La mafia non uccide donne e bambini…

 

Questo è parte del racconto di Calderone sul sequestro e uccisione di 4 ragazzini da parte di cosa nostra..( il fatto avvenne nel luglio 1976).
“Il terzo fatto e’ quello che piu’ mi rattrista e mi addolora. Si tratta dell’uccisione di quattro ragazzini , il piu’ piccolo dei quali aveva circa dodici anni e gli altri non erano molto piu’ grandi.
Il fatto e’ avvenuto intorno al 1976.
Una mattina mi telefono’ CINARDO Francesco e mi disse che non poteva accettare quella rimessa di denaro e di andarmela a riprendere al piu’ presto.
Io caddi dalle nuvole, perche’ mi resi conto che CINARDO parlava in linguaggio criptico, ma non riuscivo a capire a che cosa si riferisse.
Ne parlai subito, comunque, con mio fratello Giuseppe, anche lui all’oscuro di tutto, e quindi ci recammo da NITTO o meglio lo facemmo venire; preciso che NITTO era venuto spontaneamente per informarci di quanto era accaduto, evidentemente perche’ era stato avvertito anche lui da CINARDO per prelevare i quattro ragazzini.
Infatti, NITTO ci informo’ che, la sera precedente, SANTAPAOLA Nino, CONIGLIONE Tino, LA ROCCA Giuseppe e forse anche AMATO Alfio avevano sequestrato quattro ragazzini, accusati di essere degli scippatori e li avevano portato in una stalla a San Cristoforo, facendosi aiutare anche da FERRERA Pippo.
Adesso ricordo bene che ROCCA Giuseppe e FERRERA Pippo non erano presenti al momento del sequestro dei ragazzi, mentre vi era invece AMATO Alfio. ROCCA e FERRERA intervennero invece subito dopo il sequestro.
I quattro ragazzi furono condotti in una casa di campagna di BARRANCO Vincenzo e furono affidati a quel Pietro di San Cono di cui ho gia’ parlato.
Infatti, Pietro e PATERNO’ Angelo lavoravano per BARRANCO Vincenzo e, comunque, avevano dei pascoli in quella campagna. Occorreva, dunque, avvertire CINARDO Francesco, che, resosi conto di quanto era accaduto, si rifiuto’ categoricamente di custodire i quattro ragazzi e ci telefono’. Mi recai, quindi, con NITTO nella casa di campagna di PATERNO’ Angelo e vi incontrai quest’ultimo e CINARDO Francesco.
Appreso quanto era accaduto, anch’io mi rifiutai categoricamente di intervenire in qualche modo per l’eliminazione dei quattro ragazzini e persino di andarli a vedere, tanto che NITTO disse che li avrebbe portati all’abbeveratoio di GELA e avrebbe li’ gettato i loro corpi, dopo averli fatti uccidere a coltellate e con della refurtiva addosso, In modo da simulare un movente per la loro eliminazione diverso da quello effettivo.
Io gli dissi, pero’, che questa soluzione era troppo rischiosa per lui e, soprattutto, per tentare fino alla fine di salvare la vita ai quattro ragazzi.
Intervenne anche SANTAPAOLA Salvatore, il quale mostrava, invece, cosi’ come NITTO, di voler eliminare i quattro ragazzi.
A un certo punto, ando’ via e poi ritorno’ e ci comunico’ che ormai non si poteva fare piu’ nulla per salvare i quattro ragazzi, perche’ aveva portato loro da mangiare ed era stato riconosciuto da quelli, che si erano rincuorati e avevano detto che ormai erano salvi. Naturalmente mi infuriai con SANTAPAOLA Salvatore perche’ questo suo comportamento era dettato non da premura verso i quattro ragazzi, ma dall’intenzione di creare una situazione irreversibile, nella quale, cioe’, l’eliminazione dei quattro ragazzi fosse inevitabile.
E cosi’ si decise, data l’enorme gravita’ del fatto, di andare a parlare con DI CRISTINA Giuseppe affinche’ quest’ultimo desse l’autorizzazione a buttare i quattro ragazzini nel pozzo di cui ho gia’ parlato.
Infatti, avevo informato telefonicamente mio fratello, che era rimasto a CATANIA a causa della sorveglianza speciale, ed egli mi suggeri’ di andarne a parlare con DI CRISTINA Giuseppe.
E cosi’ mi recai subito a RIESI a parlarne con DI CRISTINA insieme con CINARDO Francesco. Ivi, oltre a di cristina, vi era anche ANNALORO Luigi, il quale, avvertito da CINARDO, si era messo anche lui in movimento e aveva anche visto i quattro ragazzi. Ricordo perfettamente che ANNALORO era assolutamente contrario all’uccisione e diceva a DI CRISTINA che il piu’ piccolo di loro aveva la stessa eta’ del figlio di DI CRISTINA stesso.
Comunque, alla fine, prevalse la tesi dell’eliminazione e fui costretto ad accettare tale decisione…
I quattro furono strangolati e mio cugino mi disse, straziato per quanto era accaduto, che non se l’era sentita di tirare il cappio fino all’estremo, per cui non era nemmeno sicuro se il ragazzo che egli aveva strangolato fosse morto quando lo aveva buttato nel pozzo. Il pozzo era molto profondo e si diceva che, intorno agli anni ‘20, e, comunque, prima della seconda guerra mondiale, vi avessero gia’ trovato molti cadaveri.
Probabilmente si trova nel comune di RIESI o in qualche comune limitrofo. Forse il pozzo e’ nelle vicinanze di una proprieta’ di CAMMARATA padre….
Preciso che SANTAPAOLA Salvatore si pote’ permettere di sostenere che gli uccisi erano abbastanza grandi, perche’ quasi nessuno era a conoscenza di quanto era accaduto, anche perche’ la stampa non aveva dato pressoche’ nessun risalto a questo fatto, poiche’, a mio avviso, non si poteva pensare che i ragazzi potessero essere stati uccisi ne’ da parte delle famiglie ne’ da parte
della Polizia.
Probabilmente, si e’ pensato alla solita storia dei soliti ragazzi scapestrati che si allontanano da casa senza dare piu’ notizie di se’. Inoltre, si trattava di ragazzini appartenenti a famiglie di umili origini e il fatto non desto’ scalpore.”
 

