzi”.

Una solo domanda. Come mai, nella sua lunga ricostruzione, Scarpinato – a quanto pare – non ha fatto alcun cenno ad una delle piste più credibili come movente per le stragi, quella “Mafia-Appalti” sempre indicata, per fare un solo nome, da Fiammetta Borsellino, l’indomita figlia di Paolo che continua a puntare l’indice contro i magistrati incaricati delle indagini durate tanti anni e che hanno portato al processo farsa costato 16 anni di condanna a degli innocenti? E come mai nessun componente della commissione Antimafia regionale ha pensato bene di chiedere qualcosa in proposito a Scarpinato? Giugno 2021 di: PAOLO SPIGA – voci delle voci


 25.5.2021 AUDIZIONE ANTONIO INGROIA.”Borsellino: Ingroia, indagini volte a puntare solo su mafia. “La conduzione delle indagini sulla  strage di Via d’Amelio di Tinebra era finalizzata a sottodimensionate, ad evitare di mettere in mezzo profili diversi da quelli dei mafiosi, a far risultare che era solo lamafia che si vendicava del maxiprocesso. Era la lettura che doveva passare e Scarantino è stato il cacio sui maccheroni”. Lo ha detto l’ex pm Antonio Ingroia sentito dalla commissione regionale Antimafia sul depistaggio delle indagini sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino.Ingroia ha anche parlato del rapporto mafia-appalti sul quale Borsellino conduceva una indagine informale dopo aver saputo che Giovanni Falcone se ne era occupato e ne aveva lasciato traccia in alcuni diari.    “Borsellino era sbalordito che Falcone avesse diari – ha aggiunto Ingroia – perché aveva detto in vita che non ne avrebbe mai tenuto uno e allora mi disse: ‘se Giovanni ha cominciato a tenere una agenda vuol dire che doveva scriverci cose gravi ‘. E fu per questo che Borsellino cominciò a lavorarci, tenendo conto che quando era in Procura a Marsala aveva già avutol’impressione che a Palermo stessero  insabbiando il rapporto mafia-appalti”    Ingroia ha ricordato che a Borsellino non fu mai detto che il rapporto a Palermo stava per essere archiviato. “Mi disse che i pm di Palermo, non ricordo se Lo Forte o Pignatone, non gli raccontavano la verità”, ha spiegato. (ANSA).   


MAFIA. VIA D’AMELIO, INGROIA: TINEBRA ESCLUSE PROFILI ISTITUZIONALI  EX PROCURATORE AGGIUNTO DI PALERMO ASCOLTATO IN ANTIMAFIA ARS  (DIRE) Palermo, 25 mag. – “È Ovvio che la conduzione delle indagini su via D’Amelio da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra era tutta finalizzata a sottodimensionare i vari aspetti della vicenda: evitare, ad esempio, di mettere in mezzo profili istituzionali e far passare la lettura della strage di mafia, cioè della mafia che si vendicava di Borsellino”. Lo ha detto l’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, nel corso della sua audizione davanti alla commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, che sta portando avanti una indagine sui depistaggi nell’inchiesta sulla strage del 19 luglio 1992. 


BORSELLINO: INGROIA, ‘RIINA CONSEGNATO PER PROSEGUIRE DIALOGO TRA STATO E MAFIAMancata perquisizione covo boss era il segreto di Pulcinella,  non si poteva fare la vigilanza’.    “Ho sempre pensato che il 15 gennaio  del 1993 Totò Riina, quando fu arrestato, sia stato consegnato da Cosa nostra come capro espiatorio in quanto principale responsabile della  stagione stragista e per proseguire il dialogo che era iniziato” tra  pezzi dello Stato e la mafia. “Ho sempre pensato che Balduccio Di  Maggio (il pentito che fece arrestare Riina ndr) lo avesse fatto  soprattuto avendo dietro Bernardo Provenzano” perché “essendo  Provenzano uomo del dialogo, più di Riina, potesse subentrare a Riina  per portare avanti la cosidetta trattativa, perché Riina aveva fissato un prezzo troppo alto”. Ne è convinto Antonio Ingroia, ex Procuratore  aggiunto di Palermo sentito in Commissione antimafia all’Ars sulla  strage di via D’Amelio. “Anche per le modalità del suo arresto,  iniziato ho sempre pensato che Balduccio Di Maggio        Per Ingroia, “la mancata perquisizione del covo di Riina è il segreto  di Pulcinella”, “è ovvio che non è stata una scelta intenzionale, non  è pensabile, se non si è fatta la perquisizione, è perché non si  poteva fare. Ha ragione il capitano Ultimo quando dice che non era  facile controllarla perché il residence era aperto da più parti”. Ter/Adnkronos)  25-MAG-21


12.5.2021 – Palermo, l’ex ministro Martelli in Antimafia: “Borsellino non fu protetto. Su questo non è mai stata aperta un’indagine”.Interrogato per un’ora e mezzo dalla commissione siciliana presieduta da Claudio Fava, l’ex guardasigilli ha puntato il dito sulla mancata protezione del giudice nonostante si sapesse che la sua vita fosse in pericolo: “Si omise anche di fare controllare la casa della madre, dove si sapeva che si recava con regolarità”. Parlando poi delle lotte intestine nella magistratura di oggi, Martelli ha attaccato l’Anm, definendolo la “principale minaccia all’autonomia dei magistrati”. di Manuela Modica | 12 MAGGIO 2021 “Io sono ancora turbato da ciò che è stato omesso di fare da tutte le autorità dello stato a Palermo nonostante tutte le segnalazioni avute da me e dal ministro Scotti (Vincenzo, capo del Viminale all’epoca delle stragi, ndr) in ordine alla protezione da mettere in atto nei confronti di Borsellino. Omissioni sulle quali non è mai stata aperta alcuna indagine”. Così parla Claudio Martelli di fronte alla commissione antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava. Interrogato per un’ora e mezzo, Martelli, che fu ministro della Giustizia all’epoca degli attentati, ha raccontato la sua versione dei fatti, puntando il dito sulla mancata protezione attivata dalle autorità nonostante si sapesse che la vita del giudice Paolo Borsellino fosse in pericolo: “Si omise anche di fare controllare la casa della madre, dove si sapeva che si recava con regolarità”. Durante l’intervento in commissione, l’ex ministro, esponente del Psi, ha risposto alle domande toccando molti aspetti di quegli anni, in primis la mancata protezione del giudice: “Come ci si può sorprendere che ci siano stati depistaggi se c’è stata già questa mancanza: una forma di omertà o di omissione più o meno consapevole”, ha detto Martelli. Una mancata protezione che non fu presa nella giusta considerazione neanche dal magistrato Giovanni Tinebra quando lui glielo sottolineò: “Tinebra rispose come se si fosse trattato di un dettaglio trascurabile”, ha riportato l’ex guardasigilli. E sulla magistratura si è soffermato più volte, incalzato da una domanda di Fava: “Com’è stato possibile, secondo lei, che mentre la procura di Caltanissetta chiedeva a Bruno Contrada di indagare, quella di Palermo indagava lo stesso Contrada: come mai due procure così vicine seguivano strade così opposte?”. Martelli ha replicato così: “La storia della magistratura inquirente degli ultimi 50 anni è talmente piena di episodi analoghi, reciproche smentite quando non reciproche guerre.La particolarità dell’episodio non è nella conflittualità della magistratura ma semmai nella vittima (Borsellino, ndr)”. Nel cuore di questi contrasti si palesava un altro magistrato, ovvero Pietro Giammanco, che Fava annota, “non è mai stato ascoltato: com’è possibile una simile omissione in un’indagine secondo lei?”. “Non si ha idea dei guasti che sono provocati dai contrasti e dalle opposte ambizioni o visioni, all’interno della magistratura”, risponde l’ex ministro della Giustizia. D’altronde, ricorda, “se non ci fossero stati questi contrasti e se Falcone non fosse stato attaccato dai corvi e poi da coloro che lo denunciarono… Se non fosse stato questo il clima a Palermo non ci sarebbe stato bisogno che io chiamassi Falcone a Roma”. E ancora: “Credo di essere stato sempre inviso al presidente Oscar Luigi Scalfaro, e credo lo fosse altrettanto Vincenzo Scotti”, sottolinea Martelli. Che inserisce Scalfaro in “quella schiera di politici prettamente democristiani, ma non solo, che riteneva che Scotti e io avessimo turbato se non quella pax mafiosa, quella ‘coabitazione’: alcuni pezzi dello stato – politici, magistrati, poliziotti – condividevano l’assunto ‘quieta non movere’, altrimenti succede il peggio”. E per Martelli è tutto già detto da Mori, nel processo sulla trattativa, quando riferisce la conversazione avuta con Ciancimino, al quale chiese di evitare il “muro contro muro: credo che in quel caso Mori abbia trattato per sé, lo Stato non tratta, non esiste, e anche quando a Conso (Giovanni, ministro della Giustizia dopo Martelli, ndr) gli si chiese perché avesse ritirato il 41 bis, lui rispose: volevamo dare un segnale di disponibilità all’ala moderata di Cosa nostra ai fini di evitare ulteriori stragi”. Dichiarazioni che secondo Martelli dicono la verità sulla trattativa: “Non capisco perché ci si sia arrovellati in processi, quando la verità è in queste dichiarazioni. Io ho pensato sempre più a un cedimento dello Stato, che non ad una vera e propria trattativa”. Un’ora e mezzo di intervento di Martelli in cui c’è spazio anche per la contemporaneità. Sollecitato da una domanda della consigliera regionale del M5s, Roberta Schillace, che gli chiede un parallelismo con le lotte intestine della magistratura di adesso, l’ex inquilino di via Arenula risponde con un attacco frontale all’Associazione nazionale magistrati, definita come la “principale minaccia all’autonomia dei magistrati. La funzione dell’Anm non era quella di difendere gli interessi dei magistrati, ma di difendere l’autonomia della magistratura. In questo momento invece è il maggior pericolo per la sua indipendenza“. IL FATTO QUOTIDIANO 12.5.2021


27.11.2018 – Mafia: strage Borsellino, oggi audizione legale pentiti all’Antimafia  (AdnKronos) – Proseguono le audizioni pianificate dalla Commissione regionale di indagine sulla mafia e la corruzione all’Ars sul cosiddetto “Sistema Montante” e sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. oggi pomeriggio, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulla strage di via D’Amelio, alle ore 14 verrà sentito dal Presidente Claudio Fava, l’avvocato Giuseppe Scozzola, difensore di collaboratori di giustizia.


23.10.2018  – IL PM PETRALIA FACCIA CHIAREZZA …


20.10.2018 – Via d’Amelio, il pm Carmelo Petralia: “Contrada e i vertici del Sisde a pranzo con i magistrati di Caltanissetta durante le indagini” – I vertici dei servizi segreti guidati da Bruno Contrada andavano a pranzo con quelli della procura di Caltanissettadurante le prime indagini sulla strage di via d’Amelio. Incontri conviviali con magistrati e 007 seduti allo stesso tavolo mentre si andava delineando quello che i giudici della corte d’Assise nissena hanno definito come uno “dei più grandi depistaggi della storia italiana“. A raccontarlo è uno dei pm che a quegli incontri partecipò di persona: Carmelo Petralia, sostituto procuratore applicato a Caltanissetta subito dopo le strage di via d’Amelio. LEGGI TUTTO 


19.10.2018FAVA: ruolo anomalo dei Servizi – Live Sicilia 


19.10.2018 – Ieri è toccato a Carmelo Canale, l’ufficiale dei carabinieri fidato braccio destro di Paolo Borsellino. La commissione regionale Antimafia lo ha ascoltato a lungo nell’ambito delle audizioni che cercano di fare luce sul depistaggio seguito alla strage di via D’Amelio. Apprendendo tra l’altro che il più stretto partner di tutte le indagini del magistrato ucciso in via D’Amelio fu sentito dagli inquirenti solo cinque mesi dopo la strage del 19 luglio. Un mistero, quello di via D’Amelio, che ancora dopo una sfilza di procedimenti e di ribaltamenti della verità processuale, presenta molte zone oscure. I deputati della commissione presieduta da Claudio Fava, audizione dopo audizione, stanno mettendo insieme un ordito delle complesse trame di quegli anni. E affiancando un pezzo accanto all’altro “la sensazione è che i servizi segreti in quella inchiesta fossero di casa e che abbiano avuto un ruolo determinante nella costituzione del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino e nell’accompagnare nelle prime indagini la procura di Caltanissetta”, dice Fava.Un’anomalia, quella del ruolo dei servizi nei fatti di via D’Amelio, sottolinea Fava. “Sta emergendo un ruolo del Sisde assolutamente anomalo – dice il presidente della commissione –. Anomalo perché molto dinamico e fuori dai limiti fissati dalla legge che prevede che la magistratura possa affidare solo alla polizia giudiziaria l’attività di indagine”. E l’anomalia-servizi è entrata in diverse delle audizioni svolte fin qui dalla commissione. Sedute in cui i protagonisti dell’epoca hanno raccontato di pagine misteriose, di documenti che non si trovavano più per poi riapparire, di fatti in buona parte già affrontati nei processi come la storia dei verbali dei confronti di Vincenzo Scarantino – il pentito farlocco sulle cui dichiarazioni si costruì l’impalcatura dell’accusa che portò alle condanne poi cancellate dalle nuove indagini nissene – con quelli che lo confutavano, acquisiti agli atti molto tempo dopo.Utile ai commissari e molto circostanziata la testimonianza dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che aveva difeso alcuni imputati ingiustamente accusati da Scarantino. Nei giorni scorsi è stato audito anche l’ex procuratore capo Piero Grasso. Un passaggio anche qui denso di ricostruzioni di quei fatti controversi. Si è parlato ad esempio di come Gaspare Spatuzza già nel 1998 avesse riferito in un colloquio investigativo, che quelle raccontate da Scarantino erano bugie. Perché quello che colpisce, nel rivedere la storia delle dichiarazioni di Scarantino, è che in quelle bugie vi fossero tanti elementi somiglianti alla verità dei fatti poi accertata. O almeno a quella parte di verità a cui si è giunti malgrado quello che nell’ultima sentenza per la strage Borsellino è stato definito un “colossale depistaggio”. Per esempio la storia che gira attorno alla 126 poi imbottita d’esplosivo. Con dettagli già emersi ma ricordati a Palazzo dei Normanni, come l’accusa di avere rubato l’auto rivolta al fratello della proprietaria della stessa. Tanti grani di un unico rosario di misteri. “La sensazione è che ci sia stato un travaso di conoscenze dirette su cosa è accaduto in via D’Amelio da chi queste cose le conosceva perché in via D’Amelio c’era”. “La mano che si è affiancata a quella della mafia nella strage probabilmente è la stessa mano che ha accompagnato il depistaggio”, commenta Fava alla luce di quanto raccolto fin qui nell’indagine della commissione e di quanto emerso in atti processuali. Il presidente della commissione Antimafia ricorda tra l’altro la presenza dei servizi di intelligence sul luogo della strage: “Che ci fossero uomini dei servizi cinque minuti dopo la strage è stato acquisito dalle testimonianze di due esponenti delle forze dell’ordine, seppure ascoltati solo molti anni dopo”, ricorda.Tra i magistrati che indagarono all’epoca, la commissione ha sentito Carmelo Petralia, che ha accettato l’invito dei commissari. Annamaria Palma ha chiesto che prima si definisse l’indagine conoscitiva del Csm in atto. Non andrà a Palazzo dei Normanni invece Nino Di Matteo. Che, si apprende, ha cortesemente declinato l’invito per iscritto, ricordando di avere già parlato del caso davanti all’Antimafia nazionale


15.10.2018 – Strage di via D’Amelio: Grasso racconta l’inchiesta in Commissione regionale antimafia  – Per quasi due ore Piero Grasso ha ripercorso le prime fasi dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, dove nel ’92 furono assassinati il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della polizia di Stato che lo scortavano. L’audizione di piero Grasso, leader di Leu, ha fornito spunti alla commissione regionale Antimafia che sta riempiendo il dossier dell’istruttoria aperta per approfondire gli aspetti del cosiddetto depistaggio per il quale tre poliziotti che fecero parte del pool dell’ex capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, sono imputati a Caltanissetta. Mercoledì sarà sentito in Antimafia Gioacchino Genchi, l’ex poliziotto esperto di informatica.


STRAGE DI VIA D’AMELIO: il 18 luglio audizione all’ARS di Fiammetta Borsellino . La figlia del giudice, ucciso 26 anni fa, è stata ascoltata in Commissione antimafia. A convocarla il presidente Claudio Fava che, alla luce delle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, ha avviato un’istruttoria sul depistaggio delle indaginiAlla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio al via le audizioni in Commissione antimafia all’Ars per ricostruire la verità sul depistaggio.  Prossimamente potrebbero essere sentiti anche  i magistrati che negli anni si sono occupati del processo sulla strage. Allora in servizio all’ufficio inquirente c’erano Anna Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia. Il capo dei pm Giovanni Tinebra è morto…..Leggi tutto

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IL SICILIA – 10.7.2018 Intervista a Fiammetta Borsellino  

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IL SICILIA 10.7.2018

STRAGE DI VIA D’AMELIO – Audizioni

  • 11 settembre 2018  ore 14,00 – dottor Rosolino Greco dirigente generale dipartimento regionale attività produttive – Ore 15,00- dottor Francesco Nicosia, già dirigente generale dipartimento attività produttive  
  •  12 Settembre 2018  ore 14,00- dottor Vincenzo Falgares, già dirigente generale dipartimento attività produttive Ore 15,00- dottor Alessandro Ferrara, già dirigente generale dipartimento regionale attività produttive.
  •  13 Settembre 2018  ore 11,00- avvocato Calogero Montante legale del signor Vincenzo Scarantino

SALVO PALAZZOLO IN COMMISSIONE SPECIALE ANTIMAFIA REGIONE SICILIA – GAZZETTINO DI SICILIA 17.9.2018

18 luglio 2018: audizione all’ARS di Fiammetta Borsellino . La figlia del giudice, ucciso 26 anni fa, sarà ascoltata in Commissione antimafia. A convocarla il presidente Claudio Fava che, alla luce delle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, ha avviato un’istruttoria sul depistaggio delle indagini. Alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio al via le audizioni in Commissione antimafia all’Ars per ricostruire la verità sul depistaggio. Si comincia oggi, alle 14, con Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso 26 anni fa insieme a cinque agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.. Nei prossimi giorni potrebbero essere sentiti anche gli altri due figli, Manfredi e Lucia Borsellino. Inoltre, verranno ascoltati anche i magistrati che negli anni si sono occupati del processo sulla strage. Allora in servizio all’ufficio inquirente c’erano Anna Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia. Il capo dei pm Giovanni Tinebra è morto…..Leggi tutto

RASSEGNA STAMPA 

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19.7.2018

18.7.2018

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11 Settembre  2018: ripresi i lavori della Commissione Regionale contro la mafia e la corruzione, prosegue l’istruttoria sulla strage di via d’Amelio. 

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Audizione 14 Settembre 2018  

La Commissione Antimafia dell’Assemblea Regionale Siciliana ha iniziato ieri, come annunciato dopo l’audizione di Fiammetta Borsellino, la propria indagine sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Per il Presidente Claudio Fava, è stata “utile e circostanziata la lunga ricostruzione sui fatti e sulle ombre di questi anni offerta dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, che aveva difeso alcuni imputati ingiustamente accusati dal falso pentito Scarantino per la morte del giudice Borsellino.” 

 Il 20 Settembre sarà sentito il giornalista Salvo Palazzolo

Giovedì 20 la Commissione ascolterà il giornalista de La Repubblica Salvo Palazzolo “che – afferma Fava – su quel depistaggio ha scritto cronache, accurate e preziose e che oggi si trova a pagare il suo scrupolo di giornalista con una perquisizione che riteniamo un atto tardivo ed eccessivo”.

 

da relazione sul depistaggio.

“Se mettiamo insieme tutto questo ne viene fuori un quadro preoccupante – ha sottolineato – non soltanto per quanto tenace sia ancora oggi il tentativo di portare se non le indagini, ma la ricostruzione sulla verita’ storica di via d’Amelio su lidi più sicuri, ma anche sul fatto che su molte di queste domande ci sono oggi soggetti istituzionali che hanno strumenti per dare risposte che non vengono date. Come se la corda pazza rappresentata da questa strage e’ una corda che fa ancora molto paura per cui va accarezzata con molto prudenza o va del tutto ignorata”. IL SICILIA 13.7.2021

Nella relazione Fava si spiega come il depistaggio sulla strage sia iniziato prima, ancora prima che la strage venisse realizzata. Scrive la Commissione, a conclusione della sua indagine: «Se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna».


