«Quando i giovani di un quartiere vedono il rispetto, la deferenza, le premure di cui è circondato l’uomo d’onore, finiscono per innamorarsi della mafia. Vedono che lo zio X entra in un bar e tutti gli corrono incontro per rendergli omaggio e fanno a gara a chi lo serve meglio, oppure accorrono sul posto solo per vederlo, per ammirarlo… Cominciano allora a pensare alla mafia come a una cosa grande, che consente di superare gli altri, di elevarsi sopra la massa» Antonino Calderone
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La mafia non uccide donne e bambini… il racconto di Antonino Calderone
Antonino Calderone(Catania, 24 ottobre 1935 – 10 gennaio 2013) Dal 1962 boss mafioso della prima famiglia della città di Catania, fondata dallo zio Antonino Saitta, ed è il fratello minore del boss Giuseppe Calderone, mentre continuava a svolgere la sua attività di imprenditore, principalmente come titolare di una stazione di servizio di carburanti, prima a Giarre e poi a Catania. Materialmente non è responsabile di omicidi (anche se in qualche modo ha assistito a 7 omicidi come da lui stesso ammesso), cosa che lo rendeva malvisto agli occhi di alcuni membri delle cosche catanesi. Tuttavia il prestigio di cui godeva il fratello Giuseppe, detto Pippo (membro della commissione regionale di Cosa Nostra) gli consentì di essere di fatto un potente boss mafioso e di controllare gli affari catanesi fino al settembre 1978, quando Nitto Santapaola decise di far uccidere Pippo, che si era posto contro i Corleonesi. In seguito all’assassinio del fratello, Antonino fu di fatto estromesso dagli affari della famiglia catanese. Dovette a breve fuggire dall’Italia e andò in Francia dove per qualche anno mise in piedi una piccola attività di lavanderia. Fu arrestato proprio in Francia e nel 1986, nel carcere di Nizza, dopo alcuni mesi di galera, decise di collaborare con la Giustizia e di sottoporre quindi al programma di protezione se stesso e la sua famiglia. Fu tra i più importanti fornitori di informazioni sulla mafia catanese, in particolare sulle relazioni tra i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa e Santapaola, accusando tra l’altro Tommaso Buscetta e Contorno. Muore nella località segreta oltreoceano in cui risiedeva da anni sotto falsa identità il 10 gennaio 2013, all’età di 78 anni Giovanni Falcone in persona si recò più volte in Francia per ascoltare le clamorose rivelazioni di Calderone che causarono circa 200 arresti, ed ai giornali Calderone, molto colpito dalla personalità e dignità del magistrato, dichiarò “Ho collaborato con Falcone perché è uomo d’onore.” In seguito alle proprie rivelazioni, Calderone abbandonò nell’anonimato l’Italia per sfuggire alla vendetta di Cosa Nostra, ma non mancò di far arrivare un ultimo messaggio, particolarmente significativo, proprio a Falcone: «Signor giudice, non ho avuto il tempo di dirle addio. Desidero farlo ora. Spero che continuerà la sua lotta contro la mafia con lo spirito di sempre. Ho cercato di darle il mio modesto contributo, senza riserve e senza menzogne. Una volta ancora sono costretto a emigrare e non credo di tornare mai più in Italia. Penso di avere il diritto di rifarmi una vita e in Italia non è possibile. Con la massima stima, Antonino Calderone Inserito in COSA NOSTRA sin dagli inizi degli anni Sessanta, aveva rivestito la carica di vice rappresentante della “famiglia” di Catania dal 1972 al 1977, periodo in cui detta organizzazione aveva il suo “leader” indiscusso nel fratello CALDERONE Giuseppe, ucciso poi nel settembre del 1978 perché legato alla fazione anticorleonese e soppiantato, quindi, nella direzione del clan da SANTAPAOLA Benedetto, vicino al RIINA. Dopo la morte del fratello, che aveva anche ricoperto dal 1975 al 1977 la carica di coordinatore della Commissione Regionale – costituita nel 1975 tra i vari rappresentanti delle Province nelle quali esistevano “famiglie” di COSA NOSTRA per trattare le questioni di interesse comune – il CALDERONE era rimasto alcuni anni a Catania, prima di allontanarsene nel 1983, consapevole dei rischi personali che correva per i suoi rapporti di parentela con il boss ucciso. Tratto in arresto a Nizza il 9 maggio del 1986, nel dicembre di quell’anno iniziava a collaborare con l’A.G. italiana, fornendo nel primo maxiprocesso di Palermo dati di conoscenza assai utili sulle modalità organizzative delle “famiglie” e delle “province”, nonché sulle dinamiche interne di COSA NOSTRA nel periodo in cui era latente il conflitto tra i corleonesi e la fazione opposta. Data la carica ricoperta e la vicinanza al fratello Giuseppe, le predette dichiarazioni provengono da fonte particolarmente qualificata e direttamente informata dei fatti, almeno sino al 1978 e l’attendibilità del collaborante è stata sul punto pienamente accertata da varie sentenze della S.C. di Cassazione, tra cui quella già ricordata del 30.1.1992.