I quattro picciriddi uccisi, così Antonino Calderone decide di pentirsi

 

Antonino Calderone divenne un “uomo d’onore” per seguire il fratello Giuseppe, detto “Cannarozzu d’argento”, gola d’argento, e nonostante lo zio, altro “uomo d’onore”, lo avesse sconsigliato di intraprendere quella strada.
Giuseppe Calderone fu uno dei primi caduti nella guerra di mafia, ucciso grazie a un accordo fra il suo luogotenente Nitto Santapaola, esecutore materiale dell’omicidio, e Totò Riina.
Deceduto il fratello, Antonino Calderone si rifugiò a Nizza, dove aprì una lavanderia, ma si rese presto conto che anche la cittadina francese era frequentata da mafiosi della fazione opposta, che, prima o dopo, avrebbero scoperto il suo nascondiglio.
È stato un “pentito” importante perché diede preziose indicazioni: spiegò i rapporti tra imprenditoria catanese e mafia e si soffermò sui collegamenti con le cosche nissene e agrigentine. Le sue deposizioni provocarono una raffica di arresti.
E fra i tanti interrogatori effettuati il suo mi è rimasto impresso in modo indelebile.
Calderone era reo confesso dell’omicidio di quattro ragazzini: Benedetto Zuccaro (15 anni), Giovanni La Greca (14), Riccardo Cristaldi (15) e Lorenzo Pace (14), colpevoli di avere scippato e maltrattato la madre di Nitto Santapaola che era caduta e si era rotta un braccio.
Calderone, abbandonata Cosa nostra seguendo i consigli della moglie e con le stesse motivazioni di Buscetta e Contorno, raccontò che i quattro ragazzi erano stati sequestrati e rinchiusi in una stalla perché disturbavano la tranquillità del quartiere con continui atti di teppismo.
Vennero strozzati e buttati in un fosso. Quel delitto pesò molto sulla coscienza di Calderone.
Me ne resi conto quando, nuovamente interrogato da me sulle modalità dell’omicidio, Calderone, al ricordo di quell’atroce delitto commesso insieme ad altri, smise di parlare, iniziò a singhiozzare e, in preda a una crisi di nervi, cadde per terra e non riuscì a riprendersi, tanto che dovetti interrompere l’interrogatorio.
Il giorno dopo ripresi l’atto istruttorio, ma Calderone non fu ancora in grado reggere la tensione emotiva che gli procurava il ricordo della fine di quei quattro ragazzi.
L’interrogatorio venne condotto anche da Falcone, arrivato da Palermo nel primo pomeriggio, al quale avevano “consigliato”, per motivi di sicurezza, di pernottare in quel carcere.
Mi propose di seguire anche io il “consiglio” ma risposi: “Giovanni, lo sai che ti voglio bene e per te farei qualunque cosa, tranne che passare una notte in carcere”.
Anni dopo, al termine di una udienza tenuta a Roma nel carcere di Rebibbia, Calderone chiese di essere ricevuto, acconsentii e mi trovai di fronte un uomo diverso da quello che avevo conosciuto anni addietro.
Mi disse che l’avere collaborato a lungo con la giustizia gli aveva fatto rinnegare quei valori distorti nei quali aveva creduto e, soprattutto, l’avere confessato quel feroce assassinio facendo i nomi dei correi, e l’essersi cristianamente pentito per averlo commesso, gli consentiva di sentirsi in pace con la propria coscienza e di guardare in faccia i suoi figli finalmente senza vergognarsi.
Ne fui compiaciuto, ma il mio pensiero corse anche a quei ragazzi ai quali la ferocia di
Cosa nostra aveva negato persino una sepoltura.
Sono convinto che quello di Antonino Calderone sia l’unico esempio di sincero “pentimento”, inteso come stato d’animo di rammarico, rimorso e dolore per un atto umanamente riprovevole.