IL GRANDE DEPISTAGGIO  Il giudizio della Corte di Assise di Caltanissetta: «E’ uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Quello c’è scritto nella sentenza sul cosiddetto Borsellino quater è stato oggetto di lunga indagine anche da parte della Commissione Antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava. Un’ottantina di pagine che tratteggiano la lunga vicenda processuale sulla strage di via d’Amelio e le gravi anomalie succedute nel corso del tempo. Da oggi e per circa trenta giorni pubblichiamo sul nostro Blog ampi stralci della relazione. A partire dalle domande che ha posto Fiammetta Borsellino, che coraggiosamente e lucidamente, ha individuato colpe ed errori di alcuni uomini dello Stato. Dodici domande, quelle della figlia del procuratore, che attendono ancora risposta. Un “vuoto di verità” che scandisce da quasi trent’anni le morti di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina. La commissione Fava evidenzia come “ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’Appello nel giudizio Borsellino 1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino”. Eppure si è andati avanti ugualmente con la storia del picciotto della Guadagna, il “pupo vestito” che doveva apparire per forza attendibile. Nella relazione Fava si spiega anche come il depistaggio sulla strage sia iniziato prima, ancora prima che la strage venisse realizzata. Scrive la Commissione, a conclusione della sua indagine: «Se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna». Depistaggi, omertà, falsi pentiti, funzionari infedeli. Una strage non di sola mafia.

L’inchiesta della commissione Fava Tra i poteri che la riformata Legge r. n. 4/1991 attribuisce alla Commissione Regionale Antimafia vi è quello di indagare sul rapporto tra mafia e politica e sulle manifestazioni di questo rapporto che, nei successivi momenti storici, hanno determinato stragi di carattere politico-mafioso. Una caratteristica, quella appena enunciata, che trova un paradigma perfetto nella strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina. La lunga vicenda processuale, il cui culmine è rappresentato dalla sentenza emessa il 20 aprile 2017 dalla Corte di Assise di Caltanissetta per il cosiddetto Borsellino quater, arriva alla conclusione che – nell’ambito della gestione delle attività investigative atte a fare luce su chi fossero gli esecutori ed i mandanti, interni ed esterni, dell’attentato – si consumò, così come si legge nella motivazione depositata il 30 giugno 2018 “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Questa Commissione intende condividere senza riserve gli interrogativi lanciati nelle conclusioni della citata sentenza, nonché aderire a quell’esigenza di verità che la dottoressa FIAMMETTA BORSELLINO – da noi audita il 18 luglio 2018 – ha ancora una volta coraggiosamente rappresentato anche in questa sede. Un lavoro d’inchiesta che la Commissione ha svolto nel pieno rispetto dell’attività dell’Autorità Giudiziaria, cui non ha inteso sovrapporsi, cercando di mettere a fuoco il perimetro delle responsabilità politiche, giudiziarie e istituzionali, ancorché senza rilievo penale, che hanno determinato, accompagnato o coperto il depistaggio di cui parla la sentenza citata in premessa. Il nostro ciclo di audizioni ha ripercorso i fatti attraverso diversi testimoni di quella stagione, tutti a vario modo protagonisti (per ragioni d’ufficio giornalistico, investigativo o giudiziario) delle indagini sulla strage di via D’Amelio. In particolare la Commissione ha ascoltato due degli inquirenti che all’epoca si occuparono dei processi Borsellino 1, bis e ter (i magistrati PAOLO GIORDANO e CARMELO PETRALIA); uno degli inquirenti che si è occupato del Borsellino quater (il magistrato NICO GOZZO), l’ex responsabile del servizio ispettivo del DAP (il magistrato ALFONSO SABELLA); l’ex Procuratore Nazionale Antimafia (il magistrato PIETRO GRASSO); la presidente di sezione del Tribunale di prevenzione di Napoli (il magistrato ANGELICA DI GIOVANNI); i difensori di alcuni imputati falsamente accusati da Scarantino e dagli altri sedicenti “pentiti” (gli avvocati GIUSEPPE SCOZZOLA e ROSALBA DI GREGORIO); uno degli investigatori di punta del gruppo investigativo Falcone/Borsellino (il dottor GIOACCHINO GENCHI); il più stretto collaboratore di Paolo Borsellino (il colonnello dei carabinieri CARMELO CANALE); due giornalisti che, in tempi diversi, sono stati testimoni di alcuni degli avvenimenti che hanno caratterizzato questo depistaggio (SALVO PALAZZOLO del quotidiano La Repubblica ed ANGELO MANGANO, ex corrispondente di Italia 1). La Commissione ha altresì acquisito – e utilizzato – tutti gli atti giudiziari ostensibili, documentazioni e corrispondenze (anche personali), nonché i verbali delle testimonianze rese nel corso del processo di Caltanissetta dai magistrati ILDA BOCCASSINI, FAUSTO CARDELLA, NINO DI MATTEO, ANNA PALMA e ROBERTO SAJEVA. Ciascuno di loro è stato invitato per essere audito dalla nostra Commissione ma tutti, adducendo diverse giustificazioni, hanno scelto di declinare l’invito.

Le domande di Fiammetta Borsellino  Attraverso questa indagine, la Commissione ha inteso focalizzare le forzature e le omissioni investigative che hanno caratterizzato, nella loro prima fase, le indagini sulla strage di via D’Amelio, e segnatamente:

  • i primi rilievi investigativi effettuati il 19 luglio 1992;
  • il rapporto tra magistratura inquirente e i servizi di sicurezza nell’organizzazione e nella gestione delle indagini;
  • la genesi del gruppo d’investigazione “Falcone-Borsellino”;
  • il mancato coordinamento nelle indagini tra la Procura della Repubblica di Caltanissetta e quella di Palermo;
  • la gestione della collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri sedicenti collaboratori di giustizia;
  • le anomalie procedurali e documentali registrate nel corso del Borsellino 1 e bis.

 

A questi vulnus si aggiunge la particolarità delle relazioni fra il dottor Paolo Borsellino e le due Procure, Palermo e Caltanissetta, nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Anche su questi elementi, emersi nel corso dell’indagine, la Commissione ha inteso proporre un approfondimento. L’indagine non si è sottratta, naturalmente, alla necessità di ricostruire, accanto alle parziali certezze acquisite nelle sentenze di Caltanissetta, il contesto criminale ed eversivo in cui maturò la decisione di uccidere il giudice Borsellino. Arrivando alla conclusione, come vedremo, che la stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa Nostra nell’organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio ed allontanare le indagini dall’accertamento della verità. Architrave dell’indagine, come detto, sono state le domande che la famiglia del dottor Paolo Borsellino ha rivolto per anni in ogni ambito e livello istituzionale, ricevendo risposte a volte parziali, a volte contraddittorie, spesso reticenti. Interrogativi che la dottoressa Fiammetta Borsellino ha voluto ripercorrere con noi durante la sua audizione in Commissione:

  1. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino?
  2. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta non convocarono mai il dottor Borsellino per ascoltarlo sulla morte del dottor Falcone?
  3. Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta dell’epoca non ritennero di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco?
  4. Che ruolo ebbe l’allora Sisde sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino?
  5. Che ruolo ebbe l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
  6. Perché i pp.mm. di Caltanissetta non depositarono nel Borsellino 1 i verbali del confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che lo smentivano palesemente?
  7. Perché i pp.mm. di Caltanissetta – e, successivamente, i giudici – non tennero in considerazione le due ritrattazioni di Scarantino?
  8. Perché la dottoressa Ilda Boccassini e altri pubblici ministeri autorizzarono i componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
  9. Perché non fu mai redatto un verbale del sopralluogo della polizia assieme a Scarantino nel garage dove sosteneva di aver trasportato la 126 poi trasformata in autobomba?
  10. Chi è l’ispiratore dei verbali, con a margine delle annotazioni a penna, consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino prima dei suoi interrogatori?
  11. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione ma ai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” diretto da La Barbera?
  12. Perché i pubblici ministeri Palma e Petralia annunciarono un tentativo della mafia di inquinare le indagini subito prima dell’intervista televisiva in cui Scarantino ritrattava le proprie accuse?
  13. Al di là del giudizio in dibattimento che determinerà se vi siano state, e da parte di chi, responsabilità penali, questa relazione, per le testimonianze raccolte, i documenti recuperati e i fatti ricostruiti, ha individuato – come vedremo – certe e circostanziate responsabilità istituzionali, investigative e processuali. Anche ad esse va attribuita la responsabilità morale di questo depistaggio. Un ringraziamento, infine, ai consulenti, il presidente Bruno Di Marco e il dottor Agatino Pappalardo, che hanno reso possibile, con il loro lavoro e la loro competenza, produrre questa relazione, frutto di cinque mesi di intenso lavoro in cui l’intera Commissione ha profuso tempo, dedizione e responsabilità.

Prima sentenza e “deviazioni” istituzionali  Come detto, questa inchiesta parlamentare trae origine da quanto affermato dalla Corte di Assise di Caltanissetta nella sentenza conclusiva del cosiddetto Borsellino quater ove, a pagina 1735 delle motivazioni, si osserva: “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna e alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di via D’Amelio”, quali autori materiali nella fase esecutiva dell’attentato che, la domenica del 19 luglio 1992, costo la vita del dottor Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina, tutti appartenenti alla Polizia di Stato. Appare, tuttavia, corretto interrogarsi ulteriormente se le richiamate condanne siano riconducibili esclusivamente all’asserita deviazione istituzionale (sulla quale, così come richiesto dalla sentenza, oggi la Procura di Caltanissetta e chiamata a far chiarezza), ovvero non siano anche scaturite da clamorosi errori giudiziari, forzature procedurali, violazioni di regole processuali, reticenze e inerzie investigative. A tal fine e utile ripercorrere – nei loro passaggi, negli esiti e in talune sovrapposizioni – i quattro processi che si sono succeduti sulla strage di via D’Amelio.

Borsellino 1  La sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 27 gennaio 1996 ha riconosciuto colpevoli del delitto di strage, sulla base delle propalazioni accusatorie di Scarantino, Andriotta e Candura, per aver partecipato a vario titolo alle fasi esecutive dell’attentato e alla decisione deliberativa lo stesso Scarantino (autoaccusatosi), Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, condannando il primo ad anni diciotto di reclusione e gli altri tre all’ergastolo. Con riferimento allo Scarantino la sentenza e divenuta irrevocabile in quanto non impugnata.

La Corte d’Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 23 gennaio 1999, ha assolto Giuseppe Orofino e Pietro Scotto dal delitto di strage e confermato, viceversa, la condanna di Salvatore Profeta.

È molto importante precisare che in tale giudizio di secondo grado sono stati acquisiti, con il consenso delle parti, i verbali delle dichiarazioni rese dai collaboratori nel dibattimento in corso in primo grado, davanti alla locale Corte d’Assise, nel processo cosiddetto Borsellino bis. Egualmente significativa e la circostanza che, sempre in tale giudizio di secondo grado, il procuratore generale Roberto Sajeva aveva chiesto l’assoluzione di Orofino e Scotto, ritenendo non attendibile la chiamata in correità di Scarantino in ordine ai predetti imputati. La Suprema Corte di Cassazione (Prima Sezione) con sentenza del 18 dicembre 2000, depositata il 19 gennaio 2001, ha pienamente confermato la sentenza di secondo grado pronunciata nel corso del cosiddetto Borsellino 1.

In quest’ultima sentenza, le dichiarazioni accusatorie di Scarantino vengono ritenute attendibili solo con riferimento al segmento della fase esecutiva relativa al furto della Fiat 126. Per contro, nel resto, le propalazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta vengono valutate non attendibili e precisamente, con riferimento:

  • alla presunta riunione organizzativa di fine giugno o dei primi giorni di luglio 1992 nella villa di Calascibetta, cui avrebbe accompagnato il cognato Profeta;
  • al trasferimento e al caricamento nell’officina di Orofino della Fiat 126;
  • all’incontro di Scarantino con Gaetano e Pietro Scotto in cui avrebbe avuto conferma dell’avvenuta intercettazione in corso sulle telefonate del dottor Borsellino;
  •  alla presenza nell’autocarrozzeria di Orofino al momento dell’arrivo dell’esplosivo da caricare a bordo dell’autovettura rubata del Profeta e di altri soggetti;
  • al numero e all’identità dei soggetti presenti alle operazioni di trasporto della Fiat 126, di caricamento dell’esplosivo e del trasporto della stessa automobile il 19 luglio 1992 in via D’Amelio.
  • In tal modo le assoluzioni di Orofino Giuseppe e di Scotto Pietro sono divenute definitive, e altrettanto definitiva la condanna all’ergastolo di Profeta Salvatore.

9.3.2021 – L’antimafia siciliana prosegue le indagini  LA COMMISSIONE FAVA NON MOLLA SU SCARANTINO: CHI GUIDÒ IL DEPISTAGGIO?Il Gip di Messina ha di recente archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta Carmelo Petralia e Annamaria Palma accusati di calunnia aggravata in concorso nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Ciò ha creato un forte dissenso da parte della Commissione Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava che per questo ha deciso di usare i suoi poteri per continuare le indagini e allargarle allo scenario generale in cui avvenne il “più grande depistaggio della storia d’Italia”. Infatti la commissione da martedì scorso ha aperto i nuovi lavori e tra gli altri ha indicato il giornalista Enrico Deaglio per una audizione. È stato ascoltato con molta attenzione, gli sono state rivolte domande pertinenti, ha consegnato documentazione che gli era stata richiesta, e indicato altre persone “informate sui fatti” che possono essere utili all’inchiesta.

La Commissione ha in programma di lavorare per i prossimi mesi, rendendo pubbliche le sue acquisizioni e naturalmente rendendo note alle competenti procure le notizie di reato di cui eventualmente verrà a conoscenza. La notizia non può non far piacere a Fiammetta Borsellino, che sulle pagine de Il Riformista si è detta amareggiata per la frettolosa archiviazione della posizione dei due magistrati e soprattutto per l’indifferenza del Consiglio superiore della magistratura che non ha dato seguito al suo esposto. Se da una parte è positivo il fatto che ci sia la voglia di non far cadere nell’oblio il depistaggio e le anomalie tecniche, giuridiche e valutative che hanno visto protagonisti i magistrati coinvolti nella gestione dell’ex falso pentito Vincenzo Scarantino, dall’altra c’è però il rischio che la commissione antimafia siciliana – non volendo – faccia un remake del processo sulla Trattativa.

Un indizio proviene proprio dal giornalista Deaglio. Il quale ha scritto pubblicamente un post su Facebook nel quale ha spiegato che è stato convocato da Fava in merito alle ricostruzioni elaborate in due suoi libri, Il vile agguato del 2012 e Patria 2010-2020. Sia chiaro, va dato atto a Deaglio che è stato uno dei pochi a capire fin da subito che Scarantino era inattendibile. Recentemente, nel suo ultimo libro, ha anche criticato aspramente il lavoro di magistrati come Nino Di Matteo per la gestione del processo Borsellino. Ha perfino scritto, con grande onestà intellettuale, che per lui il processo Trattativa è “sgangherato”. Il problema è che nello stesso tempo affronta questioni che la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato mafia ha preso in realtà molto in considerazione.

sa raccontare, è un maestro nella scrittura, ma ha il difetto di essere impreciso per quanto riguarda queste tematiche e, in sostanza, avvalora la tesi di Di Matteo e colleghi. Solo a titolo esemplificativo, nel libro Il vile agguato parla anche dei mafiosi che svuotano il covo da dove è uscito latitante per l’ultima volta Riina. A pag. 61 scrive della “cassaforte divelta”, come anche altri in realtà avevano scritto in precedenza. La logica ci fa porre una domanda: che bisogno c’era di svellere dal muro la cassaforte, non bastava portarsi via il contenuto? Infatti la cassaforte sta ancora lì. Un dettaglio, ma utile per far capire che i libri non possono essere fonte di prova per una indagine. Quindi ci si augura che la Commissione vada direttamente alle fonti originali, tipo le sentenze definitive, dove facilmente si può ricostruire la verità oggettiva dei fatti.

Per questa e altre ragioni, la commissione antimafia presieduta da Claudio Fava rischierebbe di prendere un granchio e avvalorare la tesi sulla trattativa stato mafia. Basterebbe acquisire tutta quella documentazione prodotta nel processo d’appello trattativa dall’avvocato Basilio Milio, legale dell’ex ros Mario Mori. Solo così, si potrà avere una visione a 360 gradi di queste tematiche. Ci permettiamo un consiglio non richiesto. Parliamo di tematiche trite e ritrite che rischiano di “depistare” dai fatti concreti, razionali, quelli che si toccano con mano. Sarebbe il caso di non spostarsi troppo dai fatti tragici del 1992, partendo dalle indagini che stava svolgendo Paolo Borsellino finalizzate a rendere giustizia al suo fraterno amico Giovanni Falcone. I suggerimenti sono indicati dalla stessa sentenza sul depistaggio, il Borsellino Quater.

L’accelerazione dell’attentato è dovuta al suo interessamento al dossier mafia appalti. Suggerisce anche di andare a vedere che problematiche c’erano state all’interno della procura di Palermo. A tal proposito, sono molto utili i verbali delle audizioni al Csm risalenti a poche settimane dopo la strage del 19 luglio del 1992. Sono stati sentiti tutti i magistrati e vengono fuori questioni inedite. A partire dall’ultima riunione della Procura di Palermo dove partecipò Borsellino. Possibile che non si riparta da lì? La magistratura non l’ha fatto, nonostante i verbali del Csm siano stati di recente depositati al processo d’appello sulla trattativa. La commissione antimafia ha un senso solo se si occupa delle questioni ancora non vagliate fino in fondo e che gridano vendetta nella completa indifferenza. Altrimenti, non volendo, si rischia di essere alleati dei propri becchini. IL RIFORMISTA 9.3.2021 LEONARDO BERNERI


4.3.2021 – STRAGE DI VIA D’AMELIO, ENRICO DEAGLIO AUDITO IN COMMISSIONE ANTIMAFIA Il 2 marzo la commissione Antimafia ha iniziato un lavoro di indagine sulle implicazioni nazionali dell’attentato che ha messo al centro del mirino il dottor Paolo Borsellino. “C’è ancora qualcuno, animato da buone intenzioni e non rassegnato, che ci tiene a capire che cosa successe” dichiara Deaglio.  

“Buone notizie per chi è interessato alla ricerca di verità sull’omicidio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta”. Lo scrive il giornalista, scrittore e conduttore televisivo Enrico Deaglio in una nota, che così prosegue:

“La Commissione Antimafia della Regione Sicilia, presieduta dall’onorevole Claudio Fava, ha iniziato il 2 marzo scorso un lavoro di indagine non solo sul depistaggio (su cui ha già pubblicato una approfondita relazione), quanto sulle implicazioni nazionali di quell’episodio. La decisione è stata presa dopo l’archiviazione, da parte del Gip di Messina, delle accuse contro due magistrati all’epoca in servizio alla procura di Caltanissetta e indagati per la vicenda

L’archiviazione, destinata a stendere l’oblio sulla vicenda, ha trovato dunque un dissenso, da parte della Commissione Antimafia siciliana, che ha deciso di usare i suoi poteri per continuare le indagini e allargarle allo scenario generale in cui avvenne il “più grande depistaggio della storia d’Italia”.

Credo che la Commissione sia oggi l’unica (ultima?) sede che si propone di cercare verità e di non far cadere i crimini di quel periodo nella dimenticanza. Nessun’altra istituzione, che io sappia – né il Csm, né il Parlamento, né il Ministero di Giustizia, né un qualsiasi partito politico, né un qualsiasi gruppo di pressione, nemmeno una delle tante voci che operano sui social media – è interessato a sapere di più dello scempio che è stato fatto di Paolo Borsellino – in vita e in morte. Si è giunti al punto che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso, nella sua richiesta di verità trovi poche voci amiche, e di converso molte intimidazioni.

E’ quindi con molto piacere, e con altrettanta riconoscenza, che ho appreso di essere stato indicato per l’audizione della Commissione che ha aperto i nuovi lavori, il 2 marzo scorso. Il presidente Fava mi ha convocato per le notizie pubblicate in due libri, “Il vile agguato” (Feltrinelli 2012) e “Patria 2010-2020” (Feltrinelli 2020), inizio e proseguimento di un lungo lavoro d’inchiesta sul caso.