I primi anni e l’affiliazione a Cosa Nostra Nato a Catania, vi rimase per 48 anni, svolgendo ufficialmente la professione di imprenditore, titolare di una stazione di servizio AGIP a Giarre. Era in realtà il vice-rappresentante della Famiglia di Catania, braccio destro di suo fratello Giuseppe (detto Pippo), rappresentante provinciale che godeva di un grande prestigio sia all’interno di Cosa Nostra che presso la popolazione della città. Antonino entrò a far parte ufficialmente della famiglia nel 1962, principalmente perché era attratto dal potere e dalla deferenza che tutti riservavano ai mafiosi in città, oltre al fatto che era la via più facile per migliorare la propria posizione sociale. La sua carriera criminale iniziò con una piccola strage: quattro ragazzini disturbavano la quiete del “suo” territorio, commettendo piccoli furti. Si chiamavano Benedetto Zuccaro (15 anni), Giovanni La Greca (14), Riccardo Cristaldi (15) e Lorenzo Pace (14). Come rivelò lui stesso ai magistrati: “Li abbiamo sequestrati e rinchiusi in una stalla perché disturbavano la tranquillità del quartiere con continui atti di teppismo. Vennero strozzati e buttati in un fosso”.
L’omicidio del fratello e il declino L‘8 settembre 1978 Pippo Calderone morì a seguito di un attentato organizzato 3 giorni prima dai Corleonesi, nell’ambito della Seconda Guerra di Mafia. Esecutore dell’omicidio fu Nitto Santapaola, che però non ammise mai le sue responsabilità nell’omicidio. La sentenza di morte di Calderone era giustificata dalla sua amicizia con Di Cristina (ucciso in quanto divenuto informatore della polizia) e dal suo presunto appoggio nell’omicidio di Francesco Madonia. Antonino non poté reagire a quell’omicidio: non aveva né diritto alla giustizia della Commissione, alla quale non era in grado nemmeno di indicare i nomi dei colpevoli, né disponeva delle forze necessarie per vendicarsi personalmente. Progressivamente, benché formalmente fosse il reggente della cosca, Antonino venne emarginato dalle riunioni, dagli affari e dalle notizie dei vertici catanesi. La sua statura criminale venne irrimediabilmente compromessa quando si trovò a dover giudicare il caso di quattro ragazzini catanesi che avevano avuto l’ardire di rapinare non una vecchietta qualsiasi, ma proprio la mamma di Santapaola, che ora reclamava vendetta per lo sgarbo subito: Antonino gliela rifiutò e fu chiaro a tutti che non era più il caso di averci a che fare. I primi a intuirlo furono i Costanzo, noti imprenditori con cui i Calderone facevano affari da anni, poi anche la popolazione gli voltò le spalle. Costretto a vivere a fianco degli assassini di suo fratello, Antonino sviluppò un senso di inadeguatezza per quella vita. Capì la sua definitiva estraneità a quel mondo, quando la Commissione si riunì per commemorare la scomparsa del fratello: “La riunione della commissione si aprì con un breve discorso di Salvatore Riina il quale, dicendo di riassumere con le sue parole i sentimenti di tutti, rievocò la figura di mio fratello, la sua reputazione di uomo d’onore magnanimo e prodigo, e le sue opere a favore di una Cosa Nostra più ordinata e concorde. Pippo era stato grande perché aveva unificato Cosa Nostra, ma tutti i guai erano venuti da Di Cristina. Pippo aveva creduto in lui, è vero, ma in buona fede. Non poteva essere incolpato per questo. Ora bisognava mettere una pietra sopra tutte le discordie e i veleni, e volersi bene. Guardai Riina infervorarsi nella sua orazione e allora mi accorsi che ero ormai un estraneo a quel mondo, in quanto lo osservavo con occhi distaccati e cuore impassibile, come dietro una vetrata di dolore congelato. Era difficile stabilire se Riina recitasse o no, se quelle alte e nobili parole provenissero da un sincero cordoglio per la morte di una persona di valore, o dalla soddisfazione abietta del trionfatore che ha appena eliminato un nemico pericoloso e che è orgoglioso delle qualità della vittima, in quanto accrescono il pregio della prodezza appena compiuta. Non mi fermai