Dal libro “C’era una volta il pool antimafia”, di Leonardo Guarnotta

 


‘HO UCCISO ANCHE QUATTRO RAGAZZI’

Lo avevano catturato sulla Costa Azzurra, la mattina del 9 maggio dell’ 86. Nella dolce Nizza, paradiso di turisti e miliardari, Antonino Calderone 60 anni, il boss pentito che ha fatto scattare il blitz di ieri, si sentiva al sicuro.
Lontano dalla vendetta dei killer di Nitto Santapaola, il boss un tempo alleato che ha fatto terra bruciata attorno al suo clan. Una famiglia temuta e rispettata fin dagli anni ‘ 60 e fino alla metà del 1970.
Un nome, quello dei Calderone, che incute paura.
Una famiglia di intoccabili: il fratello Giuseppe, soprannominato Cannarozzu d’ argentu per quella protesi che aveva in gola a causa di un tumore, è il capo assoluto delle cosche catanesi. I Calderone sono sbarcati a Catania e hanno assunto il controllo delle cosche.
Ai loro ordini ubbidiscono tutti gli altri, da Santapaola a Ferlito, dai Cursoti ai fratelli Mazzei. Proprio nella villa di Cannarozzu d’ argentu Ligio, così il boss ha raccontato al maxi-processo, incontrò Totò Greco e Buscetta che lo contattarono per mettere le sue truppe mafiose al servizio del golpe Borghese.
Poi, con la rapida ascesa dei nuovi boss, che stringono un patto di ferro con i corleonesi che a Palermo portano avanti un’ analoga operazione di sterminio contro la vecchia guardia, gli equilibri cambiano.
Crolla un impero: Giuseppe Calderone cade una sera di settembre del ‘ 78, la sua 112 viene fatta a pezzi dalla violenza delle lupara e dei mitra.
Calderone preferisce cambiare aria e dal febbraio dell’ 83 si rifugia a Nizza. La moglie, Margherita Gangemi, 43 anni, lascia il suo impiego all’ università e con i 5 figli fa le valige dall’ appartamento nella centralissima via Etnea.
Sulla Costa Azzura restano per un po’ nell’ ombra, attenti a non fare passi falsi. Poi decidono che è venuto il momento di uscire allo scoperto: acquistano una lavanderia, mandano i figli a studiare nei collegi di Nizza.
Partono però le prime segnalazioni dalla Francia in Italia, iniziano i pedinamenti dell’ Interpol.
Due anni fa, infine, la Primula rossa viene ammanettata dagli investigatori giunti da Catania proprio all’ interno della lavanderia. L’ ex vice capo della commissione finisce in galera a Marsiglia.
Cominciano gli interrogatori, e all’ inizio il boss tiene la bocca chiusa. Poi si fa strada la paura, il suo clan decimato, dopo Contorno e Buscetta un altro capo mafia di Catania, Giuseppe Alleruzzo, ha deciso di vuotare il sacco facendo arrestare una sessantina di uomini delle cosche.
E’ la moglie a prendere contatti con il capo della narcontici di Marsiglia, Andreé Minana, e con i giudici De Bach e Michel (in seguito assassinato). Dice che il marito è disposto a parlare.
La moglie di Calderone si mette in contatto telefonico anche con la Criminalpol di Palermo. Partono gli investigatori e i giudici siciliani, raccolgono la lunghissima confessione del boss pentito.
Ci sono 30 anni della storia di Cosa Nostra nelle centinaia di pagine di verbali, fino all’ 82.
Una mappa aggiornata, con nomi, date, fatti. E Antonino Calderone si autoaccusa anche di sette delitti: quattro morti sono dei ragazzini.
Un’ esecuzione raccapricciante commessa nel luglio del ‘ 76 nelle campagne di Mazzarino. Benedetto Zuccaro, Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi e Lorenzo Pace, tutti di età fra i dieci e i quindici anni, vennero strangolati e poi seppelliti.
I corpi non sono mai stati recuperati. Ancora qualche mese fa le loro famiglie hanno lanciato un appello per poterli riabbracciare: credevano fossero fuggiti da casa.
I quattro ragazzi, piccoli scippatori nel quartiere catanese di San Cristoforo, hanno pagato per aver osato offendere la famiglia Santapaola: uno scippo alla madre del boss, uno sberleffo per strada al fratello di Nitto.