Gli argomenti su cui sono stato richiesto di riferire sono stati:

  • i  giochi di potere che permisero al semi sconosciuto commissario Arnaldo La Barbera  di assumere i pieni poteri nell’indagine sull’omicidio, di estromettere voci critiche e di avviare il depistaggio fin dall’inizio. Una posizione di potere alla quale la magistratura sembra essersi più o meno volontariamente sottomessa.
  • I legami di La Barbera con i servizi segreti e, nel contempo, con i vertici di Cosa nostra, datati da parecchio tempo; la sua conoscenza diretta di Nino Gioè, uno degli autori materiali della strage di Capaci, ben prima del 1992. La frettolosa archiviazione della morte per impiccagione di Nino Gioè nel carcere di Rebibbia (giugno 1993).
  • la circostanziata –  tanto clamorosa quanto pochissimo nota – segnalazione da parte dell’ambasciatore Fulci (rappresentante dell’Italia alle Nazioni Unite) di un concreto coinvolgimento di uomini del Sismi negli attentati della primavera estate 1993 (Firenze, Milano, Roma) e il drammatico appello che portò – sulla base di quelle notizie –  il presidente della Repubblica Scalfaro a rivolgersi alla nazione a reti unificate (novembre 93).
  • il Falso di Stato che ha circondato la cattura di Salvatore Riina e i suoi postumi.
  • La protezione offerta dallo Stato durante tutto il periodo delle stragi al clan dei fratelli Graviano, protagonisti di tutta la scena criminale del 92-93-94; e tenuti per decenni al riparo dalle inchieste giudiziarie.
  • la scandalosa “mancanza di coscienza” che ha coinvolto tutta la magistratura nella vicenda della costruzione del “falso pentito” Vincenzo Scarantino, la cui presenza sulla scena ha di fatto protetto per più di 15 anni i veri colpevoli; e lasciato in cella una dozzina di innocenti per altrettanti anni.
  • Sono stato ascoltato con molta attenzione, mi sono state rivolte domande molto pertinenti, ho consegnato documentazione che mi era stata richiesta, e indicato altre persone “informate sui fatti”, che possono essere utili all’inchiesta. La Commissione ha in programma di lavorare per i prossimi mesi, rendendo pubbliche le sue acquisizioni e naturalmente rendendo note alle competenti procure le notizie di reato di cui è venuta a conoscenza. Questa comunicazione è per dire che, anche se siamo quasi arrivati a 30 anni di distanza da quegli eventi – che peraltro cambiarono la natura della democrazia in Italia – c’è ancora qualcuno, animato da buone intenzioni e non rassegnato, che ci tiene a capire che cosa successe. 

L’agenda rossa di Borsellino  Sollecitato su questo punto, il dottor Paolo Giordano, all’epoca pm applicato alla procura di Caltanissetta e in seguito procuratore aggiunto di Tinebra, offre un ricordo assai vago:

  • FAVA, presidente della Commissione. Tornando al 19 luglio, inizialmente fu riferito ai familiari di Borsellino che la cartella del dottor Borsellino era andata distrutta nell’esplosione e poi fu invece consegnata dal dottor La Barbera ai familiari senza l’agenda rossa. Lei sa spiegarci questa discrasia di tempi, e sa se ci fu un’indagine visto che i familiari reclamavano quest’agenda rossa?
  • GIORDANO. No, credo di no… di questa cosa credo che si occupò specificatamente il collega Cardella con il procuratore Tinebra, credo che se ne occupò lui… e all’epoca La Barbera non fece parola di questa cosa quindi nessuno se ne occupò… A tal proposito, è utile leggere quanto riferito dal pm Fausto Cardella, in qualità di testimone, dinnanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta nel corso del dibattimento del Borsellino quater:
  •  CARDELLA – … Non era repertata. Adesso non ricordo, forse il termine non è esatto, ma non si sapeva nulla; si sapeva dell’esistenza, ma non si sapeva dove fosse… Fui incaricato io, ecco, questo è uno dei casi in cui nel gruppo investigativo a uno si dice: “Vacci tu”. Ricordo che andai a Palermo, presso gli uffici della Squadra Mobile… c’era questa borsa che era o era stata abbandonata su una poltrona degli uffici della Squadra Mobile e io la aprii, la repertai e credo, se non ricordo male, ci deve essere un verbale fatto da me dei contenuti di questa borsa…
  •  – (…) Lei ebbe modo di parlare con il dottore La Barbera del contenuto della borsa? E se soprattutto… il contenuto della borsa era soltanto quello che voi avete avuto modo di repertare, o c’erano delle altre cose che la borsa aveva contenuto.
  • CARDELLA – Allora, intanto devo dire che io non ricordo la genesi della mia andata a Palermo per questa borsa… E quindi, ecco, andai lì. Il contenuto non ricordo quello che ci fosse; posso escludere che ci fosse la famosa ormai agenda rossa, ma di quello che c’era dentro mi pare roba di… di non eccessiva importanza, però onestamente non ricordo nulla, comunque è sicuramente indicato nel verbale. Ovviamente ne parlai… ne parlammo, vorrei dire, con il dottor La Barbera, con il quale c’era una assidua frequentazione, professionale ovviamente e investigativa in quel periodo, ci vedevamo quasi quotidianamente, perché per una legittima, doverosa direi, curiosità di sapere: “Ma come mai ‘sta borsa?” E ricordo che egli disse che lui questa borsa se l’era ritrovata lì, perché mi pare fosse proprio su una poltrona del suo ufficio, e non sapeva esattamente come ci fosse arrivata. Almeno questo è quello che io ricordo, e soprattutto che non sapeva nulla, ovviamente, del… del contenuto di questa borsa…  Essenziale anche la versione fornita da Tinebra nel corso del suo esame in dibattimento:
  •  – Il suo ufficio, per quel che è il suo ricordo, ebbe contezza della pubblica denuncia a mezzo dei principali organi di informazione, di stampa del Paese, avvenuta il 25 o il 26 luglio 1992 da parte del dottor Antonino Caponnetto della scomparsa dalla borsa di Paolo Borsellino dell’agenda rossa della quale egli faceva uso?
  • TINEBRA – So solo che se c’era un’agenda, non l’abbiamo vista noi, non l’abbiamo proprio vista.
  •  – Sì, ma aveste notizia di questa pubblica denuncia sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali del 25 e 26 luglio ’92?
  •  TINEBRA – Ricordo poco, ma penso che sia uscito qualche cosa. Dalle parole in dibattimento della dottoressa Palma, pm anche lei a Caltanissetta e impegnata nelle indagini su via D’Amelio, apprendiamo invece che la sparizione dell’agenda rossa fosse circostanza nota agli inquirenti già a far data dai funerali del dottor Borsellino (24 luglio 1992):
  • PALMA – Il 24 luglio già si sapeva che era sparita questa agenda. (…) Sull’agenda abbiamo fatto degli accertamenti, diversi accertamenti e abbiamo fatto anche diversi esami testimoniali… diversi verbali di persone informate sui fatti, etc., e mi ricordo anche che a un certo punto, siccome c’era un bel rapporto con la famiglia Borsellino, io andai a trovare Agnese e Agnese mi fece vedere lo studio di Paolo, che io conoscevo già perché ci frequentavamo, insomma, non… E mi di… e vidi che c’era un’altra agenda e allora… C’era… credo che ci fosse anche Manfredi, ora non me lo ricordo bene, e mi disse, dice: “Questa era l’agenda di papà”. Ho detto: “Ma scusami, ma se la stanno cercando, non è che è questa?” Dice: “No, questa è l’agenda dove papà …ricopiava, appena ne aveva la possibilità, tutto quello che faceva, che annotava però sull’agenda rossa”.

Perché hanno rubato l’agenda rossa?  Riepilogando, appare chiaro che attorno alla scomparsa dell’agenda rossa del dottor Borsellino si registrano molte coincidenze negative sul piano investigativo e processuale: reticenza di taluni testimoni, presenze non giustificate dei servizi di sicurezza sul luogo della strage, incomprensibili omissioni, ingiustificati ritardi d’indagine.  Ma perché questa preoccupazione per l’agenda rossa di Borsellino? Perché la necessità di farla sparire dalla scena della strage e dalle indagini?

 “Le agende di Borsellino erano tre. C’era quella rossa, c’era quella marrone e c’era quella grigia. Quella grigia era a casa e l’ha trovata la figlia. Quella marrone e quella rossa, ci dice la figlia, furono prese quella mattina e furono messe all’interno della borsa… L’agenda rossa era quella in cui il dottor Borsellino conservava le cose più scabrose, almeno questo, purtroppo, il maresciallo Canale aveva rivelato a moltissimi suoi superiori ed era conosciuto anche a livello di altre forze di polizia. È ben possibile che ci sia stata una paura da parte di qualcuno…”. Riferisce alla Commissione su questo punto l’allora maresciallo Canale, oggi tenente colonnello:  Il dottor Borsellino… aveva tre agende… quella dell’Enel, e lui in questa agenda scriveva e documentava tutte le spese che faceva, poi ne aveva un’altra che sembrava un quadernone dove lui aveva tutti i numeri telefonici e poi ne aveva una terza… io la chiamo la cosiddetta “agenda rossa”… Su questa agenda lui annotava le cose serie, come le definisco io. Questa agenda lui la teneva sul tavolo. Da quell’agenda rossa lui non se ne staccava mai, mai, chi dice che l’agenda rossa non era al fianco di Paolo Borsellino racconta menzogne, perché lui da quell’agenda non si staccava mai.

  • FAVA, presidente della Commissione. Quando lei parla di quest’agenda al Pubblico Ministero a Caltanissetta spiegando quanto fosse importante, preziosa per Borsellino, ha avuto la sensazione che questa fosse un’informazione di poco conto?
  • Mi dispiace doverlo dire… riportai la sensazione cie loro fossero convinti che io avessi detto un cumulo di fesserie.
  • FAVA,presidente della Commissione. Nel 1992 nemmeno una attività investigativa venne fatta sull’agenda? Non fu presa assolutamente in considerazione?
  • Zero… Io, quando la vidi, la borsa, naturalmente mi misi a piangere perché vedere la borsa come era ridotta… Ma non era una borsa dove dentro si poteva bruciare l’agenda. Perché all’interno della borsa fu rinvenuta la batteria del cellulare di Paolo Borsellino, batteria regolarmente funzionante…

Laconico su questo punto il ricordo del pm Cardella nel corso della sua deposizione in dibattimento a Caltanissetta:

  •  TESTE F. CARDELLA – …ci deve essere un verbale, nel quale raccontò, se non ricordo male, di questa agenda, di Paolo Borsellino che qualche tempo prima era stato visto scrivere qualcosa su questa agenda. Ma tutto questo è quello che ricordo che Canale disse a proposito di questa agenda. Su quell’agenda rossa Borsellino “era stato visto scrivere qualcosa”, come dice Cardella? O era l’agenda da cui “Borsellino non si staccava mai” come riferisce Canale?

Sul punto Pietro Grasso non ha dubbi:   C’era una frenetica attività di scrittura di Borsellino su questa agenda rossa che poi non è stata trovata. Una volta che la dimenticò in un albergo fece come un folle per andarla a recuperare… Cioè l’importanza che le persone vicine a Borsellino davano a questa attività frenetica di Borsellino di annotare alcune cose in questa famosa agenda. In prospettiva di che cosa? Proprio del fatto di andare a riversare tutte le sue intuizioni…”. “Riversare” a chi? E qui si innesta l’altro vulnus registrato nelle settimane che precedettero la morte di Paolo Borsellino: la sua mancata convocazione presso la Procura di Caltanissetta per poter condividere valutazioni, convincimenti e informazioni che il magistrato aveva raccolto indagando sulla morte del collega ed amico Giovanni Falcone.

Mai ascoltato in 57 giorni  Perché Paolo Borsellino non fu mai ascoltato dal Procuratore Tinebra e dai pm di Caltanissetta che stavano indagando sulla strage di Capaci? Che avesse intenzione di condividere con i colleghi nisseni le sue conoscenze, la sua esperienza e le convinzioni maturate sulla morte di Giovanni Falcone, era manifesto. Eppure non fu convocato a Caltanissetta. Anche se su questo punto si registrano due versioni. C’è chi ricorda che l’incontro con il procuratore Tinebra fosse fissato per la mattina successiva alla sua morte, ovvero il 20 luglio. Riferisce in Commissione il pm Giordano:

  • GIORDANO. Guardi Presidente Fava, c’era un appuntamento, manco a farlo apposta, l’appuntamento era per il 20 luglio che era il lunedì, c’erano stati dei contatti telefonici tra Tinebra e Borsellino…

E aggiunge il pm Petralia (che ammette – per la verità – di non aver saputo di alcun incontro fissato con Tinebra per il 20 luglio):

  • PETRALIA. Devo dire che non sapevo nemmeno che il dottor Borsellino, cosa che ho letto o comunque ho sentito dire, avesse manifestato la sua volontà di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta. (…) io sono certo che se avesse manifestato questa sua volontà con uno scritto, una telefonata, saremmo corsi da lui. 

Sarebbero corsi da lui, dice Petralia. Eppure sono di tenore ben diverso i ricordi che altri auditi hanno consegnato a questa Commissione. L’allora maresciallo dei carabinieri Canale era il più stretto e fidato collaboratore del giudice Borsellino, era al corrente della sua agenda e lo ha accompagnato, quasi come un ombra, in tutti gli spostamenti, gli appuntamenti, gli interrogatori di quelle ultime settimane di vita. La sua ricostruzione è netta:

  • FAVA, Presidente della Commissione. Le risulta che fosse stato fissato l’incontro tra Borsellino e il procuratore Tinebra?
  • CANALE. No. Ma chi l’ha fissato?
  • FAVA, Presidente della Commissione. E’ ciò che fu detto poi dal procuratore Tinebra: “avevamo deciso di ascoltare Borsellino….”
  • CANALE. Quando?
  • FAVA, Presidente della Commissione. Proprio il lunedì successivo.
  • CANALE. No, no, no, no… io non so chi…
  • FAVA, Presidente della Commissione. Lei l’avrebbe saputo?
  • CANALE. Ma che c’è dubbio che l’avrei saputo!

Va ricordato, a proposito del maresciallo Canale, la scelta di trasferirlo immediatamente, dopo la strage di via D’Amelio, e di non interrogarlo per i quattro mesi successivi.

  • CANALE. La mattina del 20 luglio io vengo immediatamente trasferito… A me fu detto che per motivi di sicurezza io dovevo lasciare la Sicilia. Mi fu detto dall’allora Comandante Generale Viesti: “Da oggi ti occuperai per qualunque esigenza dei familiari di Borsellino, quando si spostano su Roma te ne occupi tu” (…) Vengo sentito la prima volta Dalla Procura di Caltanissetta dalla dottoressa Boccassini e dal dottor Fausto Cardella il 26 novembre del 1992 (…) Siccome quando io facevo le indagini avevo una brutta abitudine che quando succedeva un fatto grave, era norma andarsi a prendere tutti i familiari e portarli in caserma per sentirli nell’immediatezza, la cosa mi destava preoccupazione, anche perché io potevo essere depositario di qualche notizia importante di Paolo Borsellino… La seconda volta sono stato risentito il giorno 15 dicembre del 1992, e ancora il giorno 25 giugno del 1993, dove per la prima capisco che il dottor Cardella, evidentemente, non crede a quello che dico io… e io ero veramente risentito perché mi dovrebbe spiegare qualcuno che motivo avrei avuto di inventare nomi e personaggi…

Torniamo al punto: perché non viene ascoltato Paolo Borsellino durante quei 57 giorni?  Tinebra e la Procura di Caltanissetta

A prescindere dalla verità o meno sull’incontro fissato con Tinebra per il 20 luglio – da taluni riferito, da altri smentito – la giustificazione che è stata fornita a questa Commissione è un’altra: l’interrogatorio con Borsellino non appariva necessario in seguito all’applicazione di uno dei pm del pool di Caltanissetta, il dottor Vaccara, presso la Procura di Palermo.

Vaccara avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto fisico con il dottor Borsellino per poi riferire ai colleghi di Caltanissetta tutto quello che Paolo Borsellino avrebbe potuto informalmente o confidenzialmente dirgli sulla strage di Capaci. Una modalità quanto meno bizzarra: invece di ascoltare dalla viva voce di Borsellino ciò che aveva da riferire, s’incaricò un magistrato di Caltanissetta di andare a Palermo per fare da “ufficiale di collegamento”.

  • Ecco cosa dichiara il pm Giordano alla Commissione:  GIORDANO. Apro una parentesi: si sapeva quello che Borsellino voleva dichiarare a Caltanissetta! Perché si sapeva? Perché Vaccara lo incontrava ogni giorno a Palermo. Poi nelle riunioni che abbiamo fatto, Vaccara aveva un’agenda in cui segnava queste cose e ci veniva a riferire. (…) Vaccara ci disse che Borsellino quello che voleva dire era, praticamente, tutta la storia dei famosi “diari di Falcone”, che poi erano semplicemente tutti i veleni del Palazzo di giustizia di Palermo. (…) Borsellino, parlando con Vaccara, questo secondo le cose che ci riferiva Vaccara, dice: “sì, è tutto vero quello che c’è scritto sui diari”, perché sui diari si parla di tutta una serie di rapporti abbastanza… di attriti tra magistrati, eccetera, eccetera, dentro il Palazzo di giustizia. Quindi, noi sapevamo questa circostanza ed eravamo tranquilli che il 20 ci sarebbe stato questo incontro”. Per il dottor Giordano, insomma, tutto ciò che Borsellino avrebbe voluto riferire sulla strage di Capaci si sarebbe limitato ai cosiddetti “veleni” del palazzo, i contrasti che avevano opposto Falcone ad altri colleghi palermitani. Possibile che intuizioni investigative, convinzioni maturate e notizie acquisite da Borsellino su quella strage non andassero oltre? Perché non pensare piuttosto che non fosse nel suo carattere rivelare confidenzialmente le proprie informazioni a un collega “applicato” a Palermo ma di attendere – nelle forme di rito – di poterle fornire direttamente al procuratore Tinebra?
  • Sentiamo cosa dichiara in proposito alla Commissione il pm PETRALIA:. Uno dei tre magistrati che eravamo stati applicati in prima battuta (a Caltanissetta ndr), e cioè a dire il dottor Piero Vaccara, era amico personale del dottor Borsellino, appartenevano – purtroppo, in magistratura queste cose contano pure – alla stessa corrente, erano tutte due di Magistratura Indipendente, non dico amico personale ma sicuramente si incontravano ai congressi, si vedevano. (…) Ritenemmo utile che il dottor Vaccara stesse stabilmente a Palermo, che utilizzasse una specie di dependance della Procura di Caltanissetta costituita da una stanza che l’allora Procuratore Generale Bruno Siclari mise a disposizione. E quindi aveva questo ufficio con il suo computer, con del personale che lo aiutava… ma poi era commensale abituale, stava lì, mangiavano, parlavano, chiacchieravano a lungo con il dottor Borsellino. E questo aveva la funzione, a nostro modo di vedere, di riuscire ad acquisire elementi di utilità che potessero essere in qualche modo approfonditi in un successivo contatto istituzionale. (…) Debbo dire che non è pervenuto granché… abbiamo capito che forse il dottor Borsellino non riteneva (Vaccara) all’altezza di potere essere depositario di queste conoscenze, ma su questo non ci possiamo fare niente, insomma, purtroppo non è bellissimo doverlo dire, ma le cose sono andate quasi certamente così”. Se davvero le cose sono andate così – e questa Commissione non ha ragione di non credere nel ricordo del dottor Petralia – l’intera vicenda appare anomala, irrituale, non giustificata. Come ha modo di riferire in Commissione Pietro Grasso.
  • GRASSO. Chiariamo un fatto. Passarono 57 giorni senza che la procura di Caltanissetta chiamasse Borsellino a testimoniare sulla strage di Capaci. Il che e assolutamente impensabile… Cioè giaà l’uso di questo strumento di coordinamento di un magistrato che andasse a frequentare, perché di questo si trattava, l’ufficio della Procura di Palermo non poteva sortire nessun effetto se non un effetto assolutamente formale e ma non sostanziale, conoscendo Borsellino…. Che il dottor Borsellino avesse invece molto da riferire lo si desume da molti episodi che sono stati affidati a questa Commissione. Sempre il dottor Grasso:
  • GRASSO. E poi c’è tutta quella parte riferita dalla moglie di Borsellino, da Agnese Piraino Leto, che riferisce negli ultimi tempi della sensazione di Borsellino… che ci fossero dei rapporti tra mafia e istituzioni… così come le dichiarazioni di due sostituti, la Camassa e Massimo Russo, che riferiscono che un giorno lo videro addirittura piangere sulla poltrona del suo ufficio dicendo che un amico lo aveva tradito. Queste sono tutte cose che ci fanno capire che Borsellino raccoglieva tutta una serie di elementi e di intuizioni che era pronto a riversare alla procura di Caltanissetta. Cosa che però non avvenne mai”.

Ricorda il colonnello CANALE. Borsellino mi diceva sempre che sulla strage di Falcone era lui che doveva rendere testimonianza perché lui sicuramente avrebbe certamente indirizzato le indagini nella giusta maniera e che lui sapeva tutto, di Falcone sapeva tutto. Centomila volte chiese lui di essere sentito…

Sospetti, collusioni, tradimenti…  Rapporti tra mafia e istituzioni, collusioni istituzionali, “tradimenti”… Secondo i pm di Caltanissetta, Borsellino li avrebbe dovuti rivelare a pranzo al collega Vaccara. Sul quale in verità il suo giudizio, per ciò che è stato riferito a questa Commissione, era piuttosto severo. Ricorda il colonnello Canale.

  •  Chi era il dott. Vaccara? Era un sostituto che lavorava a Messina, applicato a Caltanissetta e mandato a Palermo per le indagini sulla strage di Falcone. Di questo Paolo Borsellino non ne faceva mistero con chi conosceva, era molto seccato perché il dott. Vaccara non sapeva nulla di mafia e lui doveva sistematicamente, giornalmente, spiegargli cosa fosse la mafia nella provincia di Palermo.
  • E ricostruisce il pm Gozzo.
    GOZZO. Ricordo, almeno quello che mi dicevano i colleghi, che hanno raccolto accenni di disperazione di Borsellino per la scarsa conoscenza del fenomeno mafioso che aveva il Vaccara”.