a lungo su questo pensiero. Era inutile cercare di sceverare, di capire, di orientarsi. È sempre così in Cosa Nostra: ogni fatto non ha mai un solo significato. Irretito nell’organizzazione, vi rimase come un’ombra per altri quattro anni, vivendo al limite della povertà e nel timore di essere ucciso. I Santapaola lo tenevano sotto stretto controllo aspettando che commettesse un errore che fornisse loro la giustificazione per eliminarlo, ma il suo comportamento era impeccabile. L’occasione tuttavia, anche se tardò ad arrivare, si presentò quando cominciò a circolare la notizia che Franco Grillo, un uomo di Nitto Santapaola che era stato catturato dai superstiti del gruppo Ferlito (un gruppo di mafiosi che si erano per anni scontrati con i Santapaola e che avevano da poco perso il loro leader, Alfio Ferlito, nella strage della circonvallazione di Palermo.) e «adeguatamente interrogato», aveva rivelato la responsabilità di Nitto e dei suoi alleati nell’omicidio di Pippo. Fu proprio questa, la conferma dei suoi sospetti sui mandanti dell’attentato al fratello, che segnò la condanna a morte del pentito: “Non rimasi sorpreso dalle rivelazioni, anzi provai quasi un senso di sollievo: era arrivato il pretesto lungamente atteso per eliminarmi. Essendo legittimo, a questo punto, aspettarsi una vendetta da parte mia, era altrettanto legittimo da parte loro anticipare i tempi e sbarazzarsi di me al più presto. E non solo di me. Nitto mi conosceva così da vicino da rendersi conto che un lavoro ben fatto avrebbe dovuto comprendere anche l’eliminazione di mia moglie.”
La fuga in Francia e la “nuova vita” Fu così che Calderone, aiutato dalla moglie, raccolse tutto il denaro possibile e fuggì prima in Svizzera, poi in Francia, dove la famiglia lo raggiunse. Qui, nonostante le difficoltà iniziali che incontrò nell’adattarsi, scoprì un mondo nuovo, diverso dal contesto siciliano dove aveva sempre vissuto, e cominciò una nuova vita. Come lui stesso raccontò: “A Nizza ho ritrovato la vita, sono rinato, mi sono sviluppato moralmente. Lì ho scoperto i miei figli, ho capito che cosa significasse educarli, seguirli, vederli crescere in un certo modo… In tutta la mia vita a Catania da uomo ricco, da mafioso potente e rispettato, non ero mai stato sereno, felice come in quei tre anni trascorsi a Nizza… Una sera del 1985 ero seduto sui gradini del retrobottega della lavanderia (La famiglia Calderone a Nizza aprì una lavanderia.) e chiacchieravo con mia figlia, quella più grande, che aveva allora quattordici anni… «Ma allora, papà, mi vuoi spiegare perché ce ne siamo andati? Perché abbiamo lasciato la Sicilia? A me piace la Sicilia» mi chiese all’improvviso. «Senti, gioia mia, ti dico solo una cosa. Tu hai capito ormai chi ero io, chi potevo essere io lì, a Catania. Sei grande, sei quasi una ragazza. Se noi fossimo rimasti lì, e qualcuno come me, un mafioso, fosse venuto a chiederti in sposa, io non avrei potuto dire di no. Ti saresti sposata con uno come me. E tu hai visto che vita facevamo noialtri in Sicilia. Non ero mai a casa, dormivo sempre in giro, ritornavo o scomparivo all’improvviso nel cuore della notte. Ti sembra che fosse una bella cosa? Vedi, se tu ora qua ti sposi con un ragazzo che non ha una lira, ma lavorate tutti e due e vi volete bene, ecco, questo è un progresso enorme rispetto alla nostra situazione laggiù. Tu puoi essere libera, indipendente. Puoi studiare tranquilla, puoi cercarti un impiego che ti piace. E se ti vuoi sposare ti sposi: sei tu che decidi. Non sei obbligata a sposare nessuno. Non devi diventare la moglie di un mafioso e fare una vita di stenti. Non intendo stenti per mancanza di soldi. Voglio dire stenti, sofferenze che derivano dalla paura. Tu sai benissimo a cosa mi riferisco». Lontano dalla sua terra Calderone capì cosa volesse dire vivere, essere liberi, essere coscienti. La mafia aveva oscurato questi concetti che solo in esilio egli poté finalmente vedere, conoscere e comprendere. La scoperta serenità tuttavia non durò a lungo.