Le piccole vittime della mafia

 

Il valore della vita è qualcosa di grande e prezioso e non ci vuole una grandissima capacità per percepire il grado di illiceità che sottende un omicidio.
Vittime di esecuzioni. Ma perché tanta ferocia? Uccidere per non lasciare testimoni, uccidere per compiere la propria vendetta, sfogare il proprio odio, rendere moltiplicato il danno e l’offesa che si presume aver subito. Immuni alla pietà, uccidere dà un senso di potenza, di poter decidere il destino degli altri, ci si sente come un dio del male che passa dove vuole e porta via chi vuole. Si uccide e basta. Per quanto assurdo e senza senso, per quanto efferato e ingiustificatamente crudele, si vede davanti solo il proprio scopo, per cui ogni ostacolo va eliminato senza esitazione, niente conta fuorché il raggiungimento del proprio obiettivo. Nessuna moralità. Tutti loro sono una manica di malviventi e un ricettacolo di malvagità.
Vittime, piccole vittime. Alcune appena si affacciavano alla vita, le più vecchie hanno 17 anni. Ammazzati per sbaglio, per vendette trasversali, per ragioni mai chiarite. Delitti intrecciati con i misteri più fitti di Cosa Nostra. Bambini vittime delle mafie in Italia. La maggior parte tra Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, qualcuno anche nel resto d’Italia. Storie di vite di bambini interrotte dalla violenza criminale. Storie di tante vittime innocenti che ci hanno scandalizzato in questi anni. Vite, emozioni, sogni spezzati di questi uccisi senza nessuna colpa. Quei volti allegri, spesso giovanissimi, vogliono essere un richiamo per tutti i cittadini onesti a scegliere sempre la strada della legalità. Quei volti, tutti sorridenti, ci devono far riflettere.
La mafia non uccide i bambini? Falso. Si racconta che le mafie non tocchino i bambini, ma è solo un falso mito. Ci sono anche neonati, bambini e ragazzini tra le vittime innocenti delle mafie. Uccisi a freddo con un colpo di pistola, colpiti da esplosioni e proiettili per la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma anche sequestrati, dati in pasto ai maiali, sciolti nell’acido e bruciati. Ci sono anche le bare bianche seminate dalle mafie da Nord a Sud.
La regola secondo la quale i bambini non vanno toccati è solo un falso mito. Le mafie hanno sempre ucciso i bambini. Nessuno viene risparmiato. Sui piccoli si scatena la stessa ferocia usata sui grandi. Non esiste la regola del rispetto, non esiste una regola d’onore per le mafie, non hanno alcuna umanità.
Storie note e meno note. Storie di minori vittime innocenti di mafia che diventano veri e propri simboli della barbarie umana. Bambini che non vengono mai ricordati ed è giusto farlo.
Così racconto la strage di Santapaola, quando la mafia fece massacrare a sangue freddo quattro ragazzini tra i 13 ed i 15 anni. Ecco i nomi: Benedetto, Lorenzo, Riccardo e Giovanni. Benedetto Zuccaro, 13 anni, Lorenzo Pace, 14 anni, Riccardo Cristaldi e Giovanni La Greca, stessa età, 15enni.
Quattro ragazzi che abitano nel quartiere popolare di San Cristoforo, a Catania. È qui che crescono questi quattro ragazzini che si cimentavano nei furtarelli. Nonostante la loro giovane età hanno già una certa esperienza.
Un giorno, nel 1976, in piena estate, fanno però il passo più lungo della gamba, ma loro non lo sanno.