Accenni di disperazione. Che qualcuno non colse e che altri scelsero probabilmente di ignorare. Restano i fatti: Paolo Borsellino non fu mai ascoltato dai pm di Caltanissetta Così come non fu mai ascoltato, dopo la strage di via D’Amelio, il procuratore di Palermo Giammanco, nonostante vi fossero molte buone ed ovvie ragioni per raccoglierne la testimonianza. Giammanco s’era contrapposto al suo aggiunto Paolo Borsellino in modo manifesto, in quei 57 giorni fra le due stragi, decidendo di sottrargli la delega territoriale su Palermo e affidandogli le provincie di Agrigento e Trapani. Riferisce in Commissione il colonnello Canale

  •  Non appena mise piede a Palermo, già dall’indomani, il Procuratore Giammanco lo avvisò che lui si poteva occupare solo ed esclusivamente della provincia di Trapani da dove lui proveniva e la Provincia di Agrigento che per noi era una provincia totalmente sconosciuta, totalmente ignota…
  • E aggiunge Pietro Grasso, all’epoca dei fatti sostituto della DNA applicato alla procura di Palermo:
    GRASSO. C’era anche un problema di comunicazioni che arrivavano per esempio al procuratore Giammanco e che non venivano trasferite… Il fatto che era arrivato dell’esplosivo che doveva servire per Borsellino, Borsellino lo apprende in un aeroporto dal ministro della difesa Andò, il che è assolutamente impensabile una cosa del genere! (…) C’è una posizione chiaramente di contrasto all’interno dell’ufficio tra il procuratore Giammanco e Borsellino che addirittura… viene estromesso dalle indagini su Capaci! L’interrogatorio di Mutolo, il famoso interrogatorio di Mutolo, lo deve fare insieme al sostituto Aliquò e non da solo, per esempio. Soltanto la mattina (del 19 luglio 1992 ndr), alle sette del mattino, la mattina della strage, riceve dal Procuratore Giammanco l’autorizzazione ad occuparsi anche di Palermo… Questo era il clima…

Ma c’era un’altra ragione, urgente e necessaria, per ascoltare a Caltanissetta il procuratore Giammanco. Ed è quello che il colonnello Canale riferisce in Commissione di aver appreso da Paolo Borsellino pochi giorni prima della strage.

  •  Io sapevo che lui (Borsellino, ndr) doveva andare a Roma di nuovo… mi aveva fatto la confidenza che c’era Mutolo che si era incontrato con Giovanni Falcone ed era disposto a collaborare… Paolo Borsellino chiese a Giammanco di andarlo a interrogare, Giammanco non era per niente felice di questa storia, tutt’altro, tant’è che gli affibbio Aliquò… Io quella settimana parlo con Borsellino e dico “Vabbé, allora vengo pure io, la seguo io” perché io lo seguivo sempre durante gli interrogatori… Allora lui mi disse: “Carmelo, lei a questo interrogatorio non può venire”… In quella circostanza Borsellino mi fa: “Ma non si preoccupi… tanto passa l’estate cie a Giammanco lo arrestiamo!”… Io l’ho dichiarato questo! Io ho dichiarato tutto quello che mi ha detto! Io sono stato chiamato diverse volte, le ho dette tutte queste cose! Non sono cose che tengo per me!

I silenzi del procuratore capo Giammanco  Giammanco impedisce a Borsellino di indagare su Palermo. Tace sulla nota con cui lo avevano informato sull’arrivo dell’esplosivo per un attentato. E Borsellino – ci riferisce Canale – era certo che il procuratore di Palermo sarebbe stato arrestato prima della fine dell’estate. Eppure il procuratore di Caltanissetta Tinebra e l’aggiunto Giordano non ritengono utile interrogarlo.

Ecco cosa ci riferisce il dottor Giordano.

  • FAVA, presidente della Commissione. Come mai non è mai stato ascoltato il Procuratore Giammanco?
  • GIORDANO. Perché guardi, nelle graduatorie delle urgenze, questa era una delle cose che si sarebbe dovuta fare…
  • FAVA, presidente della Commissione. Parlo della fase tra Capaci e via D’Amelio, parlo di quando vennero fuori alcune cose, sul fatto che Giammanco non aveva avvertito Borsellino sulla nota del Ros, sul fatto che …lo aveva collocato ad indagare su altre province, gli aveva dato Palermo soltanto all’alba della domenica, ecco su tutto questo, come mai non ci fu….
  • GIORDANO. Guardi questo spessore di indagini lo seguivano Cardella e la Boccassini, perché nella suddivisione dei compiti, c’era questo… e poi Tinebra che certamente… Tinebra era uno molto accentratore, voleva sapere tutto interveniva su ogni argomento.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ecco ricorda se ci furono discussioni all’interno del vostro pool sull’opportunità di sentire Giammanco?
    GIORDANO. Non mi ricordo, si probabilmente l’avremmo discussa, ma ad essere sincero non ho un ricordo preciso, anche perché… poi per Giammanco credo fu aperto un procedimento di incompatibilità ambientale, ci fu una lettera dei sostituti che chiedevano l’allontanamento di Giammanco…
  • FAVA, presidente della Commissione. Le risulta che c’erano delle indagini alla Procura di Caltanissetta nei confronti di Giammanco?
  • Quando? A che epoca?
  • FAVA, presidente della Commissione. Prima che morisse Paolo Borsellino.
  • GIORDANO. Si, certo! Si, si, si, ma se n’è occupata la Boccassini di questo argomento…. Diciamo che, adesso non ho ricordo preciso, però c’era una questione che riguardava, può essere… gli accertamenti patrimoniali sui Giammanco, una cosa del genere…
  • FAVA, presidente della Commissione. Glielo chiedo anche perché qui c’è stata riferita dal colonnello Canale una battuta di Paolo Borsellino, dopo avere ascoltato Mutolo: “prima che finisca l’estate Giammanco verrà arrestato”. Paolo Borsellino era una persona molto prudente…….
  • GIORDANO. Sicuramente!
  • FAVA, presidente della Commissione. …per cui l’inchiesta doveva essere in stato piuttosto avanzato per arrivare a far formulare a Borsellino questa…
  • Il mio ricordo è vago, su Giammanco è vago! Ricordo che c’era un qualcosa che credo si discusse in una delle riunioni, si discusse della necessità o dell’opportunità di svolgere degli accertamenti bancari e patrimoniali su Giammanco, e basta, solo questo! Però io non me ne sono occupato in prima persona quindi non le posso dire (…)
  • FAVA, presidente della Commissione. Che fine ha fatto poi l’inchiesta sul procuratore Giammanco, quella di cui si occupava la Procura di Caltanissetta?
  • GIORDANO. Non lo ricordo. A memoria, credo che uno spezzone di questa inchiesta andò a finire in dibattimento ed un altro spezzone penso che sia stata archiviata. Però non sono sicurissimo di questa cosa perché, ripeto, non l’ho fatta io, quindi non ho una memoria precisa.

Pochi e vaghi ricordi. Nessuna comprensibile giustificazione dell’omesso interrogatorio. Certamente un’occasione perduta sul piano investigativo.

I “servizi” e le indagini della Procura  Com’è noto, la legge di riforma dei servizi segreti del 2007 esclude in modo categorico impulsi di indagine da parte dell’autorità giudiziaria alle agenzie di sicurezza (AISI e AISE). Ma già la precedente legislazione era molto chiara nell’escludere ogni delega d’indagine tra magistratura inquirente e servizi (all’epoca SISMI e SISDE). Su questo punto, le prime indagini sull’attentato di via D’Amelio si muovono su un crinale diametralmente opposto alle prescrizioni e ai divieti di leggi, registrando un’anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissetta e i vertici dell’allora SISDE. Il primo contatto lo accende il procuratore Tinebra, con una iniziativa personale assolutamente sui generis (ma senza che alcuno, tra i suoi pm, sollevi o registri obiezioni). Il giorno dopo la strage, Tinebra convoca nel proprio ufficio il dottor Bruno Contrada, all’epoca numero 3 del SISDE, e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta. Ecco come Contrada, nel corso del dibattimento del Borsellino quater, ha ricostruito gli avvenimenti in questione:

  • CONTRADA– La mattina dopo, il 20 luglio 1992, ebbi una telefonata dal dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, commissario di Pubblica Sicurezza, aggregato… nei ruoli del SISDE… ed era il genero del Capo della Polizia Vincenzo Parisi… il quale mi dice che, per incarico di suo suocero, il Capo della Polizia Parisi, ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra. (…) Io andai quella sera dal dottor Tinebra, che non conoscevo, con cui non avevo avuto mai rapporti, e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, per le indagini sulle stragi. Io feci presente varie cose al dottor Tinebra: innanzitutto che ero un funzionario dei Servizi e quindi non rivestivo più la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria, quindi non potevo svolgere indagini in senso proprio, la mia poteva essere soltanto un’attività informativa, non operativa; che per Legge noi non potevamo avere rapporti diretti con la magistratura; che, in ogni caso, io avrei dovuto chiedere l’autorizzazione ai miei superiori diretti, e parlo del mio direttore, che era allora il Prefetto Alessandro Voci, e che anche una collaborazione sul piano informativo poteva avvenire soltanto previ accordi con gli organi di Polizia Giudiziaria che erano interessati alle indagini. Nell’occasione il dottor Tinebra mi disse anche, così, per inciso, dice: “Sa, io mi rivolgo a lei perché a Caltanissetta è stato costituito un ufficio della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ma da poco tempo e mi sono reso conto che c’è personale che di fatti di mafia ne comprende ben poco”. Un dato emerge con forza: di questa anomala collaborazione tra servizi segreti e procura di Caltanissetta non era al corrente solo il procuratore Tinebra, che la sollecitò, ma anche i vertici della Polizia di Stato. E non solo loro, stando alla ricostruzione che Pietro Grasso ha proposto in Commissione:
  • GRASSO. C’è una testimonianza del Capocentro del Sisde di Palermo, il colonnello Ruggeri, che espressamente dice che – mentre si trovava in ferie – venne chiamato dal genero del capo della Polizia, Parisi, Sergio Costa, un funzionario aggregato nei ruoli del Sisde, che gli fa interrompe le ferie per parlare con Tinebra. Da Tinebra Ruggeri riceve l’incarico, irrituale assolutamente, di fare indagini sulle stragi. Il colonnello però non accetta l’incarico se non autorizzato dal suo centro Sisde di Roma e di intesa con la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri, a cui secondo la normativa andavano le notizie di qualsiasi informazione che potesse aiutare le indagini. Non dimentichiamo che il tramite tra i Servizi e la Magistratura e soltanto la Polizia giudiziaria e non altro.
  • FAVA, Presidente della Commissione. Quando Ruggeri chiede l’autorizzazione a Roma, questa autorizzazione arriva?
  • GRASSO. Certo, c’è l’autorizzazione di Roma, c’è anche l’intesa con le forze di polizia giudiziaria che vengono informate che c’è questa attività … Questa attività porterà ad un rapporto su Scarantino che viene tirato fuori cilindro come un personaggio, probabilmente influenzabile, ma che aveva un rapporto familiare, in quanto era cognato di Salvatore Profeta, riconosciuto boss mafioso della Guadagna e un collegamento anche con Orofino… Ecco come viene costruito il tutto.

Nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1992, il numero tre del SISDE, Contrada, e il capocentro di Palermo, Ruggeri, si attivano – dopo aver preso contatto con il procuratore di Caltanissetta – facendo sì che i servizi segreti assumono, di fatto, la guida delle indagini sulla strage di via D’Amelio. E il primo frutto di quella collaborazione e un appunto che verrà trasmesso alla Direzione di Roma del Sisde poche ore dopo la strage. Così riferisce Contrada davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta:

  • TESTE B. CONTRADA – … In quella occasione, e parlo della sera del 20 luglio, cioè 24 ore dopo la strage, io detti al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta quelle che, a mio avviso, erano le direttrici di indagine, una delle direttrici di indagine, fondamentale. Gli dissi: “Guardi, signor Procuratore, ogni volta che a Palermo ci sono stragi con esplosivi, attentati dinamitardi, bombe, e interessata la famiglia Madonia”.
  • TESTE B. CONTRADA – Subito, la sera stessa.
  • TESTE B. CONTRADA – Queste sono cose che ho riferito io al capocentro del SISDE la sera stessa, dopo il colloquio.
  • TESTE B. CONTRADA – Questo e un appunto redatto dal colonnello Andrea Ruggeri… capocentro del SISDE di Palermo a quella data. (…) Chiesi anche, perchè pensavo che era una responsabilità che non volevo mia soltanto, …che il vicedirettore operativo del SISDE, Prefetto Fausto Gianni, con altri funzionari, il caporeparto operativo, il capo della divisione criminalità organizzata, il dottore De Biase, il dottore Sirleo, tre o quattro funzionari, credo il dottore De Sena, che era il capo dell’UCI, dell’Unita Centrale Informativa, venissero giù a Palermo e poi a Caltanissetta e tutti insieme venimmo qui a Caltanissetta ed avemmo un contatto con il Procuratore Capo e con i suoi Sostituti che lo collaboravano. Dunque, di questa irrituale collaborazione fra servizi segreti e Procura di Caltanissetta, a Roma erano tutti informati: sapevano (e approvarono) i vertici del SISDE; sapevano (e approvarono) i vertici della Polizia di stato e dei Carabinieri.

E il governo? Poteva non sapere?

  • FAVA, Presidente della Commissione. Ecco, sempre su questo passaggio sui servizi… il Ministro della Difesa e il Ministro dell’Interno potevano essere non informati del fatto che agenzie ed intelligence stessero avviando un’attività di collaborazione nella più importante inchiesta giudiziaria che era in corso in quel momento?
  • GRASSO. Potrebbe essere anche il Presidente del consiglio in persona, perché è una delega (quella ai servizi ndr), quindi sempre fanno riferimento alla Presidenza. Ma naturalmente, anche il capo della Polizia o il Comandante generale dei Carabinieri ricevono le informative del SISDE… Un rapporto corretto non può celare nulla al responsabile politico…

Obiettivo: controllare le indaginiRiepilogando, siamo di fronte ad una forzatura investigativa, normativa e procedurale di cui molti (i livelli apicali delle forze di polizia e di sicurezza) sono perfettamente consapevoli e che tutti assecondano, nonostante le disposizioni legislative all’epoca vigenti precludessero al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura.

Resta un altro dubbio: questa collaborazione dei servizi resta solo un’anomalia o servì anche a produrre, nell’immediatezza della strage, elementi utili al futuro depistaggio?

Su questo punto il giudice Pietro Grasso, riferendo in Commissione, non ha dubbi:

  • GRASSO. Sono aspetti assolutamente anomali… Nel sospetto ci potesse essere (nell’organizzazione della strage, ndr) una presenza di elementi esterni alla mafia e dei servizi, il capo della Polizia Parisi fa sì che lo stesso SISDE prenda in mano la direzione delle indagini. Controllare l’andamento delle indagini, dalla notte stessa in cui muore Paolo Borsellino. E condizionarne il percorso per condurlo verso ciò che verrà poi definito il più clamoroso depistaggio dell’Italia repubblicana.
  • Un condizionamento che produce i suoi primi frutti proprio sull’attendibilità mafiosa di Scarantino. Agli atti processuali c’è la nota del centro Sisde di Palermo, protocollo 2929/Z3068 del 10 ottobre 1992, con cui si ricostruisce la parentela mafiosa di Scarantino.
  • Così ricorda in Commissione il giornalista Salvo Palazzolo:
  • PALAZZOLO. Con quella nota il Centro Sisde di Palermo informa il centro di Roma e la questura di Caltanissetta, che Scarantino ha parentele illustri in Cosa Nostra, in qualche modo accreditando questo balordo di borgata come un mafioso, cosa che era assolutamente inverosimile. Quindi i Servizi Segreti hanno in qualche modo rafforzato, le indicazioni che venivano dalla squadra mobile.

Della stessa opinione anche il giudice Gozzo:

  • GOZZO. Se parliamo di intervento dei servizi non c’è di strano soltanto la nota che viene fatta da Contrada e poi viene in qualche modo veicolata alla Procura di Caltanissetta sui Madonia… però devo dire questo richiamare un’inesistente parentela, perché è praticamente inesistente, stiamo parlando di un parente acquisito… cioè fa ridere… perché questo diceva la nota essenzialmente, molto probabilmente per far sì che Scarantino sembrasse più attendibile… E questa cosa avviene in un ambito strano …e cioè di contatti in cui i Servizi segreti non sono in seconda battuta, ma sono in prima battuta in rapporto con l’autorità giudiziaria… È la negazione di quello che normalmente è il lavoro di intelligence, e che rimane sempre dietro le quinte… Un punto che lo stesso Contrada ha confermato dinanzi la Corte di Assise di Caltanissetta:
  • CONTRADA– Su Scarantino io non ho mai fatto nessuna indagine, so soltanto però, perché poi mi fu fatto leggere l’appunto dal direttore del centro, che il dottor Tinebra chiese personalmente al capocentro, al colonnello Ruggeri, un appunto sulla personalità di Vincenzo Scarantino e sui suoi eventuali legami con ambienti della criminalità organizzata, cioè della mafia, e di riferire direttamente a lui tutto questo.
  • Come si dirà anni dopo, bisognava “vestire il pupo”. E il “pupo”, il futuro collaboratore di giustizia, era proprio Scarantino. Sul quale si concentra la prima informativa del SISDE, il primo fattivo contributo della struttura coordinata in Sicilia da Bruno Contrada al procuratore Tinebra e ai suoi sostituti. Sorvolando sul contenuto delle dichiarazione rese dal dottor Tinebra nel corso del dibattimento del Borsellino quater, è di preliminare importanza comprendere se di questa irrituale collaborazione ne avessero avuto sentore o, addirittura, contezza anche gli altri magistrati che, in varie fasi storiche, si sono occupati delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Ecco cosa hanno riferito alla Corte di Assise di Caltanissetta nel corso dei loro esami:

Quel pranzo fra pm e agenti segreti.C’è un altro episodio che descrive meglio di tutte le note del SISDE il clima di empatia e di collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e i servizi segreti in quelle prime settimane di indagine.

È un episodio riferito in Commissione dal pm Petralia, testimone diretto di una lunga giornata conviviale che vide insieme, allo stesso tavolo, i vertici della Procura di Caltanissetta e quelli del SISDE, pochi giorni prima che Bruno Contrada venisse arrestato.

  • FAVA, Presidente della Commissione. Di questo coinvolgimento del SISDE eravate a conoscenza? Ne aveste percezione? Se sì, quando?
  • FAVA, Presidente della Commissione. Cioè la nota è precedente?
  • FAVA, Presidente della Commissione. Ma dopo che apprendeste di questa richiesta del procuratore, di questa nota del SISDE che lei, opportunamente, ritiene abbastanza anomala… ci fu una discussione in procura? Chiedeste al procuratore come mai si fosse rivolto proprio al SISDE?
  • FAVA, Presidente della Commissione. Questa nota che arrivò dal SISDE in qualche modo ha determinato delle conseguenze dal punto di vista investigativo?
  • In realtà, come abbiamo visto, è proprio in quella nota dei servizi (con cui ricostruisce la presunta caratura criminale e le parentele mafiose di Vincenzo Scarantino) che troviamo i prodromi del depistaggio.

Resta ancora un dubbio: il ruolo di Bruno Contrada e l’assoluta mancanza di coordinamento tra la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta, visto che il tempo trascorso fra il pranzo all’hotel San Michele e il successivo arresto del numero tre del SISDE è di appena una manciata di giorni.

Com’è stato possibile che, proprio mentre a Caltanissetta si delegava a Contrada e ai suoi uomini la direzione di fatto sulle indagini sulla strage, la procura di Palermo fosse ormai alle ultime battute di un’indagine sullo stesso Contrada che avrebbe determinato il suo arresto pochi giorni dopo? Com’è stato possibile che tra Palermo e Caltanissetta non ci sia stata una minima trasmissione di informazioni? Com’è stato possibile che l’investigatore principale st Borsellino a Caltanissetta fosse considerato a Palermo, nello stesso istante, un poliziotto colluso con Cosa Nostra? E che nulla abbia contribuito a mettere in discussione la partnership investigativa che il procuratore capo Tinebra chiese al SISDE?

Lo abbiamo chiesto al procuratore Giordano, all’epoca applicato e poi procuratore aggiunto a fianco proprio di Tinebra nell’indagine su via D’Amelio.

  • FAVA, presidente della Commissione. Dunque, ci interessa intanto approfondire e fotografare il rapporto di collaborazione che si determinò nei fatti, in quella prima fase di indagine, tra il SISDE e la Procura della Repubblica di Caltanissetta.