La detenzione francese e i “messaggi” dal passato Il 9 maggio 1986 venne arrestato dalla polizia francese e rinchiuso ad Aix-en-Provence, un carcere nei pressi di Marsiglia. La notizia della sua cattura fece scalpore e raggiunse anche la Sicilia dove i mafiosi erano in agguato: la sua posizione era stata rivelata e la vendetta poteva essere compiuta: Cosa Nostra non dimentica, mai. «Mi resi conto ad un certo punto che erano cominciati ad arrivare dei messaggi dalla Sicilia. I miei compagni di galera organizzarono una strana evasione e mi chiesero di fuggire con loro. Dicevano di avere delle bombe e altre armi. Mi rifiutai perché pensai che prima avrebbero ucciso me e poi sarebbero scappati. Era un piano inventato per creare l’occasione di eliminarmi senza sollevare sospetti (Era infatti un’usanza della mafia avvicinare la vittima e cercare la sua fiducia, in modo tale da indurla a recarsi volontariamente sul luogo prescelto per l’omicidio. La tendenza era quella di attrarla tramite amici o parenti, i quali non potevano rifiutare perché Cosa Nostra era superiore a tutto, anche agli affetti). E infatti l’indomani del giorno stabilito per la fuga li trovai tutti lì, a passeggiare tranquillamente nel cortile»
La collaborazione con la Giustizia e la presa di coscienza Il timore di essere ucciso crebbe nel pentito ogni giorno di più, finché, nel dicembre del 1986 decise di pentirsi e chiese di essere messo in contatto con l’Italia, in particolare con il giudice Giovanni Falcone. La collaborazione iniziò il 16 aprile 1987. Una volta assicuratosi che la sua famiglia fosse al sicuro, Calderone cominciò a parlare e raccontò tutto ciò che sapeva. Ripercorse con minuzia di dettagli la sua vita e, osservandola dalla nuova prospettiva acquisita, prese coscienza degli orrori che aveva commesso. “Che cosa ho provato in queste occasioni? Niente. La mia anima non c’era. La mia coscienza non esisteva. Era come se il fatto di aver portato degli esseri umani a morire non si fosse mai verificato… I rimorsi sono venuti dopo […] (oggi) è una mia esigenza di dignità interiore quella di dire tutto quello che so. Ho bisogno di dimostrare non tanto agli altri, quanto a me stesso che ho riconosciuto i miei errori… Non chiedo perdono a nessuno, perché non merito il perdono di nessuno. Spero solo che dopo quello che dirò tutti capiranno finalmente chi siano, in realtà, i cosiddetti uomini d’onore e di quali misfatti siano capaci. La vita da collaboratore non fu semplice. Inizialmente perché trascorsero diversi mesi da quando manifestò il desiderio di collaborare con la giustizia (durante i quali fu internato in un istituto psichiatrico criminale) fino al primo colloquio con Falcone. Inoltre, nell’attesa di essere sottoposto al programma di protezione, subì svariati abusi da parte delle guardie carcerarie e molteplici attentati da parte di Cosa Nostra che, pur di eliminarlo ed impedirgli di parlare, arrivò a dare fuoco per due volte all’istituto penitenziario in cui era recluso. L’ostacolo più difficile da superare fu, tuttavia, la presa di coscienza interiore, l’accettazione del proprio passato e della propria esistenza criminale. “Qualcuno può dirmi, ora, se ci sono giudici in grado di giudicare noialtri? O se non fa una cosa giustissima, lodevolissima, chi mi spara e mi ammazza non appena esco da questa stanza? Come potevo restare ancora dentro quella congrega maledetta? Ecco perché mi vergogno ogni volta che entro in chiesa. Perché non ce la faccio ad alzare gli occhi. Non è cinema quello che racconto
I contributi giudiziari I contributi che le confessioni di Calderone diedero agli inquirenti furono molti. Innanzitutto, il collaboratore permise di osservare il fenomeno mafioso da una prospettiva diversa, esterna rispetto a quella palermitana descritta da Buscetta. Egli rivelò l’esistenza della mafia nella provincia catanese. Inoltre, mentre “Don Masino” trascorse la maggior parte degli anni all’estero o in carcere, egli visse sempre a Catania e assistette in prima persona a tutti gli avvenimenti che segnarono il cambiamento di Cosa Nostra: in particolare all’ascesa dei Corleonesi e alla creazione della “Regione”. Sulla base delle sue dichiarazioni vennero arrestate circa 200 persone.