Rapinano la persona sbagliata. Rapinano la mamma del boss Benedetto detto “Nitto” Santapaola, vero e proprio capo della mafia catanese durante gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. In breve tempo i quattro spariscono e per anni nessuno sa niente di loro. Soltanto anni dopo lo racconta Nino Calderone, quando diventa collaboratore di giustizia.
I ragazzini  vennero rapiti e portati in un casolare nelle campagne nei pressi di Caltanissetta, di proprietà del boss Giuseppe Di Cristina. Vengono lasciati per due giorni senza cibo e senza acqua. Nel frattempo si discute sul da farsi. Calderone provò a convincere Santapaola che uccidere dei ragazzini sarebbe stato troppo, che sarebbe bastato spaventarli, ma Nitto non è d’accordo, non volle sentire ragioni. Li vuole morti. E lo fa in modo terribile. Fece entrare il fratello nella cascina dove si trovavano i ragazzini. Questi lo riconobbero immediatamente.
Ora sapevano chi li aveva rapiti, non avevano altra scelta. In questo modo il boss segnò il destino di Benedetto, Lorenzo, Riccardo e Giovanni.
I quattro vennero portati nei pressi di un pozzo e, lì, vennero strangolati a mani nude, vennero strangolati con delle corde.  Infine i corpi vennero gettati nel pozzo, uno dei quali, il più piccolo, ancora vivo.
Un cugino di Calderone, esecutore materiale del delitto, confessò al pentito che non ebbe il coraggio di stringere fino in fondo il cappio di uno dei ragazzini, il quale venne gettato nel pozzo ancora vivo.
Un dettaglio che rende tutto ancora più agghiacciante.
Antonino Calderone, deciso a collaborare con la giustizia anche per questi orrori, assistette al massacro dalla sua macchina, racconta di essere rimasto in macchina con i finestrini chiusi per non sentire nulla durante l’esecuzione.
Questo crudele ed efferatissimo delitto rompe il mito della mafia “onorevole”, rispettosa dei bambini. Un mito ancora oggi piuttosto diffuso ma che ha poco a che fare con personaggi senza scrupoli e senza valori.
Catania negli anni ’70, nel popoloso quartiere di San Cristoforo, quattro ragazzetti: Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro, i primi due hanno 15 anni, il terzo 14 ed il quarto solo 13, uccisi da Cosa Nostra, rei di aver derubato la mamma del boss Benedetto Santapaola.
Loro, purtroppo, non sono giovani come tanti della loro età.
E sì, ci sono anche loro, Giovanni, Riccardo, Lorenzo e Benedetto, insieme ad altri nomi di figli che avrebbero avuto bisogno dei loro genitori e viceversa, quattro giovanissimi morti per nulla, per un capriccio di un boss e per vendetta. Ragazzini trucidati per volere del clan. La mafia non uccide i bambini, anzi li rispetta. In realtà Cosa Nostra ha sempre ucciso i bambini, perché quando è necessario l’omicidio non ha età.
Lo fanno per vendetta o per ricatto, per eliminare un testimone pericoloso, uno che ha visto o sentito. Li bruciano, li sotterrano, li squagliano. Tre anni, otto anni, dodici anni, la data di nascita è ininfluente.
Nomi, volti, storie che gridano che la mafia non conosce onore e rispetto, non ha nessun codice etico, la mafia non guarda in faccia nessuno.
Mi chiedo: dov’è giustizia? Mi rispondo: forse non esiste!
Non dimentichiamo, lottiamo, perché non ci sia più nessun bambino vittima di mafia dimenticato. di Maria De Laurentiis  

 

ANTONINO CALDERONE