Prima “operativo”, poi arrestato per mafia.Sul pranzo di Caltanissetta tra i magistrati della Procura e i funzionari del SISDE, presente Contrada, il ricordo di Giordano contrasta nettamente con quello di Petralia:

  • FAVA, presidente della Commissione. Ecco, senta, ma quando Contrada incontra Tinebra e lei è presente, è già indagato – e da tempo – dalla Procura di Palermo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Come è possibile che da una parte Contrada avesse questo rapporto così operativo con la Procura che indaga sulle stragi e nessuno da Palermo si premurò di dirvi: “C’è il rischio che lo arrestiamo”? Perché fu arrestato una settimana dopo quel pranzo…
  • FAVA, presidente della Commissione. Ma non vi capitò di approfondire con il dottor Tinebra? Fu un arresto abbastanza clamoroso per l’intero Paese, Contrada era il numero tre dei Servizi e qualche settimana prima gli era stato chiesta una nota informativa su Scarantino. Vi capitò di confrontarvi su questo punto?
  • FAVA, presidente della Commissione. La nota che riceveste il 10 ottobre del ’92… un’altra cosa abbastanza insolita è che è una nota che poteva essere data da qualsiasi Commissariato di quartiere a Palermo, nel senso che ci si limitava a spiegare: “Scarantino ha questi legami parentali, familiari, queste frequentazioni…” punto.
  • In Commissione il dottor Giordano non ha mancato di fare riferimento ad Arnaldo La Barbera, in arte Rutilius (il suo nome in codice durante gli anni, 1986-1988, della sua collaborazione con il SISDE), che nel 1992 era il capo della squadra mobile di Palermo.

Ad Arnaldo La Barbera fu affidata dal procuratore Tinebra la costituzione di una task force investigativa, che avrà un ruolo determinante nella gestione dei tre falsi collaboratori di giustizia, Scarantino, Candurra e Valenti. La testimonianza del procuratore Giordano lo propone subito come uno dei protagonisti di quella stagione d’indagini.

  • FAVA, presidente della Commissione. Sapevate che era legato ai Servizi…
  • Vedremo nelle prossime pagine come il ruolo di La Barbera e dei suoi uomini, alcuni dei quali imputati nel dibattimento in corso a Caltanissetta per il depistaggio, rappresenti uno dei tratti più opachi dell’intera vicenda. Ci sia consentita solo una riflessione, a margine dei molti ricordi prudenti ed offuscati dal tempo che abbiamo collezionato: di tanta solerzia da parte della procura di Caltanissetta nel coinvolgere nelle indagini immediatamente – ed inopportunamente – un alto dirigente dei servizi (Bruno Contrada) e l’intero stato maggiore del SISDE non vi è traccia nei 57 giorni che trascorsero inutilmente, fra Capaci e via D’Amelio, senza che Paolo Borsellino venisse mai ascoltato da Tinebra e dai suoi sostituti. Si decise immediatamente (poche ore dopo la strage) di chiedere l’ausilio investigativo dei servizi segreti (tassativamente vietato dalla legge); si decise di dar credito alle improvvide ricostruzioni che il SISDE e La Barbera proposero sulla caratura criminale di Scarantino; si decise una scorciatoia investigativa che produrrà – due anni più tardi – il finto pentimento di Scarantino e il definitivo travisamento della realtà dei fatti. E si decise, al tempo stesso, di non utilizzare la collaborazione, le conoscenze, le intuizioni, l’esperienza e la cristallina buona fede del dottor Paolo Borsellino. Anche se di tutto ciò non vi sarà traccia nel processo in corso sul depistaggio, va sottolineato che quella scelta (dentro il SISDE, fuori Borsellino) resta una pagina oscura e una gravissima responsabilità che sarebbe riduttivo attribuire solo all’allora capo della procura di Caltanissetta. Del ruolo improprio del SISDE, a fianco di quella procura, molti seppero. E tutti tacquero. Come tacquero in quei 57 giorni in cui si ridusse il contributo di Paolo Borsellino a qualche chiacchiera informale a pranzo tra lui e un giovane sostituto applicato a Palermo.

A chi sta a cuore la sorte di Contrada?  Resta infine da annotare, a margine della vicenda che qui ricostruiamo, l’attenzione che sulle sorti della detenzione di Bruno Contrada manifesteranno, negli anni successivi, altissime cariche dello Stato. Ecco cosa ha riferito alla Commissione la dottoressa Angelica Di Giovanni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli (fornendo a questa Commissione copia dei documenti da lei citati):

  • FAVA, presidente della Commissione. Lei era presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli… Contrada era detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e lei è stata chiamata a pronunciarsi sulle richiesta di scarcerazione per ragioni di salute… Vi furono in tal senso sollecitazioni in una direzione piuttosto che in un’altra nei confronti di questo detenuto?
  • DI GIOVANNI. Diciamo che la vicenda che mi riguarda risale al dicembre 2007… nasce da una telefonata dell’allora consulente del Presidente della Repubblica il dottore Loris D’Ambrosio, che io già conoscevo da tempi pregressi per motivi chiaramente di ufficio, il quale mi telefona, credo sia stato prima del Natale perché poi ci fu una seconda telefonata il 24 dicembre… La prima telefonata fu una telefonata quasi di sorpresa “Angelica, tu hai Bruno Contrada, come sai dai giornali, lui ci ha mandato una lettera ed io non so se debbo interpretarla come istanza di grazia o meno”. Al che dico “Loris, mi telefoni per dirmi una cosa del genere? Interpretatela come volete, tanto il problema non è mio, sulla grazia al limite me la mandate per il parere, ma poi dovete pronunciarvi voi”. Dice “sì, vabbe’, ma io volevo sentire te che hai esperienza”. Nel mio ambiente mi conoscono un poco tutti, a questo punto dico “Loris, ma vuoi andare al di là, mi vuoi sollecitare qualche cosa?”. Lui dice “no, me ne guarderei bene, ti conosco”. Dico “vabbe’, allora fate quello che volete…”. Dice “Vabbe’, ci sentiremo”. Intanto arriva in ufficio, datata 24 dicembre, una nota ufficiale in cui mi dice “Angelica, su sollecitazione del Presidente della Repubblica… ti scrivo su incarico del Presidente della Repubblica se se puoi anticipare l’udienza”…
  • FAVA, presidente della Commissione. L’udienza che avrebbe dovuto decidere sulla scarcerazione o meno di Contrada.
  • DI GIOVANNI, magistrato. Premetto che l’udienza in tribunale è fissata per l’art. 147 c.p. per il differimento dell’esecuzione della pena… chiaramente io il 24 dicembre non ero in ufficio. Lui (D’ambrosio, ndr) mi telefona e mi dice “guarda, ti ho mandato questa nota, è arrivata la nota?” Dico: “sì guarda, ma il Presidente della Repubblica non è parte in causa, non è figura processuale, quindi che tu mi scriva questa nota non mi serve a niente. Se volete l’anticipazione dell’udienza fai fare la domanda ufficiale all’avvocato… Comunque gli dissi “guarda che io, comunque, allego la lettera con tutta la busta ufficiale al processo”. E così è stato, la nota ufficialmente inserita negli atti del processo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe occasione in quel momento di chiedergli in quel momento come mai il Presidente della Repubblica intervenisse in modo incongruo per chiedere l’anticipazione di un’udienza su un detenuto?
  • DI GIOVANNI, magistrato. No, non gliel’ho chiesto perché appunto già mi conoscono come un tipo polemico… Arrivò la nota dell’avvocato di sollecitazione dell’udienza… era fissata più o meno verso la fine di gennaio, la anticipammo alla prima di gennaio… e che si chiuse con un rigetto delle istanze. Credo che Contrada da noi abbia cumulato, da questo primo rigetto fino a giugno, per lo meno una decina di rigetti di domande, insomma gliela concedemmo (il deferimento della pena, ndr) soltanto il 27 luglio del 2008. (…) Però la cosa non finisce lì… perché se il 24 dicembre mi telefona Loris D’Ambrosio per il Presidente della Repubblica, …il 31 dicembre… di sera mi telefona Carlo Visconti che allora era il segretario del Consiglio Superiore della Magistratura presieduto da Nicola Mancino e mi dice “Angelica, tu hai Contrada”, dico “vabbe’, questa storia sta diventando… già mi ha chiamato Loris”, “sì ma io ho sentito Loris, perciò ti sto chiamando”. A questo punto feci la domanda che non avevo fatto a Loris “scusate, ma di che cosa vi preoccupate, insomma? Perché mi state telefonando?”. (…)
  • FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, ma quando la chiama il dottor Visconti le dice che la chiama a nome del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura?
  • DI GIOVANNI, magistrato. Sì, mi aggiunge la frase successiva che fu: “allora domani mattina, 1 gennaio 2008, quando vado a fare gli auguri al Presidente gli posso dire che siamo tranquilli?”…
  • FAVA, presidente della Commissione. Ma c’era stata in questa telefonata una sollecitazione o una richiesta o era semplicemente una telefonata per capire? …cosa le venne detto?
  • DI GIOVANNI, magistrato. Non ci fu scopo. C’era solo la preoccupazione, c’era questa preoccupazione…
  • FAVA, presidente della Commissione. Preoccupazione su cosa?
  • DI GIOVANNI, magistrato. Che potesse succedere qualche cosa. (…) Tutti e due mi parlano in forma ufficiale e quindi credo che è come se volessero dare dei segnali, come se volessero far sapere ad altri che loro comunque si erano mossi.

Come è nato il “Gruppo Falcone-Borsellino”.Approfondiremo più avanti le molte forzature procedurali e investigative che si registreranno nel gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, la gestione – a tratti disinvolta, a tratti irrituale – di Vincenzo Scarantino, le contraddizioni e le reticenze che prefigurano, fattualmente, un depistaggio nelle indagini su via D’Amelio. Qui intanto interessa approfondire il collegamento fra La Barbera e i servizi segreti, atteso un contesto assai confuso di presenze, interventi e interferenze delle agenzie di intelligence sul teatro della strage e nel corso delle prime indagini. È certo – come già detto – che La Barbera sia stato un collaboratore del SISDE, regolarmente a busta paga dei servizi fra il 1986 e il 1988. Chi era al corrente di questi suoi legami nel momento in cui il procuratore capo di Caltanissetta lo investe della direzione delle indagini sulla strage di via D’Amelio? Apparentemente nessuno. Ricorda in Commissione l’avvocato Gioacchino Genchi, all’epoca il più stretto collaboratore di La Barbera fra Palermo e Caltanissetta:

 lo ha saputo, che il questore La Barbera era legato ai servizi segreti ?

  • GENCHI, Guardi, io della sua amicizia con De Sena (all’epoca direttore dell’Unità Centrale Informativa del Sisde, ndr) ne ho avuto percezione sin dall’agosto dell’88. De Sena è l’unica persona dei servizi segreti che ho incontrato in vita mia…
  • FAVA, Presidente della Commissione. Come aveva saputo che De Sena faceva parte dei Servizi?
  • FAVA, Presidente della Commissione. Lei in questa fase sa già della collaborazione di La Barbera con il Sisde?
  • Dunque, al protagonismo del SISDE a fianco di Tinebra e della sua procura si aggiunge la direzione delle indagini affidata a un ex collaboratore del SISDE, La Barbera. L’ingiustificata pervasività dei servizi segreti nelle indagini sulla strage di via D’Amelio è provata e manifesta. L’arresto di Contrada a Palermo di fatto conclude (o, quantomeno, ridimensiona notevolmente) la collaborazione fra la Procura di Caltanissetta e il SISDE ma determina anche una brusca interruzione dell’incarico che La Barbera aveva ricevuto da Tinebra per le indagini su via D’Amelio. Ma è un’interruzione assai breve: anzi, è proprio questo allontanamento di La Barbera dalla Sicilia a determinare, da lì a pochi mesi, la formale costituzione – con decreto del ministro dell’Interno, Nicola Mancino, il 15 luglio 1993 – del cosiddetto gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”. Riferisce in Commissione Genchi:  Riepilogando: con l’incriminazione e l’arresto di Bruno Contrada si consuma uno scontro all’interno delle forze di polizia. E a subirne le conseguenze è anche La Barbera, immediatamente rimosso e trasferito a Roma a disposizione. A richiamarlo in Sicilia è l’iniziativa dei pm della procura di Caltanissetta (certamente Ilda Boccassini e Fausto Cardella) che scavalcano le determinazioni del ministero attribuendo a La Barbera e ai suoi uomini una serie di deleghe investigative ad personam. E insediandolo di nuovo alla direzione delle indagini su via D’Amelio. Le conseguenze di questa rilegittimazione si manifesteranno, nel volgere di pochi mesi, nel modo in cui La Barbera e i suoi uomini gestiranno – e manipoleranno, secondo l’ipotesi accusatoria oggi in dibattimento a Caltanissetta – la falsa collaborazione di Scarantino, CandurComea e Valenti.

L’imbarazzante indagine e il falso pentito.Vincenzo Scarantino decide di collaborare la notte del 24 giugno 1994, quasi due anni dopo essere stato arrestato e formalmente accusato d’aver partecipato all’organizzazione della strage di via D’Amelio. A partire da quella notte (e da un “pentimento” a lungo precedentemente costruito) l’indagine colleziona un’imbarazzante serie di forzature investigative e procedurali, tutte collegate alla gestione del collaboratore Scarantino. Che possiamo riassumere come segue:

  • perché furono autorizzati colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione?
  • perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione ma ai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” diretto da La Barbera?
  • perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel Borsellino 1 i verbali del confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che lo smentivano palesemente?
  • perché i pm di Caltanissetta, e successivamente i giudici, non tennero in alcuna considerazione le due ritrattazioni di Scarantino?
  • perché non fu mai redatto un verbale del sopralluogo della polizia assieme a Scarantino nel garage dove sosteneva di aver trasportato la 126 poi trasformata in autobomba?
  • chi è l’ispiratore dei verbali, con a margine delle annotazioni a penna, consegnati a Scarantino prima dei suoi interrogatori?
  • perché non si tennero in alcuna considerazione le note critiche trasmesse dalla Boccassini e da Sajeva al pool di Caltanissetta?

Sono solo alcune delle domande che da 26 anni attendono una risposta, i vulnus che ha registrato l’indagine e che hanno condizionato l’esito dei primi processi su via D’Amelio. Come detto in premessa, questa relazione intende contribuire alla ricostruzione degli atti, dei fatti e delle responsabilità (istituzionali, politiche e procedurali: non penali) che hanno determinato, attraverso ciascuno di questi vulnus, le condizioni per il depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Procediamo con ordine.

COLLOQUI INVESTIGATIVI La prima anomalia sono certamente i colloqui investigativi autorizzati con Vincenzo Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione. Li ha ricostruiti in Commissione l’avvocato Di Gregorio:

  • FAVA, presidente della Commissione. Senta chi ha autorizzato, che lei sappia, i componenti di questo gruppo investigativo Falcone, Borsellino ad effettuare i colloqui investigativi con Scarantino?
  • AVV. DI GREGORIO ROSALBA, L’ho scoperto qua nel quater, ce ne sono dieci di seguito, dal 4 luglio al 13 luglio 1994 …a Pianosa, dentro il carcere. Vengono richiesti da Arnaldo La Barbera, vengono autorizzati, dieci, uno appresso all’altro: due da Sajeva e Boccassini, gli altri tutti dalla Boccassini. Abbiamo sentito (in dibattimento, ndr) uno dei tizi che andarono a fare questi, questi… colloqui investigativi… in realtà erano l’unica forma che c’era per avere il permesso di entrare al carcere e stare accanto a Scarantino… Quello ci dice: “non era un colloquio, era il permesso per stare a fargli compagnia per dieci giorni dentro il carcere perché si spaventava…”. E la notte? “No! La notte andavamo a dormire fuori…”, e quindi di notte Scarantino non si spaventava! (…) Poi invece ci sono una serie di colloqui… che coincidono – e questo è inquietante – con… le fasi in cui ognuno di questi tre collaboratori (Candurra, Andriotta e Scarantino ndr) si allineava al discorso che aveva fatto l’altro…

Dunque dieci colloqui investigativi consecutivi, dopo la decisione di Scarantino di collaborare, tutti gestiti dai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” agli ordini di Arnaldo La Barbera. Alla luce di ciò che si rivelerà essere la collaborazione di Scarantino, ovvero una collezione di suggestive menzogne, non si può non immaginare che quei colloqu  sia prima che dopo il cosiddetto “pentimento” – siano serviti anche a istruire il falso pentito. Eppure furono tutti autorizzati, non sappiamo con quanta consapevolezza dei risultati che quella procedura – certamente anomala – avrebbe potuto produrre.

Ecco cosa ricorda e riferisce in Commissione il dottor Petralia:

  • FAVA, Presidente della Commissione. Perché questi colloqui investigativi, dopo? Voi ci insegnate che nel momento in cui comincia una collaborazione i colloqui investigativi cessano…
  • PETRALIA. In realtà la normativa che sterilizza il collaboratore di giustizia per 180 giorni dopo l’inizio della collaborazione, vietando contatti con chiunque che non sia il magistrato che ne acquisisce i verbali illustrativi del contenuto della collaborazione, è normativa del 2001.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però ci hanno confermato i suoi colleghi che non c’era assolutamente prassi dei colloqui investigativi…
  • PETRALIA. Sotto un profilo puramente formale non c’era nemmeno una norma che lo vietasse. Naturalmente, non era buona regola tant’è che poi il legislatore – sia pure dopo un po’ di tempo – ha ritenuto di vietarlo. Però c’è da dire anche che… c’era una forte commistione in quel momento. Debbo dire non riguardava solo Scarantino, riguardava molti fenomeni di collaborazione. Tra la fase investigativa, tra chi si occupava dell’aspetto investigativo e chi si occupava dell’aspetto “gestionale” del collaboratore. Io non so cosa diavolo si siano detti in questi colloqui investigativi… Peraltro, per legge dovevano essere autorizzati già allora dal procuratore Capo… mi ha sconvolto leggere tutto quel numero di colloqui investigativi, ve lo dico sinceramente.

Questo è quanto ci ha riferito sul punto l’allora procuratore aggiunto Paolo Giordano

  • FAVA, presidente della Commissione. Come mai sono stati autorizzati colloqui investigativi con Scarantino?
  • penitenziario, viene introdotto a giugno del ’92 per la prima volta. Quindi le prassi applicative ancora erano, diciamo, di là da venire…
  • FAVA, presidente della Commissione. Però tutti i magistrati con cui abbiamo parlato ci hanno detto che era totalmente fuori da qualsiasi consuetudine che una persona che già collaborava venisse interrogata dalla polizia giudiziaria.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però sono stati autorizzati…. GIORDANO. Appunto, per questo…
  • FAVA, presidente della Commissione. Dieci colloqui investigativi consecutivi…
  • Di tenore assai diverso le affermazioni del magistrato Alfonso Sabella, che ebbe ad occuparsi di Vincenzo Scarantino a Palermo, con valutazioni sulla sua attendibilità (come vedremo) del tutto opposte a quelle dei colleghi di Caltanissetta.
  • FAVA, Presidente della Commissione. Era possibile, non dico normale, ma accadeva che potessero essere autorizzati dei colloqui investigativi dopo che era stata avviata la collaborazione? In carcere ovviamente!
  • ALFONSO SABELLA, magistrato. E per quale ragione? Cioè io non ne ho mai fatte… Insomma lo scopo del colloquio investigativo non ci sta, non è quello, lo scopo del colloquio investigativo spinge ad acquisire informazioni, a spingere la collaborazione insomma…
  • I ricordi dei pm dell’epoca. Ecco infine come i pm Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, nelle testimonianze rese in dibattimento durante il Borsellino quater, ricostruiscono la genesi dei colloqui investigativi con Scarantino (sia successivi alla sua decisione di collaborare che precedenti).
  • TESTE I. BOCCASSINI Scarantino …da Pianosa …faceva arrivare dei messaggi tramite gli agenti penitenziari, di voler parlare, di non voler parlare, di dire cose, etc. Tinebra decise, ovviamente sempre discutendo… con il dottor La Barbera, rispetto a questi colloqui… tant’è che quando, a giugno, poi si decise, si andò a Pianosa ad interrogare Scarantino… Ricordo un viaggio allucinante in elicottero da Roma a Pianosa in piena notte con il collega Petralia, se non mi sbaglio, e il dottor La Barbera. (…)
  • TESTE I. BOCCASSINI – … Allora, la gestione, lo ripeto, del processo in quel momento, dell’attività investigativa, era di altri Pubblici Ministeri, non mia.
  • TESTE I. BOCCASSINI – Ma fu rappresentata… fu rappresentata al Procuratore Tinebra, dopodiché, ovviamente, io firmai, se è così non mi ricordo questi colloqui investigativi.
  • TESTE I. BOCCASSINI – No, non mi… non mi ricordo, cioè erano questioni che forse non stava bene anche, non… non mi ricordo, non mi ricordo sinceramente. Però Tinebra teneva molto… diciamo che aveva preso molto a cuore la situazione di Scarantino.
  • TESTE SAJEVA R. – Poco fa ho fatto riferimento ad una manifestazione di disponibilità che proveniva dal carcere di Pianosa dello Scarantino e che determinò, appunto, lo spostamento a Pianosa dei colleghi Boccassini e Petralia per procedere ad un esame. Onestamente non ricordo dopo tutto questo tempo quale sia stato il mezzo attraverso cui questa disponibilità venne acquisita, se fu una sua dichiarazione, se fu per il tramite del gruppo investigativo che venne rese nota, non lo ricordo…
  • TESTE SAJEVA R. – Non lo ricordo.
  • Resta una certezza: nell’indagine sulla strage di via D’Amelio ci fu un uso spesso disinvolto e non limpido dello strumento dei colloqui investigativi da parte di La Barbera e degli uomini del gruppo “Falcone-Borsellino”. Un uso destinato – come è stato detto in Commissione con metafora efficace – a “vestire il pupo”.