Il messaggio ai vecchi “compagni” Le sue confessioni non servirono solo agli inquirenti per conoscere le gerarchie di Cosa Nostra, le sue lotte intestine, le trame diaboliche dei suoi capi. Permisero anche a lui di scoprire un’anima e un senso critico che a lungo era stato annichilito dalla “mentalità mafiosa”, e comprendere finalmente cosa volesse dire vivere, lontano da quel mondo perverso e deviato «in cui tutti sono nello stesso tempo amici e nemici di tutti, professano lealtà e sono pronti all’inganno più subdolo, progettano congiure e imboscate, tradiscono e uccidono senza rimorsi». La vita in Francia gli permise di scoprire la libertà, la collaborazione gli permise di ritornare ad essere un Uomo. Per questo rivolse un ultimo messaggio ai suoi vecchi compagni: “E ora voglio gridare a tutti voi, a voce grossa: prendete la vostra famiglia e fuggite da laggiù, scomparite. È per questo che l’esistenza in Cosa Nostra è così breve e così infelice. Non c’è nessuna sicurezza, si vive sull’orlo di un abisso. Riina è potente come Gesù Cristo perché ha il potere supremo. Dispone della vita dell’uomo. Con un cenno può togliere o risparmiare la vita di chiunque. È al di sopra di tutti. Ma nello stesso tempo è ridotto in una condizione miserabile perché non può passeggiare, non può muoversi, non può dormire, non può sedersi in un giardino di aranci alla sera e godersi il fresco e il profumo delle zagare: non può fare niente di tranquillo. È immerso nel terrore di essere ammazzato. E quando muore e tira le somme di tutto, che cosa può dire di avere avuto uno come lui? Gli passerà davanti la sua vita di essere nascosto, sfuggente, solitario. Un’esistenza di tensione e di paura, una vita di tragedia. Che cosa può dire di avere visto del mondo un uomo come Totò Riina, che è latitante da venticinque anni e che – anche se è ricchissimo e possiede ville e palazzi – non si è mai mosso dai pascoli, dalle grotte e dalla compagnia degli animali in mezzo ai quali è nato? Che cosa sa lui delle belle cose che la natura ha fatto, e di quelle che ha creato l’uomo? Ascoltate ciò che vi sto dicendo. Fermatevi a pensare. Cercate di salvarvi. Altrimenti non ci sarà misericordia per voi. Dio non vi perdonerà mai per i lutti e le sventure che portate. Siete gli uomini del disonore
Gli ultimi anni e la morte Dopo il Maxiprocesso, Calderone trascorse gli ultimi anni della sua vita in una località segreta Oltreoceano. Morì il 10 gennaio 2013, all’età di 77 anni. Per quanto credesse in Cosa Nostra, Calderone dimostrò di avere di questa una visione molto più disillusa rispetto a Buscetta: sebbene i due collaboratori concordassero riguardo al degrado che caratterizzò l’associazione dagli anni ’70 in poi, non si prodigò con il medesimo entusiasmo nella difesa della “vecchia mafia”. Egli elogiò i grandi uomini d’onore, come il fratello che dalla mattina alla sera svolgeva per la popolazione locale ogni genere di compito (i fratelli Calderone avevano un ufficio in cui, dalla mattina alla sera, ricevevano persone che arrivavano da ogni parte della provincia per chiedere qualunque tipo di favore: Giuseppe Calderone, in particolare, svolgeva per questi soggetti le funzioni di tribunale, garante dell’ordine, ufficio di collocamento, banca, ente caritatevole, vendicatore e investigatore.); ma si dimostrò sempre consapevole della vera natura