Questa la ricostruzione del procuratore Grasso in Commissione:  GRASSO. Dalla ricostruzione che si è fatta Scarantino viene arrestato il 24 settembre 1992. Pochi giorni prima avevano acquisito le dichiarazioni di Luciano Valenti e di Candurra Salvatore, secondo le quali avevano rubato la macchina su commissione di Scarantino ed era stata consegnata la macchina a Scarantino. […] Poi Scarantino viene trasferito nel carcere di Busto Arsizio e nella cella accanto gli mettono Andriotta. Lì nasce la costruzione specifica del depistaggio (con) una dichiarazione di Andriotta che riferisce delle cose come dette dal vicino di cella Scarantino. …Se si esaminano tutti i colloqui investigativi in carcere di Arnaldo La Barbera e di alcuni funzionari, si può ricostruire che ogni volta che Andriotta dichiara qualche cosa, c’è nello stesso giorno o nel giorno precedente un colloquio investigativo… perché il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa Falcone e Borsellino ha da fonti che non rivelerà mai.

IL GRUPPO “FALCONE-BORSELLINO” Le recenti ricostruzioni processuali ci consegnano oggi un dato: fu il gip di Caltanissetta, in data 16 luglio 1994, ad affidare Vincenzo Scarantino alle “cure” del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”. Una scelta che estromise, di fatto e per un lungo periodo, il personale del servizio centrale di protezione da qualsiasi contatto diretto con Scarantino.

Ecco cosa ha dichiarato in Commissione il dottor Petralia:

  • FAVA, Presidente della Commissione. … La prima domanda è la ragione per cui Scarantino era stato affidato, nella sostanza, al Gruppo “Falcone-Borsellino” e non al personale del Servizio Centrale di Protezione. Da quello che c’è stato spiegato, il Servizio Centrale di Protezione si occupava di vigilare l’esterno dell’edificio, di accompagnare a scuola i figli, la moglie, ecc., ma all’interno della casa non avevano accesso. Gli unici che avevano accesso all’interno della casa erano funzionari e sottoufficiali del gruppo “Falcone-Borsellino”, che è una cosa abbastanza insolita.
  • PETRALIA, magistrato. Insolita perché era personale che si occupava anche degli aspetti investigativi e, quindi, alla luce non solo di quello che poi si è potuto sapere, ma anche secondo una buona prassi, non sarebbe stato, forse, opportuno. Anche se debbo dire che… siamo, non dico all’inizio del fenomeno del pentitismo, ma siamo in una fase ancora in cui tutte le Procure si muovevano in maniera un po’ artigianale. Ora è chiaro che queste … non voglio dissociarmi, nel senso che io avrei potuto benissimo dire “guardate io qua non ci voglio stare più perché si fa questa cosa”. Non l’ho autorizzata io, però ne ho preso atto e comunque io interagivo regolarmente con il dottor Bo, con gli altri … con il resto del personale.
  • FAVA, presidente della Commissione. Era il Procuratore della Repubblica in questo caso ad autorizzare?
  • PETRALIA, magistrato. Erano decisioni dell’Ufficio… cioè chi poteva realmente opporsi era ovviamente il capo. È chiaro che anche i sostituti o l’aggiunto potevano dire “a noi questa cosa non va”. La gestione dei pentiti in genere era, ed è tuttora, fonte di problemi e criticità. Quella di Scarantino lo era moltiplicato per mille.
  • Questo il ricordo degli altri pm in servizio a Caltanissetta, così com’è stato acquisito dalla loro testimonianza nel corso del Borsellino Quater.
  • Ilde Boccassini:
  • TESTE BOCCASSINI I. – No, non lo sapevo.
  • TESTE BOCCASSINI I. – Ma lei mi parla di agosto, che io ero in ferie; settembre è stato un mese piuttosto…
  • TESTE BOCCASSINI I. – No, non… non ho memoria né… no, assolutamente non sapevo dove è stato portato, ma che ci fossero anche uomini di La Barbera, io non ho questo ricordo, però non… è possibile, però non… non glielo so dire, sinceramente non ho memoria su questo.
  • Antonino Di Matteo:
  • TESTE A. DI MATTEO – Sì, certamente, non per conoscenza diretta, ma per quello che… che vivevo e sentivo dagli altri colleghi e dalla stessa forza di Polizia di cui parlerò. Io so che dopo l’ammissione, mi pare, al regime degli arresti extracarcerari, così come avveniva in quel periodo anche per altri collaboratori, il collaboratore di giustizia era, in qualche modo, tutelato e protetto dalla… dalla stessa forza di Polizia che si occupava delle indagini e quindi, in quel caso, dalla Polizia di Stato. Questo, Presidente, lo ricorderà, non era un caso, diciamo, anomalo rispetto al panorama dell’epoca; io ricordo di avere interrogato decine di volte, per esempio, il collaboratore di giustizia -, tanto per rimanere a collaboratori di giustizia che parlavano, non parlavano della strage – Salvatore Cancemi, che era ristretto in regime detentivo, addirittura all’interno della Caserma del ROS dei Carabinieri, tutti gli interrogatori di Cancemi avvenivano e non potevano che avvenire attraverso, diciamo, un contatto con il ROS dei Carabinieri. Quindi io sapevo che… anche la Polizia di Stato e anche funzionari ed agenti della Questura di Palermo e del gruppo investigativo Falcone – Borsellino per un periodo si alternarono nella località protetta dove stava Scarantino, in funzione, per quello che mi risultava, diciamo, di protezione e tutela della sua sicurezza…
  • TESTE A. DI MATTEO – … Io dico che la Procura della Repubblica, almeno nella mia persona, non solo non sapeva le modalità attuative ed operative, ma guai se le avesse sapute; nell’ordinamento, allora ed ora, la protezione e la tutela del collaboratore di giustizia è una funzione e una mansione che è propria di altri organismi. All’epoca non c’era ancora, diciamo, la norma che stabiliva la competenza esclusiva degli operatori del Servizio Centrale di Protezione, e quindi si verificavano anche queste situazioni in cui la forza di Polizia che faceva le indagini partecipava alla protezione. Io dico che la Procura della Repubblica non solo non sapeva, ma non doveva sapere…
  • Anna Maria Palma:
  • TESTE A. PALMA – rispondendo alla domanda dell’Avvocato Scozzola: la tutela di Scarantino. Io seppi che era stata affidata al gruppo Falcone – Borsellino… Non mi curai molto di questa cosa, perché devo dire che io venivo dalla Procura di Palermo, dove mi ero occupata di reati contro la pubblica amministrazione e che obiettivamente… il fatto che potesse essere in gestione presso una forza di Polizia o presso l’altra, o presso il Servizio Centrale di Protezione, non mi creò nessuna… nessuna domanda, ecco.

 

Veri e falsi pentiti faccia a faccia. Altra irrituale – e grave, a giudizio di molti – decisione processuale è consistita nel mancato deposito dei menzionati verbali di confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Ecco cosa ha riferito l’allora procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano in sede di audizione:

  • FAVA: Ci furono poi dei confronti fra Scarantino con Cancemi e Di Matteo nel gennaio ’95, lei era già Procuratore aggiunto e mi pare fosse presente.
  • GIORDANO: Sì, si, io ero presente perché fu La Palma che mi chiese di partecipare perché io, ripeto, non mi occupavo di questa tranche di indagine.
  • FAVA: Ecco, da tutte le fonti e anche dagli atti acquisiti ai dibattimenti di processi che si sono svolti, questi verbali non confortarono la credibilità (di Scarantino).
  • GIORDANO: No, assolutamente!
  • FAVA: Che accade dopo questi confronti? Ci fu una riunione all’interno (della procura)?
  • GIORDANO: Guardi, su questo punto lei deve sapere, se non ricordo male, questi confronti furono fatti a gennaio del 1995… poi io dal febbraio del 1995 al settembre del 1997 mi occupo del procedimento della strage di Capaci in dibattimento assieme a Tescaroli…
  • FAVA: No, no, le chiedo il giorno dopo avere fatto il confronto fra Cangemi e Scarantino, non ci fu un momento di approfondimento della situazione?
  • GIORDANO: Si certo! Il problema era questo, c’era la gestione di questi verbali, si dovevano depositare chiaramente come attività di indagine integrativa etc, etc… però la gestione di questo deposito venne fatta da Tinebra e da coloro che andavano in udienza. 
  • FAVA: Però le chiedevo come era stata valutato questo confronto… perché quando poi un altro collaboratore di giustizia mostra la manifesta non attendibilità del pentito chiave, immagino che il giorno dopo il pool che lavorava su questa indagine si sia riunito per dire: valutiamo, confrontiamo…
  • GIORDANO: Dalle ricostruzioni che posso fare io, la valutazione che fu fatta fu questa: che praticamente siccome, come le stavo dicendo, i primi processi andavano bene, i risultati c’erano, al Borsellino 1 c’erano state delle condanne etc., …anche in Cassazione, c’erano sentenze della Cassazione che convalidano tutto il discorso di Scarantino… quindi la valutazione che si fece di questi verbali è che questi verbali dovevano essere oggetto di discussione in dibattimento.
  • FAVA: Naturalmente! Ma non vi fu un elemento di dubbio su Scarantino?
  • GIORDANO: Sì certo! Sì, il dubbio c’era, però la tesi che era prevalsa e che fu mantenuta, diciamo, in maniera costante e che fu accolta anche dai giudicanti era che questo Scarantino alla fine, proprio per questa parentela che c’era, tutte le volte che poteva essere riscontrato andava bene, altrimenti no. Tenga presente che Scarantino, …almeno quello che ricordo io, …insomma si parlava del fatto che lui era psicologicamente molto debole, molto labile, quindi occorreva un sostegno psicologico, quindi la tesi che prevalse nella discussione fu questa. (…)
  • FAVA: Al dibattimento questi verbali quindi non vennero depositati.
  • GIORDANO: No, dopo vennero depositati… Ma vennero depositati nel processo in cui erano imputati i personaggi che accusava Scarantino, si fece un discorso di questo tipo… però la gestione di questi verbali venne demandata a Tinebra e a coloro che andavano in udienza cioè a dire La Palma, Di Matteo e Petralia, sono loro che decidono…

Le asserzioni del dottor Giordano contrasterebbero con il suo ruolo di procuratore aggiunto che gli avrebbero consigliato, per un verso, di riferire immediatamente al procuratore capo sull’esito non positivo di quei confronti e, per altro verso, quale superiore gerarchico, di suggerire ai sostituti che insieme a lui avevano proceduto al confronto l’immediato deposito dei verbali, come sancito dall’art. 430 c.p.p.

Va poi ricordato che, alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo persone totalmente estranee alla strage di via D’Amelio.

Di tenore non dissimile le giustificazioni che ha fornito alla Commissione il dottor Carmelo Petralia, affermando – nel corso dell’audizione – che tali verbali non furono depositati in quanto sussistevano dubbi circa l’attendibilità del Cancemi e del Di Matteo, e comunque, perché riguardavano indagini inerenti altri procedimenti.

  • FAVA: I confronti con i tre collaboratori Cancemi, La Barbera, Di Matteo del gennaio 1995 che, diciamo, rivelano alcune contraddizioni: quale fu la ragione per cui voi pensaste che questi confronti non meritavano di mettere in discussione la credibilità del collaboratore di giustizia Scarantino?
  • PETRALIA: No, che non meritasse di mettere in discussione no, potevano rappresentare, di fatto rappresentavano altrettanti momenti di criticità, di dubbi e di riflessione. Però su ciò che si aveva. E altro non c’era. Altro non c’era perché quell’altro che sarebbe potuto venire ed è venuto, per esempio Totò Cancemi nel 96-98 ancora non c’era (…) Per quanto riguarda Salvatore Cancemi non mi permetterei di dire… che vi fosse una assoluta e univoca convinzione della pienezza ed esaustività della sua collaborazione fino a quel momento. (…) Gioacchino La Barbera era un grande killer di Cosa nostra, ma non era uno stratega, forse dei tre era quello con il minore carisma dal punto di vista diciamo del peso proprio dentro l’associazione criminale (…) Per Santo di Matteo c’erano perplessità ancora decuplicate rispetto a quelle riguardanti Cancemi, perché Di Matteo… dal momento del sequestro del figlio… praticamente ha chiuso la sua collaborazione.
  • FAVA: In questo caso depositare i verbali per l’accusa in un processo è un obbligo o una facoltà, valutando anche l’importanza, la sensibilità di questo verbale?
  • PETRALIA: Per questo tipo di valutazione non sono intervenuto perché non mi occupavo più, perché l’unico processo che era in corso in quel momento era il bis… Gli altri colleghi mi dicono, però potranno dirlo loro personalmente, che non li abbiamo depositati subito perché c’era addirittura un ulteriore procedimento istituito, in cui credo che fosse stato già iscritto Salvatore Cancemi… c’erano delle ragioni, come le possiamo chiamare, di cautela processuale, per quanto riguardava le acquisizioni che si sarebbe dovuto fare in un altro procedimento…
  • Anche la dottoressa Anna Maria Palma, pm a Caltanissetta durante le indagini, e sentita in qualità di teste nel dibattimento di primo grado del Borsellino quater, ha sostanzialmente reso giustificazioni simili a quelle del collega Petralia.
  • TESTE A. PALMA: … questi confronti ci hanno lasciato nella posizione in cui eravamo, perché c’era la parola di uno contro la parola di un altro; Di Matteo diceva che lui non c’era e Scarantino diceva: “Ma tu c’eri, eri sul… eri al tavolo”. La Barbera diceva che lui non c’era e Scarantino diceva che c’era. Cancemi… quella di Cancemi… mi colpì molto questo confronto tra Cancemi e Scarantino, perché io vidi proprio questo ossequio di Scarantino nei confronti di Cancemi, che ne riconosceva un capo, e il disprezzo con cui Cancemi trattava Scarantino dicendogli: “Ma tu sei bugiardo, tu dici menzogne, tu non sai come ci si comporta in Cosa Nostra, tu non conosci i termini di Cosa Nostra”. Quindi fatti questi confronti, siamo andati… abbiamo continuato ad andare avanti.
  • TESTE A. PALMA: No, assolutamente no.
  • TESTE A. PALMA: Assolutamente no.
  • TESTE A. PALMA: No. Devo dire, però, che di questi confronti lei poc’anzi mi ha detto: la parola di uno contro la parola di tre… ma erano tre personaggi che in quel momento avevano grossi problemi, perché Cancemi, che era il capo di Porta Nuova, non aveva ancora parlato della strage di via D’Amelio e noi eravamo convinti, questo mi consenta di dirlo, che lui non potesse non sapere sulla strage di via D’Amelio, tant’è che poi parlò nel giugno, credo, del ’96. Per quanto riguarda Di Matteo, il fatto che abbia smentito Scarantino era in qualche modo giustificato dal sequestro del figlio… Per quanto riguarda La Barbera, in quel periodo fece una serie di pasticci, che credo che fu… fu trovato con delle armi. Quindi lei mi dice la parola di uno contro di parola di tre, ma tre che in quel momento erano fragili, tre che in quel momento cominciavano a vacillare e che dovevamo vedere fino a che punto fossero attendibili o meno i fini della strage di via D’Amelio.
  • TESTE A. PALMA: Ma io ricordo che in quel periodo c’erano delle perplessità; ora di che tipo fossero, forse… fu trovato con delle armi, io non le ricordo le date… Quando li abbiamo depositati non me lo ricordo e abbiamo ritenuto sul momento che questi… che i tre signori che Scarantino chiamava in causa, avessero dei problemi loro tali da non renderci sicuri sul fatto che l’uno dicesse la verità e l’altro dicesse una cosa falsa…

Il mancato deposito dei verbaliPer la verità, sia le giustificazioni del dottor Petralia che quelle della dottoressa Palma non appaiono condivisibili.

Non può che ribadirsi che i verbali di quei confronti (sempre a norma del citato articolo 430 c.c.p.) dovevano essere immediatamente depositati nella segreteria dei pubblici ministeri. E soprattutto, di essi ne doveva essere comunicato avviso senza ritardo ai difensori: che ebbero “notizia” di quei confronti nel corso dell’udienza preliminare del Borsellino bis. Tali confronti – così come si avrà modo di spiegare meglio, citando la memoria difensiva dell’avvocato Di Gregorio – verranno, tuttavia, depositati per la prima volta soltanto il 13 febbraio 1997 nell’ambito del Borsellino ter, e solo in tale data le difese ne conosceranno il contenuto.

Sul mancato deposito dei verbali di quei confronti è utile richiamare anche la deposizione del dottor Antonino Di Matteo, anch’egli pm a Caltanissetta nell’indagine su via D’Amelio, nel corso dell’esame testimoniale reso nella fase di dibattimento del Borsellino quater:

  • TESTE A. DI MATTEO: Tutta la DDA si espresse, a partire dal Procuratore, ma anche gli Aggiunti, l’Aggiunto e gli altri, per una scelta processuale, che ben motivata, venne presa sulla base… di un art. 130 delle Disposizioni di Attuazione, in particolare il I comma che, lo sapete meglio di me, afferma che nel momento in cui con la richiesta di rinvio a giudizio si mandano gli atti, si devono mandare gli atti che sono pertinenti direttamente agli imputati e alle imputazioni ascritte a quegli imputati. Siccome Di Matteo, La Barbera e Cancemi erano indagati nell’altro procedimento, in quel momento non si depositarono gli atti relativi a questo confronto… In quel momento si ritenne che, per consentire la prosecuzione delle indagini, quegli atti dovessero ancora essere coperti per un certo periodo dal segreto investigativo…
  • In sostanza il dottor Di Matteo giustifica il mancato immediato deposito di quei verbali invocando il disposto dell’art. 130 delle disposizione di attuazione del codice di procedura penale e, di fatto, sostenendo (non diversamente da Petralia e Palma) che tali verbali si riferivano a procedimenti diversi, in quanto i tre collaboratori – Cancemi, Di Matteo e La Barbera – erano sottoposti ad indagine in altro procedimento. In realtà il richiamato articolo riguarda solo la documentazione dell’attività compiuta nella fase delle indagini preliminari fino alla richiesta di rinvio a giudizio. Al contrario, i confronti in questione – come è pacifico – sono successivi al rinvio a giudizio nei confronti di Scarantino nel processo Borsellino1 e quindi, coinvolgendo Scarantino, già indagato, nei confronti di questi configuravano vere e proprie attività integrative d’indagine.
  • Peraltro è lo stesso Di Matteo a fornire la conferma che quei confronti costituivano attività integrativa d’indagine allorché afferma:
  • Non si può tacere, infine, su come tale “gestione” processuale e procedurale dei verbali di confronto fu stigmatizzata dalle difese degli imputati. È utile riportare quanto dichiarato dall’avvocato Rosalba Di Gregorio nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione:
  • TESTE A. DI MATTEO: Senz’altro ricordo che i tre soggetti smentirono Scarantino. Il confronto, naturalmente, era fatto sulla base di un dato preciso: la partecipazione o mancata partecipazione ad una riunione operativa a casa di Calascibetta alla Guadagna nel luglio del ’92, una decina di giorni prima della strage. 
  • AVV. DI GREGORIO: Noi siamo all’udienza preliminare del bis, quindi siamo se non ricordo male nel 1996… facciamo le copie degli atti, tra le copie degli atti spunta fuori una missiva strana, una lettera di trasmissione dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, al procuratore aggiunto Guido Lo Forte di Palermo dove gli dice: “Ti mando, per quanto di interesse, i confronti fra Scarantino-Cancemi, Scarantino-Santino Di Matteo, Scarantino- Gioacchino La Barbera”. Cerchiamo questi confronti ma non ci sono… cioè non sono stati depositati, quindi noi chiediamo al giudice dell’udienza preliminare di fare depositare i confronti. La risposta a verbale è “Non esistono”. Gli abbiamo detto: “Non è possibile che non esistono… Se li avete trasmessi a Palermo, evidentemente esistono quindi non ci dite non esistono, dite non ve li vogliamo depositare”, “Non esistono e se esistono non riguardano gli imputati di questo processo, quindi voi non li potete avere”.
  • FAVA: Scusi ma queste risposte venivano date…
  • AVV. DI GREGORIO: Sono a verbale, sono nel verbale di udienza che io tra l’altro ho preso ed ho prodotto al Borsellino quater… La voce registrata al verbale di udienza preliminare è di Carmelo Petralia e i PM presenti sono Petralia, Palma e Di Matteo. A questo punto io faccio… un’istanza al dott. Guido Lo Forte come indagine difensiva e chiaramente sono andata a parlargli, e mi ha detto: “Lei è pazza – graziosamente, cordialmente – se pensa che io le do una cosa che Caltanissetta non le vuole dare”. Io ho detto “No, no, ma io lo voglio messo per iscritto: non te la posso dare, fattela dare da Caltanissetta…”. E così abbiamo fatto. Il dott. Lo Forte scrive nella mia istanza “Non te la do, te la fai dare da Caltanissetta”, quindi io prendo la risposta e la porto a Caltanissetta a Paolo Giordano dicendo: “Siccome esistono e me li devi dare tu, ti dispiace che me li dai?” “Non se ne parla assolutamente, non ti interessano, non ti riguardano, non riguardano gli imputati, non riguardano questo processo”. Niente Certo, se l’esito di quei confronti fosse stato tempestivamente utilizzato, se fin dal 1995 le parti avessero potuto disporre di verbali che mostravano palesemente la inattendibilità di Scarantino, la storia processuale della strage di Via D’Amelio sarebbe cambiata. E il depistaggio sarebbe stato sventato, indipendentemente dalla successiva collaborazione di Spatuzza.  

Ma ciò, come sappiamo, non avvenne.

Il pentito si pente di essersi pentito. Ricostruiamo la prima, la più clamorosa, attraverso il racconto che ne ha fatto in Commissione il giornalista Angelo Mangano.

  • MANGANO. Io sono uno del quartiere. Meglio, io nasco e sino ad una certa età vivo tra via Oreto, Brancaccio e la Guadagna. E Scarantino lo conosco. Vincenzo Scarantino, Enzuccio Scarantino, lo conosco. Lo conosco perché? Perché da lui si vanno a comprare le sigarette di contrabbando. Lui a Piazza Guadagna …si metteva lì , con un banchetto fatto di cassette per la frutta, a vendere le sigarette di contrabbando… Candura e un altro che conosco. E un ladro di auto. Valenti e il figlio di uno che noi chiamavamo “gli spazzini”. una famiglia numerosissima, che abitano in un pianterreno di queste case popolari… Quindi, tutto tranne persone di un certo spessore criminale. Sicuramente, Presidente, non gente che organizza una strage. Quindi, quella mattina (il 27 luglio 1995 ndr), dopo una serie di telefonate tra colleghi, c’era questo tam-tam “Scarantino ha ritrattato…”. Intorno a mezzogiorno, su questo tam tam, Presidente, quindi sul nulla, …arriva una smentita dalla Procura di Caltanissetta. Subito dopo arriva un’ansa dal Ministero dell’Interno che smentisce questa notizia. (…) A questo punto chiamo il mio direttore, che era Paolo Liguori e dico: “senti Paolo, io un po’ il quartiere lo conosco, la famiglia di Scarantino in qualche modo so dove sta, se mi dai una troupe verifichiamo questa notizia”. Il direttore mi da una troupe, vado alla Guadagna, cortile Buonafede. Casa Scarantino. Mi riceve la madre… E questa signora mi racconta che il figlio aveva chiamato al telefono di casa, aveva detto che lui si era inventato tutto, che non era vero nulla, che aveva accusato delle persone innocenti e che aveva voglia di andare in galera, di non fare più il pentito. Non faccio in tempo ad arrivare in via Ugo La Malfa dove c’e la sede Mediaset …che Scarantino mi chiama al cellulare… e lui mi dice io guardi non sono un pentito vero, ho accusato delle persone innocenti voglio andare in carcere, voglio andare ai processi del dott. Borsellino, io gli dico, scusi ma allora perché tutto questo? Perché mi hanno costretto a farlo. A Pianosa dove lui viene rinchiuso, dice, mi torturavano, mi facevano urinare sangue… volevano che io dicessi quello che mi suggerivano, quello che mi dicevano. A questo punto gli chiedo: chi lo ha torturato? Il dott. La Barbera… Finisco la registrazione, il mio portatile squilla, 091.210111, il centralino della Questura: ti stanno cercando insistentemente dalla Questura, il dott. La Barbera ti vuole parlare. Capisco allora due più due, sanno allora che Scarantino ha parlato con me. Sanno perché hanno il telefono sotto controllo… Faccio il pezzo per l’edizione delle 18.30 di quel giorno, che va in onda… Quindi, torno tardi la sera, arrivo a casa. Segreteria telefonica, una delle segretarie del gruppo “Falcone-Borsellino” aveva chiamato più volte dicendo: “il dottore La Barbera ti vuole parlare”. La mattina successiva scendo per tornare al lavoro e il portiere mi ferma e mi dice: “ieri pomeriggio sono arrivate delle persone, si sono qualificate come poliziotti però non mi hanno fatto vedere nulla… hanno fatto domande su di lei, su sua moglie, dove insegna sua moglie… Dove vanno i bimbi a scuola…”. il giorno successivo si presentano due poliziotti e chiedono la registrazione… Arrivano in sala montaggio, in sala RVM, ed hanno perfettamente idea di quello che devono fare, cioè dicono “scusi, il master dov’e ? I pezzi montati dove sono?” (…) Dicono “le portiamo via” e se le portano via con una rapidità tant’è che nessuno riesce a dire “scusate, ma il mandato, un tesserino, un qualunque cosa?”. Contestualmente la Procura di Caltanissetta invia all’ufficio legale Mediaset a Milano una disposizione, un’ordinanza dove si chiede di eliminare dai nastri e dai server questa registrazione… Un tecnico disubbidiente di Milano, siciliano, sente quello che c’e per cui dice “questa e una storia strana” e conserva una copia di quello che e andato in onda. Quando siamo andati a cercare questa cosa (l’ordinanza, ndr), …non abbiamo trovato nulla; cioè questo documento non c’e , non si trova.
  • FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Lei non è mai stato ascoltato in un’Aula di giustizia.
  • MANGANO. No.
  • FAVA, presidente della Commissione Antimafia. Senta, ha avuto mai la sensazione che attorno a questa vicenda della cassetta, della registrazione, si siano mossi anche, diciamo, uomini che facevano riferimento non soltanto alla squadra “Falcone-Borsellino” ma anche a servizi di sicurezza?
  • MANGANO. Sì , assolutamente sì .

E qualcuno poi veste il “pupo”  Dunque, la mattina del 27 luglio 1995 Scarantino ritratta. La sera dello stesso giorno ci ripensa e “ritratta” la sua ritrattazione.  È accaduto che – appena avuta notizia delle intenzioni di Scarantino – il dottor Bo, del gruppo “Falcone-Borsellino”, e il pm Petralia raggiungono il collaboratore di giustizia nella località protetta in cui si trova. E Scarantino, dopo quel colloquio, si convince a rivedere la sua precedente versione: tutto falso, ha mentito, solo uno sfogo:  “C’ho avuto un momento di debolezza perché io volevo cambiare casa e allora… con questa cosa, io acceleravo il mio trasferimento e poi ero preoccupato perché, in realtà, pensavo che i magistrati non mi volessero credere più e pensavo che lo Stato mi scaricasse… Però è stato un momento di debolezza, la stupidaggine che ho fatto è stato chiamare mia madre al telefono…”.  Questa la ricostruzione di quelle convulse giornate, fornita in Commissione dall’avv. Di Gregorio:

  • DI GREGORIO. Su quello che è accaduto quel giorno, siamo riusciti per puro caso, a fare chiarezza dei tempi e dei movimenti della Procura… interrogando (nel quater, ndr) come testi il dottore Di Matteo, il dottore Petralia, la dottoressa Palma, il dottore Bocca, che sarebbe il funzionario del gruppo… Abbiamo chiesto com’è che si erano mossi e perché erano andati a sentire Scarantino… e sono venute fuori una serie di risposte che, alla luce di quello che, poi, abbiamo per caso scoperto, sono sostanzialmente delle testimonianze non rispondenti al vero… Perché ci hanno detto di essersi mossi per andarlo a sentire in virtù della ritrattazione televisiva… invece si sono mossi il giorno prima, disponendo nel pomeriggio del 25, quindi quando lui non aveva ancora ritrattato nulla, l’interrogatorio per le tre del pomeriggio del 26 a Genova, telefonando al dirigente della Mobile di Imperia che si chiama Coltraro… e dando incarico a Mario Bo di andare a prenderlo… Quindi erano partiti solo per la manifestata volontà (di Scarantino) alla madre di volere ritrattare.

(…) E, a questo punto avviene un corpo a corpo tra il collaboratore e il dottore Bo ed i suoi uomini che viene testimoniato… dalla moglie (di Scarantino), dal dottore Coltraro, cioè dal capo della Mobile di Imperia che si trova presente e cerca, diciamo così, di sedare gli animi… Scarantino dice che gli hanno messo pure una pistola in bocca ma questo non è stato provato assolutamente… Ci saremmo aspettati una relazione di servizio da parte di Bo e di Coltraro, un’iniziativa assunta dal dott. Petralia. Ma di tutto questo, non c’è nulla agli atti.

  • FAVA, Presidente della Commissione. Un passo indietro su un dettaglio. Quando si presentano alla redazione della televisione per sequestrare… esibiscono un ordine, c’è un documento che autorizzi questa decisione, c’è traccia di questo documento?
  • Avv. DI GREGORIO ROSA ALBA. C’è stata una richiesta da parte della Corte di Assise del Borsellino quater di acquisizione a Milano di eventuali documenti con i quali si ordinò la cancellazione dai server di tutto …ma non ci sono più i documenti che provano la richiesta. Però il dottore Petralia, quando glielo abbiamo chiesto, ci ha confermato che aveva fatto gli ordini. Il materiale dov’è, gli ho domandato? Non lo sappiamo, ha risposto.
  • Il dottor Petralia era il pm incaricato, quel giorno, di andare a verificare in Liguria la genuinità della ritrattazione di Scarantino. E ne ricava un’impressione netta: qualcuno lo ha costretto a ritrattare. Qualcuno chi? Ecco quello che ci ha riferito in Commissione:
  • FAVA, presidente della Commissione. Non le chiedo come andò l’incontro, perché c’è ampia cronaca, resoconti giudiziari anche su, diciamo, l’asprezza del confronto fra Scarantino e il dottor Bo e gli altri sottoufficiali. Le chiedo, invece, di una dichiarazione che lei fece subito dicendo “intanto si apre un’inchiesta” su questa ritrattazione di Scarantino. Per cui le chiederei se questa inchiesta a qualche cosa ha portato, qual è stato l’esito. E poi lei dice in un’intervista al Giornale di Sicilia: “C’era un apparato di supporto al gruppo mafioso, affinché Vincenzo Scarantino recedesse dalle sue confessioni”… Le volevo ricordare anche un’altra sua affermazione, sempre dello stesso periodo: e il Giornale di Sicilia del 27 luglio del ’95, “Da Caltanissetta fa sentire la propria voce il sostituto Procuratore della Repubblica Petralia, che parla di assurdità, di storie   in aria, che non hanno alcun senso, alle quali non si deve dare credito. Un’eventuale ritrattazione di Vincenzo Scarantino non può comunque incidere sostanzialmente sul processo”.
  • PETRALIA, magistrato. Questa frase e un po’ …
  • FAVA, presidente della Commissione. Le ho letto un virgolettato.
  • PETRALIA, magistrato. Sì. Spero di non averla detta proprio in questi termini… però poteva voler dire, volendole dare un senso, che “comunque i dati che si sono acquisiti sono tali che anche quando dovesse ritrattare …”. In questo senso poteva essere un messaggio alla controparte, quella che almeno avvertivamo, forse sbagliando, come controparte mafiosa che voleva fare recedere Scarantino, come dire: “guardate e inutile che ci mettete mano, perché tanto quello che abbiamo…”. Insomma la posso interpretare così, quasi per mandare un segnale di dire “smettetela con questi ripetuti attacchi alla granitica volontà di Scarantino di collaborare”. (…) Cioè, certamente oggi abbiamo maggiore consapevolezza dell’assoluta fragilità proprio del costrutto dichiarativo di Scarantino… Però c’erano vari segnali, adesso non me ne ricordo qualcuno in particolare… Insomma, si avvertiva una certa pressione. Allora, in un momento in cui comunque in un processo, per lo meno era il primo, c’era una posizione determinante… non potevamo credo reagire in modo diverso. Poi, sia chiaro, signori… chi arriva dopo ne sa sempre molto di più di chi arriva prima ed anche chi e arrivato per primo…
  • FAVA, presidente della Commissione. Noi abbiamo raccolto alcune considerazioni su questa vicenda che però sembrano avere già fotografato allora che Scarantino era personaggio abbastanza di frontiera. Il giornalista che lo intervista e che è dello stesso quartiere, la Guadagna, qui ci dice “sapevamo tutti che Scarantino era un poveraccio che sbarcava il lunario andando a vendere sigarette di contrabbando la mattina alla Guadagna in piazza, mettendo le cassette di frutta usate come banchetto” ed il dottor Sabella ci dice “io lo ascolto Scarantino, non quando si sa già perché è arrivato Spatuzza e Scarantino è un millantatore, ma quando Scarantino è il collaboratore” ed arriva alla conclusione che lui non c’entra nulla con i vertici di cosa nostra per le cose che lui non sa raccontare ma anche per quello che racconta. Cioè ci spiega Sabella che l’idea per come era organizzata cosa nostra, per il livello di riservatezza con cui si assumevano le decisioni, che ci potesse essere una riunione del consiglio di amministrazione di cosa nostra con Riina a capotavola e Scarantino che entra ed esce dalla stanza ed ascolta Riina in diretta dire “ammazziamo a Borsellino”, non e cosa che con un suo collega qualche punto di dubbio, che poi lui ha messo per iscritto ed inviato alle due Procure, ha determinato. Non avete mai avuto in questo senso, ben prima che arrivasse Spatuzza, la sensazioni, ed al di là delle sue ritrattazioni, dell’equilibrio un po’ labile del personaggio, che il racconto che lui faceva di quel summit in cui si decidono i destini di Borsellino, di quella strage fosse un po’ fantasioso?
  • PETRALIA, magistrato. Sì lo so, …lo rende ancora meno credibile di quanto in realtà già poco credibile fosse. … il punto e questo, ci sono anche dei criteri di valutazione della prova …allora accettati anche dalla Cassazione …c’erano dei punti delle dichiarazioni che erano attendibili… E anche se c’era un’altra parte di dichiarazioni che, o non erano riscontrate, o apparivano poco verosimili o comunque erano tali da incriminare un po’ l’attendibilità intrinseca ma non in modo completo, si poteva anche accettare di dare valenza probatoria alla parte invece non inverosimile e riscontrata.
  • FAVA, presidente della Commissione. La domanda e se… Scarantino possa essere stato anche imbeccato nel fornire alcuni elementi di verità …
  • PETRALIA, magistrato. Questo è il cuore del problema. E’ chiaro che, mi permetta un se, se Scarantino veramente non c’entra niente, il fatto che lui abbia reso vari elementi di verità, ci deve fare pensare che ovviamente gli sono stati forniti. Il punto e chi li ha forniti, li ha forniti perché a sua volta li aveva, questo e quello che adombra la sentenza… Come si dice a Palermo: ‘Vesto il pupo’… 

Un altro episodio che non può essere ignorato è quello relativo al colloquio investigativo del 26 giugno 1998 che il procuratore nazionale Pier Luigi Vigna ed il suo vice, Pietro Grasso, ebbero con Gaspare Spatuzza (all’epoca non ancora divenuto collaboratore di giustizia).

Sul punto, è lo stesso Grasso a fornire particolari dettagli alla Commissione:

  • GRASSO. … i colloqui investigativi della Direzione nazionale antimafia sono l’unico atto che può compiere il Procuratore… Il colloquio investigativo con Spatuzza veniva dal fatto che Spatuzza era stato già condannato per le stragi di via dei Georgofili di Firenze e di Milano…, dopo avere accolto il suo sostanziale pentimento per quello che era avvenuto, ma pentimento di ordine morale non di ordine collaborativo da un punto di vista della giustizia… A noi serviva soprattutto comprendere, capire se oltre la mafia c’era qualcos’altro intorno alle stragi di Firenze, quella di Roma, quella di Milano… Dobbiamo anche precisare che il colloquio investigativo e un atto assolutamente non utilizzabile sotto il profilo processuale e che all’inizio di ogni colloquio viene proprio detto questo all’interlocutore che qualsiasi cosa dirà non potrà essere usata a livello processuale né contro di lui né a favore di altri. Sono degli spunti che poi possono dar luogo a ulteriori indagini. Nel corso di questo colloquio investigativo del ’98, arrivato ad un certo punto, quando io ed il procuratore Vigna andiamo a parlare della strage di via D’Amelio e soprattutto dell’autovettura utilizzata… su Scarantino, Spatuzza dice espressamente che Scarantino non sa nulla, non c’entra… Lui dice che ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare e gli hanno suggerito quello che doveva dire…
  • FAVA, Presidente della Commissione Questo verbale viene mandato alla Procura di Caltanissetta?
  • GRASSO. Si, il Procuratore (Vigna) aveva informato appunto la Procura di Caltanissetta di questo colloquio investigativo. (…) Ricordo comunque che il clima di quel periodo… rispetto alle dichiarazioni di Scarantino, era sempre stato un clima che non dava nessuna affidabilità a tutti i tentennamenti di Scarantino, alle ritrattazioni che c’erano state precedentemente… e quindi il clima e quello che Cosa Nostra, almeno così viene rappresentata la sua ritrattazione, Cosa Nostra sta facendo delle pressioni per fare ritrattare Scarantino e quindi potere fare venire meno le responsabilità di coloro che vengono da lui accusati… Questo clima che porta addirittura a dire, ai pubblici ministeri dell’epoca, uno era Di Matteo e l’altra era Anna Maria Palma, che intanto è Cosa Nostra che sta cercando di fare ritrattare e addirittura che la ritrattazione è una conferma della veridicità delle dichiarazioni di Scarantino.

I primi sospetti su Scarantino  Uno degli passaggi più opachi dell’indagine riguarda la mancata redazione del verbale di sopralluogo eseguito da Vincenzo Scarantino in via Messina Marine per il riconoscimento della carrozzeria di Orofino. Sopralluogo che ebbe, per ciò che ha potuto ricostruire la Corte di Assise di Caltanissetta nel Borsellino quater, esiti abbastanza negativi sull’attendibilità dello Scarantino:

“Dell’esecuzione di un siffatto sopralluogo presso la carrozzeria di Orofino, vi è traccia anche per le dichiarazioni testimoniali rese dagli inquirenti dell’epoca… Tuttavia, del verbale di sopralluogo, sicuramente eseguito con Vincenzo Scarantino, non vi è alcuna traccia nei fascicoli dei precedenti processi né dell’atto vi è alcuna menzione nelle sentenze dei precedenti processi”…

Così ricostruisce quella vicenda in Commissione, con ricordi per la verità assai lacunosi, l’allora procuratore aggiunto Paolo Giordano:

  • FAVA, presidente della Commissione. Come mai non ci fu un verbale del sopralluogo che fece la Polizia con Scarantino nel garage dove… la 126…
  • FAVA, presidente della Commissione. No, questo sopralluogo non ebbe alcun magistrato presente… infatti, come mai non c’era nessun magistrato?
  • FAVA, presidente della Commissione. Cioè c’è una delega piena sul piano della fiducia…
  • FAVA, presidente della Commissione. In questo caso era soltanto un sopralluogo per verificare la compatibilità tra le cose che diceva Scarantino e le cose che lì trovava. Quindi non c’era bisogno di una grande esperienza…

Anche la pm Palma, ascoltata in dibattimento durante il Borsellino quater, non ha saputo offrire valide spiegazioni sulla scomparsa di quel verbale (ammesso che sia mai stato redatto) né sul motivo per cui le palesi contraddizioni di Scarantino non vennero mai acquisite in sede di indagine: la credibilità del collaboratore di giustizia rimase incredibilmente integra.

  • TESTE A. PALMA – Sì.
  • TESTE A. PALMA – Io non le posso dire no, perché le devo dire non ricordo proprio, ecco, non ricordo proprio, che è un no.
  • TESTE A. PALMA – Sì, sì, sì, questo mi ricordo. Non so da che… da che cosa me lo ricordo, forse da qualche domanda che è stata fatta nel corso dei tre dibattimenti, dei sopralluoghi me lo ricordo. Ma d’altra parte non mi meraviglia più di tanto, perché spesso ai collaboratori si fanno fare i sopralluoghi.
  • TESTE A. PALMA – No, io non… non ho mai visto una cosa del genere, ecco. (…)
  • TESTE A. PALMA – No.
  • TESTE A. PALMA – No, non mi sono confrontata… Io non li… non li avevo nel fascicolo ‘sti sopralluoghi e quindi non avevo motivo di approfondire. Io ho approfondito tutto quello che ho trovato nei fascicoli.
  • TESTE A. PALMA – No, no, no.
  • TESTE A. PALMA – Non mi sono posta assolutamente il problema, devo dire forse sarò stata ignorante.

I VERBALI “ANNOTATI”  Altro nodo cruciale della vicenda in esame è rappresentato dai verbali delle dichiarazioni di Scarantino con annotazioni in calce non sue, annotazioni scritte da uno dei poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” che – è il sospetto degli inquirenti – avrebbero dovuto aiutare e “accompagnare” il collaboratore nell’affrontare in dibattimento l’interrogatorio su quegli argomenti.