di Cosa Nostra, diametralmente opposta a quella propagandata ai giovani la sera del giuramento “Quante belle parole! Quanti bei principi! E quante volte negli anni successivi mi sono trovato di fronte alla mancanza di rispetto di queste regole, ai doppi giochi, ai tradimenti, agli omicidi fatti proprio sfruttando la buona fede di chi invece credeva in queste regole. Finché ho dovuto concludere che la Cosa Nostra reale è ben diversa da quella che mi fu presentata in quella occasione” Secondo il pentito ogni mafioso, a conti fatti, sapeva perfettamente che l’origine della forza dell’organizzazione risiedeva nella paura della gente e nella violenza dei metodi attraverso i quali imponeva il suo volere: “Mi scuserete di questa differenza che io faccio fare fra mafia e delinquenza comune, ma ci tengo. Tutti i mafiosi ci tengono. È importante: noialtri siamo mafiosi, gli altri sono uomini qualsiasi. Siamo uomini d’onore. E non tanto perché abbiamo prestato giuramento, ma perché siamo l’élite della criminalità. Siamo assai superiori ai delinquenti comuni. Siamo i peggiori di tutti![11] Qualunque mafioso conosce perfettamente da dove deriva, fatti tutti i conti, il suo potere. La gente ha paura di essere colpita fisicamente e nessuno vuole rischiare neppure lontanamente di essere ammazzato.
La mafia era come un ragnoche tesseva la propria ragnatela e indisturbata cresceva attraendo nuovi giovani ed aumentando di conseguenza la propria potenza. Gli ideali, l’onore e la “giustizia” in cui Buscetta credeva, venivano nella realtà piegati e subordinati ad un unico grande obiettivo: il potere, che era superiore a tutto e dipendeva dalla potenza militare della famiglia. Per questo le cosche cercavano di reclutare il maggior numero possibile di soldati (ferma restando la rigida selezione) e alcuni boss arrivarono persino a mettere al mondo una quantità spropositata di figli maschi per ispessire i clan con un gran numero di consanguinei. Anche sulle regole Calderone si dimostrò molto più disilluso di Buscetta: “Cosa Nostra è fatta di regole, ma poi ci sono i casi concreti, con le loro sfumature e con le loro complicazioni. E poi ci sono quelli che usano le regole. E ci sono le eccezioni e gli abusi. Quelli tollerati e quelli esibiti, e quelli che vengono puniti In particolare, Calderone riportò come episodio significativo di questa “malleabilità” proprio la sua cerimonia di affiliazione. Arrivato al momento di elencare le regole, il rappresentante disse: “«Ora ci sono le regole. Per prima cosa, dovunque si trovi un uomo d’onore latitante, egli deve ricordarsi che un altro uomo d’onore ha il dovere di ospitarlo, e di tenerlo anche in casa se necessario. Ma guai a chi guarda la figlia o la moglie di qualcuno. Se lo fa, è un uomo morto. Non appena si viene a sapere che un uomo d’onore ha disturbato la moglie di un altro, quest’uomo deve morire. Secondo. Qualunque cosa possa accadere, non bisogna mai andare dagli sbirri, non bisogna mai fare denuncia. Perché chi lo fa deve essere ucciso. Terzo. È proibito rubare». A questo punto Natale Ercolano, il candidato dei Ferrera, si alzò in piedi e gridò: «Alt! Fermate tutto! Io non ci sto! Non sono d’accordo!». Ercolano faceva il ladro. Rubava sempre. Zio Peppino Indelicato, il rappresentante, sorrise divertito. «Siediti, tu! Stai buono, che poi ti spiego com’è che non si ruba.