A tal proposito, preziosa è stata l’audizione dell’avvocato Scozzola:

AVVOCATO SCOZZOLA: Dopo i fatti di questa ritrattazione (quella televisiva del luglio ‘95, ndr), la signora Basile, la moglie, è venuta a Palermo, perché ha lasciato sia pure con difficoltà il luogo protetto del marito… A quel punto ho saputo tutta una serie di fatti ivi compreso quello studio terribile che è stato fatto fare a Scarantino quindici giorni prima per la precisione, dal 12 maggio del ’95 sino al momento dell’audizione al Borsellino 1… Per quindici giorni Scarantino si esercitò, diciamo, a memorizzare domande e risposte per come sarebbe potuto andare il dibattimento…

Sull’entrata in scena di tali verbali, ha riferito dinanzi questa Commissione anche l’avvocato Rosalba Di Gregorio:

  • FAVA, Presidente della Commissione. Sui verbali annotati, diamo per acquisita la vicenda e non abbiamo bisogno di ricostruirla nel dettaglio, ci può ricordare quali erano i verbali a cui si faceva riferimento, chi notò, rilevò questa anomalia, quali sono state le diverse versioni di Scarantino su queste annotazioni e la versione invece del sottufficiale di polizia che avrebbe materialmente annotato.
  • FAVA, Presidente della Commissione. Annotazioni dietro dettatura e suggerimento di Scarantino.

 

LA NOTA DI BOCCASSINI E SAJEVALa compattezza con cui l’intero pool di Caltanissetta asseconda la direzione impressa da La Barbera alle indagini su via D’Amelio dando credito alle propalazioni di Scarantino viene messa in discussione, improvvisamente, da due lettere con cui la pm Ilda Boccassini (assieme al collega Roberto Sajeva, cofirmatario della seconda lettera) prende le distanze dall’indagine e dalle conclusioni cui si sta arrivando. La prima lettera è a firma della sola Boccassini (10 ottobre 1994). I destinatari sono il procuratore aggiunto Giordano e, per conoscenza, il procuratore capo Tinebra; la Boccassini lamenta il proprio mancato coinvolgimento nella definizione degli indirizzi investigativi successivi alle (“sorprendenti” le definisce) dichiarazioni di Scarantino. Sottolinea la Boccassini nella sua lettera a Giordano e Tinebra:

“…di una dissonanza delle opinioni da me espresse, in una riunione tenuta nei primi giorni di settembre, da quelle degli altri colleghi in ordine: alle assunzioni delle dichiarazioni con le quali

– mi si diceva –Scarantino Vincenzo aveva chiamato in correità nella strage di via D’Amelio i collaboratori di giustizia Cangemi, La Barbera e Di Matteo; alla valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni suddette (che io giudicavo, sulla base di argomenti logici, scarsamente credibili); alla necessità di tempestivi interrogatori – da assumere esclusivamente con le forme con le forme imposte dal codice di rito – dei collaboratori chiamati in correità ed eventualmente ai successivi confronti con Scarantino Vincenzo; all’opportunità di dare tempestivo avviso delle nuove emergenze investigative alla D.D.A di Palermo; alla necessità di adoperarsi per un rinvio del dibattimento relativo ai primi quattro imputati della strage di via D’Amelio…”

La seconda lettera, firmata assieme a Sajeva, è datata 12 ottobre 1994 (con nota di trasmissione del 19 ottobre 94): destinatari il Procuratore di Caltanissetta e quello di Palermo e si mettono in discussione, in modo assai critico, le dichiarazioni di Scarantino e di Andriotta raccolte tra il settembre e l’ottobre di quell’anno. Scrivono in conclusione nella loro nota Sajeva e la Boccassini:

“L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di via D’Amelio – prima affermata come certa e poi come possibile – di Cancemi, La Barbera e Di Matteo suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale ditale collaboratore…”

 

La colpa fu solo di La Barbera?Ecco come ricostruisce l’episodio la stessa Boccassini, interrogata nel corso del dibattimento del Borsellino quater.

  • TESTE BOCCASSINI I. – Sì, ricordo perfettamente questa relazione a firma mia e di Roberto Sajeva, come ricordo perfettamente l’altra relazione prodromica che riguarda… in particolare la situazione di Scarantino… Ci rendemmo conto di quello che aveva detto Scarantino… cioè proprio la sua collaborazione ha determinato la convinzione, almeno in me, di dire: “Siamo di fronte ad una persona che sta raccontando un sacco di fregnacce”, scusate il termine… Quindi, a questo punto, naturalmente, io ne parlai con Tinebra, con gli altri colleghi, dicendo che a mio giudizio andava sospeso tutto, cioè nel senso che dovevamo verificare, fare… fare confronti, avvisare subito Palermo, perché naturalmente c’era il coinvolgimento di tre grossi collaboratori e quindi Palermo doveva essere avvisata. …secondo me, bisognava fare prima luce su Scarantino e dopodiché ricominciare da capo.
  • TESTE BOCCASSINI I. – Allora, parlava di una riunione che c’era stata prima della… della morte del dottor Borsellino, proprio in preparazione, dove erano presenti anche Gioacchino La Barbera, Di Matteo Santo e Cancemi Salvatore… gli vengono fatte vedere delle fotografie e non riconosce le singole persone… Quindi rispetto a questo abbiamo deciso di fare questa relazione… e quello che io dissi a Tinebra e agli altri colleghi: “Guardate – c’era la Palma, c’era Di Matteo, c’erano bene o male quelli che si stavano occupando – guardate che proprio la sua collaborazione ci sta facendo capire che le perplessità iniziali erano corrette, e cioè che una persona con quel background criminale non poteva avere avuto un qualsiasi tipo di incarico rispetto alla strage di via Capaci”.
  • TESTE BOCCASSINI I. – Allora, se non ricordo male, Arnaldo La Barbera era presente anche alle riunioni che si fecero in Procura prima di questi fatti. Teniamo presente che in quel periodo, se non ricordo male, era stato già nominato Questore di Palermo… Io le posso dire come io mi sarei comportata e come mi sono comportata e non posso che ribadire quello che ho detto prima: il dominus delle indagini sono i Pubblici Ministeri, non gli investigatori, quindi delle due l’una. Se si è ritenuto di andare avanti per quella strada, evidentemente gli altri colleghi che sono subentrati dopo di noi erano convinti che Scarantino avesse avuto un momento di debolezza.
  • Questa è la deposizione, sempre nel corso del al Borsellino quater, di Roberto Sajeva:
  • TESTE SAJEVA R. – …sotto la data del 12 ottobre compilammo una relazione che voleva essere un sunto della storia della collaborazione di Vincenzo Scarantino, mettendo in evidenza tutti gli elementi di contraddizione e gli elementi di debolezza delle sue dichiarazioni. Venne redatto, quindi, questa sorta di appunto di lavoro, che avrebbe dovuto servire da traccia ad una riunione della DDA che si sarebbe dovuta tenere per fare, appunto, il punto della situazione il giorno successivo.
  • TESTE SAJEVA R. – Il documento fu consegnato sicuramente al dottor Tinebra e venne inviato, lo stesso giorno 12 ottobre, per fax alla Procura di Palermo. Questo è il mio ricordo.
  • TESTE SAJEVA R. – Immagino che siano… ma posso solo immaginarlo, immagino che siano venuti a conoscenza anche gli altri magistrati che si occupavano della trattazione.

Ma cosa accadde a Caltanissetta quando i colleghi della Boccassini e di Sajeva ricevettero quella nota? Chi la legge? Che credito le si attribuisce? Perché non produce alcuna conseguenza sugli assetti dell’indagine?

  • Ecco cosa hanno riferito in Commissione l’allora procuratore aggiunto Giordano e l’allora pm Petralia:
  • FAVA, presidente della Commissione. Ma nelle note che abbiamo questo non c’era, forse era aggiunto.
  • FAVA, presidente della Commissione. Negativa…
  • FAVA, presidente della Commissione. Una captatio benevolentia nei confronti della procura di Palermo?
  • FAVA, presidente della Commissione. Le cose che dicevano erano cose oggettive…

 

  • Magistrati “a confronto”” Chi afferma di non aver mai avuto notizia della nota in questione, più per ragioni legate ai rapporti personali che per motivi professionali, sono la dottoressa Palma e il dottor Di Matteo, entrambi pm a Caltanissetta in quei giorni:
  • TESTE A. PALMA – No. Assolutamente no. Le ho anche detto che la Boccassini mi salutava a stento, nonostante siamo dello stesso concorso, e che non mi disse… non l’ho più vista, non l’ho più vista e non so… io non l’ho più vista assolutamente, non è venuta neanche a quella cosa…
  • TESTE A. PALMA – …la mia parola contro la sua, metteteci a confronto, scusi. (…)
  • TESTE A. DI MATTEO – …la mia risposta è assolutamente no, non ho letto… Ma le dirò di più: la dottoressa Boccassini, che andò via proprio credo in quel periodo, non ricordo… io con la dottoressa Boccassini non solo non ho mai parlato, o meglio, lei non mi ha mai parlato di Scarantino o di altro, ma io, che, appunto, ero stato designato nell’ottobre del ’94 per far parte assieme ad altri del pool, non ho ricordo, e sono certo del mio ricordo, di avere mai parlato con la dottoressa Boccassini di vicende relative ad indagini… come io non ho mai parlato di vicende relative a queste indagini con il dottor La Barbera… Probabilmente loro nemmeno sapevano chi fossi; con la dottoressa Boccassini ho avuto il piacere di parlare qualche volta in occasione di un caffè al bar, ma non ho… non ho mai partecipato ad una riunione operativa della DDA con la dottoressa Boccassini, ad una riunione investigativa con le forze di Polizia, e la dottoressa Boccassini non ha mai avuto occasione con me di dirmi qualcosa o semplicemente di espormi le sue valutazioni e le sue considerazioni.
  • Ben diversa, infine, è la valutazione di Alfonso Sabella, all’epoca pm presso la Procura di Palermo. Anche lui lesse la nota della Boccassini e di Sajeva, e così ricostruisce l’episodio in Commissione:
  • ALFONSO SABELLA, magistrato. Io l’ho letta la nota della Boccassini e ci credo ancora! Questa nota era arrivata a Palermo, io l’ho letta, è arrivata a Palermo.
  • FAVA, Presidente della Commissione. Ecco! Ci aiuti a capire al di là delle forme, nella sostanza, in una indagine come questa, quando da Palermo la Procura della Repubblica manifesta preoccupazione sull’attendibilità del teste chiave, un Sostituto della Procura che sta indagando scrive una lettera così puntuale e preoccupata chiedendo una verifica… cosa sarebbe dovuto accadere?
  • ALFONSO SABELLA, magistrato. È chiaro che in una fisiologia occorreva fare quello che ha suggerito Ilda Boccassini, cioè andare a riverificare punto punto… faccio un esempio, quando Giovanni Brusca iniziò a collaborare con noi e ci comincia a propinare tutta una serie di fesserie, è chiaro che noi, io le metto nero su bianco tutte le fesserie che mi dice Giovanni Brusca, facciamo una riunione alla Procura nazionale, lo comunica alle altre Procure, dico “per me Brusca è inattendibile per questo, questo, questo, questo e questo, su questo ha mentito, qua probabilmente mira a proteggere Giovanni Riina, qua mira a scansare Vito Vitale, qua vuole accollare un omicidio in più a Di Maggio e toglierlo al fratello e così via”, mi presento in Procura nazionale davanti alla buonanima di Bruno Siclari con tutte le Procure, rappresento quali sono le perplessità, la Procura di Firenze perfettamente d’accordo con noi, la Procura di Caltanissetta nicchia un pochino perché in realtà vorrebbe continuare a interrogare Brusca, poi a quel punto si fa una linea comune, decidiamo d’intesa con la Procura nazionale di congelare gli interrogatori di Brusca e non andiamo avanti fin quando poi Brusca non si mette la testa a posto e inizia a collaborare più o meno seriamente. Credo che poteva essere adottato un meccanismo di questo tipo, insomma, …si poteva ragionare in termini di Procura nazionale però lo ripeto…
  • FAVA, Presidente della Commissione. La Procura nazionale in questi casi da chi dovrebbe essere attivata?
  • ALFONSO SABELLA, magistrato. Da una delle due Procure sicuramente! Palermo non aveva un grande interesse ad attivare la Procura nazionale, parliamoci chiaro, perché per noi Scarantino era un tossicodipendente, spacciatore della Guadagna…

Sul ruolo che avrebbe dovuto avere la Procura Nazionale è d’accordo anche il dottor Gozzo: Insomma, l’indagine prosegue, incredibilmente, senza alcun ripensamento. Scarantino continua ad essere il perno dell’inchiesta, il teste d’accusa su cui si avviteranno più giudizi e più sentenze, fabbricando e accompagnando nei fatti il depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Anche il gruppo di indagine “Falcone-Borsellino” perde qualche pezzo. Se ne va Genchi, il numero due di La Barbera, dopo una violenta discussione con il capo della mobile di Palermo. Che così Genchi ricostruisce in Commissione:

  • GENCHI. La Barbera mi dice che sono uscite le motivazioni della sentenza del maxi processo, in quei giorni, da poco, da qualche settimana. L’avevamo letta, l’avevano letta, e il “sinedrio” – senza di me ovviamente – aveva chiuso le indagini. Ormai è fatta, due più due fa quattro, la strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra. Noi qui dobbiamo trovare qualche elemento minimale, addebitiamo tutto alla Cupola. Io divento Questore, tu vieni promosso per merito straordinario, vai dove vuoi andare…tra tre quattro anni diventi questore pure tu …. Queste sono le ultime parole di La Barbera. Abbiamo un duro scontro che dura tutta la notte fino alle cinque di mattina …
  • FAVA, presidente della Commissione. Le ultime parole di La Barbera quali sono? Qui abbiamo risolto tutto …
  • GENCHI. Esatto. Chiudiamo così, chiudiamo con Scarantino …
  • FAVA, presidente della Commissione. Collochiamo nel tempo quest’ultimo incontro… GENCHI. Il 4 maggio.
  • FAVA, presidente della Commissione. 4 maggio del 1993?
  • GENCHI. Inizia la sera intorno alle 19, non siamo andati neanche a cenare, e dura fino alle 5.45 del mattino. Io esco sbattendo la porta, La Barbera piange. Per la prima volta in vita mia ho visto piangere La Barbera…
  • FAVA, presidente della Commissione. In questa ricostruzione che faceva La Barbera c’erano soltanto le carriere di voi due?
  • GENCHI. Sì, chiudiamo, arrestiamo Scotto. Chiudiamo sulla Cupola, sono tutti legati a Cosa nostra e si chiude così. Abbiamo chiuso.
  • FAVA, presidente della Commissione. E lei su quale punto non era d’accordo? A parte, diciamo la decisione di procedere all’arresto di Scotto.
  • GENCHI. Veda, un investigatore può anche accelerare un arresto. A volte si fanno anche nel tentativo di fare emergere qualche elemento in più dall’arresto, perché poi si intercetta in carcere, intercettano i parenti, etc. Quello che è accaduto con la strage di Via D’Amelio non sono delle scelte errate o delle scelte avventate o delle scelte sprovvedute, Presidente, questo è l’aspetto grave, gravissimo. Questi signori hanno individuato dei falsi colpevoli e li hanno perseguiti e fatti condannare non allo scopo di fare carriera o chiudere le indagini, ma allo scopo di non individuare i veri colpevoli di quella strage. E i veri responsabili sotto il profilo dei mandanti!
  • FAVA, presidente della Commissione. Quindi diciamo che quella cosa che le proponeva La Barbera quella sera, le carriere, chiudiamo il caso, risolviamo, era copertura rispetto ad una intenzione diversa che era quella di portare le indagini in un’altra direzione per coprire i mandanti?
  • GENCHI. Questo è l’aspetto eversivo diciamo di quello che è accaduto in Italia.

L’appello del Borsellino Bis  Come si è già accennato nel capitolo sui processi, per una corretta comprensione di questa tormentata e sconcertante vicenda processuale è utile infine soffermare l’attenzione sulla sentenza di appello del processo cosiddetto Borsellino bis, pronunciata il 18 marzo 2002, precisamente quella poi travolta dalla revisione.

In precedenza, ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’appello nel giudizio Borsellino1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino.

Sentenze che, giova precisare, sebbene non utilizzabili nell’ambito del processo di secondo grado del Borsellino bis, costituivano, comunque, una sorte di significativo campanello d’allarme perché la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta valutasse con estrema cautela e prudenza l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello Scarantino, dell’Andriotta e del Candura.

Con la sentenza della Corte di Cassazione del 19 gennaio 2001 (che confermava la sentenza d’appello del Borsellino1 e ne sanciva l’irrevocabilità, suggellando come inattendibili le propalazioni accusatorie di Scarantino) l’allarme si trasformava in vero e proprio dato processuale utilizzabile, a norma dell’art. 238- bis c.p.p., nell’appello del Borsellino bis.

La sentenza del 18 marzo 2002, tuttavia, ha restituito piena credibilità all’intero racconto del picciotto della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni, anche in quelle parti del racconto che potevano apparire perfino inverosimili (per esempio la descrizione con particolari della riunione della cupola di Cosa Nostra presso la villa di Calascibetta).

Resta allora mestamente da interrogarsi, se la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta nel processo Borsellino bis sia incorsa, suo malgrado, in un clamoroso errore giudiziario, ovvero sia stata fuorviata da una sorta di annebbiamento processuale.

In entrambi i casi, ha finito, inconsapevolmente, per stendere un velo e, sostanzialmente, sanare tutte le contraddizioni procedimentali, le inerzie e le omissioni investigative, le indagine deviate e soprattutto le eventuali violazioni di molte regole processuali, la più grave delle quali – come abbiamo visto – quella concernente l’omesso tempestivo deposito dei confronti tra lo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo in data 13 gennaio 1995. Non può sfuggire la circostanza che l’esito di questi confronti, rivelatosi radicalmente devastante per Scarantino, avrebbe determinato il crollo ed il dissolvimento della credibilità del collaboratore, facendo così venir meno il perno accusatorio.

Non aver portato a conoscenza dei difensori l’esito dei confronti ha impedito agli stessi di utilizzare i relativi verbali per chiedere nel dibattimento in corso di primo grado del Borsellino1 il confronto tra i quattro collaboratori che smentivano la credibilità della principale fonte d’accusa. Inoltre, il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dello scarsissimo spessore criminale e dell’inesistente affidabilità di Vincenzo Scarantino. E l’incredibile ed inquietante iter processuale della strage di via D’Amelio avrebbe avuto un esito radicalmente diverso per gli imputati condannati ingiustamente sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e solo successivamente assolti con formula piena in sede di giudizio di revisione.

 

Un depistaggio pieno di indizi. Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.

Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso.

Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell’indagine su via D’Amelio.

Lasciando al processo di Caltanissetta il compito di dirci se vi furono – e a carico di chi – responsabilità penali, si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda in via D’Amelio.

Questo induce a pensare che “menti raffinatissime”, volendo mutuare un’espressione di Giovanni Falcone, si affiancarono a Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio.

E’ certo il ruolo che il SISDE ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata.

E’ certa la consapevolezza (ma anche l’inerzia) che si ebbe in procura a Caltanissetta sull’irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge.

Certa è anche l’irritualità dei modi (“predatori”, ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo “Falcone-Borsellino” condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti.

Certo, infine, ripetiamo, il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, Arnaldo La Barbera. Se taluno di quegli indizi fosse stato raccolto tempestivamente anche da chi non aveva funzioni direttive, se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna.

In conclusione, alla luce di tutte le considerazioni svolte, ciò che veramente inquieta non è tanto la riconosciuta falsità delle dichiarazioni dello Scarantino, sul piano processuale, come si è constatato, suscettibili di essere difficoltà disvelate bensì l’apparizione del personaggio in quanto tale. La sua improvvisa e immediata irruzione nello scenario processuale probabilmente doveva servire, con le sue propalazioni, ad escludere ogni possibile sospetto che mandanti della strage potessero essere anche soggetti estranei all’associazione mafiosa.

In tal modo venivano appagate le ansie e le aspettative di verità della pubblica opinione per la pronta scoperta di mandanti ed esecutori, tutti mafiosi, ed al tempo stesso si esorcizzava l’incubo di indicibili partecipazioni diverse ed occulte.

Infine, se le domande che questa Commissione ha voluto raccogliere, per poi rivolgere a chi era in condizione o aveva il dovere di rispondere, fossero state formulate anche in passato, non avremmo dovuto attendere 26 anni per avere contezza e certezza di questo depistaggio.

Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità.    Fonte Associazione Cosa Vostra.  A.BOLZONI, C.FRATI e F.TROTTA

 

 

 

🟧 PREFAZIONE di Fiammetta e Lucia Borsellino

🟧 PREMESSA di Claudio Ramaccini

🟥 PAOLO BORSELLINO, il coraggio della solitudine

🟥 CRONISTORIA DEL DEPISTAGGIO dal 1992 ad oggi

🟥 La DENUNCIA di FIAMMETTA BORSELLINO

🟥 ed ALTRO ANCORA 

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