Cosa Nostra dimostrò all’occorrenza di saper essere molto accomodante: le norme venivano piegate, adattate, snaturate a seconda delle situazioni e degli imputati. I medesimi presupposti potevano dar luogo a differenti “sentenze”: «Le regole della mafia assomigliano un po’ alle leggi dello stato: sono uguali quasi per tutti». Coloro che detenevano la maggior forza militare potevano violarle senza che nessuno osasse contestare la trasgressione e i Corleonesi, in particolar modo, svilupparono un atteggiamento che ne prevedeva da un lato il non rispetto, dall’altro la strumentalizzazione (In questo modo potevano giustificare l’eliminazione dei nemici.). Anche la proverbiale fratellanza dell’organizzazione divenne, con il passare del tempo, più vicina ad un sogno che alla realtà. Era esistita, ma da lungo tempo si era indebolita: i mafiosi si facevano concorrenza, mentivano, combattevano tra loro. Calderone raccontò che un giorno il fratello, preoccupato per la situazione, gli disse: «Vedi, Nino. All’interno di Cosa Nostra c’è il principio che tra uomini d’onore è obbligatorio dire la verità. Tu lo sai benissimo. Dobbiamo sapere chi ha fatto un omicidio o una rapina, chi ha ordinato di fare un sequestro, chi protegge qualcuno. Se no, salta tutto. Vengono fuori quelli come Cavataio, che seminano zizzania e ci fanno ammazzare l’uno con l’altro. Ma la verità non è sempre in bianco e nero. Ci sono tante situazioni complicate che provocano discussioni a non finire. E ci sono altre circostanze in cui la verità è come una moneta, con una faccia bianca e una nera. E poi ci sono i pezzi di verità che possono confondere le cose vere facendotele apparire in un altro modo. Ci sono i prepotenti che maneggiano le regole come gli pare…». WIKIMAFIA
Mi chiamo Antonino Calderone
«Mi chiamo Antonino Calderone, ho cinquantasei anni e ho parecchie cose da dire sulla mafia». Pino Caruso, seduto in palcoscenico davanti a un registratore, inizia a parlare con voce bassa. Il tono dimesso, velato da una discrezione che lo rende quasi distaccato e assente, stride con le cose terribili che sta per raccontare. Comincia così la confessione del boss un tempo potente, controllore degli affari della mafia catanese: quello che nel settembre del 78, quando Nitto Santapaola gli fa uccidere l’amico Pippo Calderone che si era messo contro i corleonesi, si schiera a sua volta. La sua famiglia perde la guerra, il fratello Giuseppe viene ammazzato; lui scappa in Francia, dove apre una lavanderia. Viene scoperto e arrestato, fa qualche anno di carcere poi decide di collaborare entrando con la famiglia nel programma di protezione. Giovanni Falcone va in Francia a sentirlo, più volte: le sue clamorose rivelazioni portano a più di duecento arresti. Il senso del delitto, del castigo e del pentimento dunque. «Autentico, sofferto», dice Pino Caruso che ora è sulla scena l’ex-mafioso, nel monologo tratto da Dacia Maraini dalle memorie del pentito: quelle raccolte nel libro Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi. «Racconto un evento umano, soprattutto» continua l’attore. «Quello di chi è cosciente delle atrocità commesse. Un’anima in pena, certo, ma ritrovata. E restituita alla società civile». Mi chiamo Antonino Calderone debutta al Piccolo Eliseo di Roma domani l’altro, martedì 9 febbraio, con la regia dello stesso Caruso. Ma lei lo spettacolo l’ha già portato a Palermo, dove certo ha toccato un nervo scoperto. «Non è come farlo a Trento, ovviamente. E difatti l’accoglienza che ha ricevuto, il passaparola che portava sempre nuovi spettatori, l’entusiasmo di ogni sera sembravano quasi liberatori. Ma come siciliano tengo a dire che noi siamo stati vittime della mafia. Non autori, né ideologicamente complici. Eravamo impotenti, non conniventi: abbiamo subito». Ne parla al passato, come di qualcosa che non c’è più «E difatti è così: la mafia, intesa come entità organica, non esiste più. Ci sono frange, residui, perché il fenomeno totalmente non si estinguerà mai; ma con la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta sono avvenute mutazioni politiche profonde. La mafia ha perso la protezione della politica: non era Andreotti che bisognava processare a quel punto, ma un intero sistema. Oggi non ci sono più i grandi strateghi di Cosa nostra, i padrini intelligenti. Sono restati quattro miserabili bastardi: da allora a oggi l’evoluzione è così evidente che non la si vuol vedere. E da palermitano le dico: nella mia città la mafia non ha più la forza che aveva prima. Non c’è più una struttura unitaria, non c’è mobilità». Crede davvero alla vittoria dello Stato? «Non è tanto per gli arresti ormai quasi quotidiani, che comunque sono un fatto. Ma prenda la Cupola, ormai decapitata da tempo. Comprendeva una commissione con sei rappresentanti delle province siciliane. Tutto secondo lo statuto steso da Pippo Calderone; quello sì era dominio del territorio. Adesso non ci sono più la condizioni storiche per operare in quel senso, anche se i dietrologi sostengono che la politica finge di combattere duramente la mafia per farsi meglio gli affari propri». Tornando allo spettacolo, che poi altro non è se non il racconto di un’esistenza tormentata: cosa ci rivela Calderone dentro a quel turbine di vendette familiari e di sangue che sembra una tragedia greca? «Di rivelazioni clamorose sulla mafia non ne fa. E cosa vuol rivelare? Noi siciliani sapevamo già tutto: nomi, cognomi, indirizzi. Sapevamo chi era Totò Riina e dove stava. Ogni cosa aveva un suo copione preciso, conosciuto. Magari c’era qualche scoppio di tempesta, qualche sorpresa: ma poi in Cassazione arrivava Carnevale. Che per noi non era una festività. E comunque, più che le implicazioni burocratico-mafiose, sono quelle umane che cerco di evidenziare sulla scena. Calderone è un mafioso senza talento, lo fa quasi controvoglia. A un certo punto dice: non mi andava di uccidere. Si rende conto? E’ come un chirurgo che si rifiuta di operare». Eppure anche lui aveva subito il fascino dell’iniziazione a Cosa Nostra. Pare che a un certo punto lo abbia sconvolto l’eccidio di tre bambini che erano stati testimoni involontari di un crimine. «Pensava all’inizio come molti che essere mafioso gli avrebbe dato potere e ricchezza. Alla legge ti puoi sottrarre, al costume e alla cultura in cui vivi, no. Da qui bisogna ricominciare: da una moralità che si faccia cultura e costume». Cosa insegna Calderone all’attuale dibattito sui pentiti? «La mafia conosce due fasi. Quella dell’omertà: chi parla muore. Dall’omertà si passa alla loquacità. Quando lo Stato diventa più forte, la mafia cambia stile appunto dall’omertà alla loquacità. Allora bisogna stare attenti: c’è chi rivela cose vere e chi mette i nomi falsi tra quelli autentici perché tutto sembri ancor più vero. Ma non credo a una regia unica che muove i pentiti. Quanto a Calderone, nel suo racconto ci saranno anche reticenze, deformazioni, aggiustamenti. Ma il tono è sincero, lo si capisce dal tono delle verità che racconta. E tutto, alla fine, contribuisce alla formazione di un giudizio obiettivo sulla mafia». Mario Puzo, i Sopranos, la Piovra, i Bravi ragazzi di Scorsese. Cinema e televisione hanno fatto la loro parte nel raccontarci la mafia, magari con troppo colore a volte. E il teatro? «Deve parlare di più del presente. Di film mi è piaciuto molto I cento passi. Ma ha fatto caso? I film sulla mafia sono tutti retrodatati, parlano al passato, non come cronache di una realtà. E proprio questo mi auguro: che un giorno il cinema possa trattare la mafia come quello americano fa con i western. Comunque i mafiosi non hanno troppa paura di come li si rappresenta. Anzi, di solito ne sono lusingati. Ricordo Vito Ciancimino: in una fiction televisiva avevo inserito una gag sul caffè, ricordando le tazzine mortali di Pisciotta all’Ucciardone, e di Sindona. Così, ordinavo un caffè Ciancimino. Bene: quando don Vito veniva al Bagaglino, mi chiedeva ogni volta quella gag, e rideva a crepapelle. Del resto lui era così: se un telegiornale parlando di mafia non lo nominava, si offendeva come un attore trascurato dai critici». La Nazione, 7 febbraio 2010 di Sergio Colomba Roma