Pino Marchese, il figlioccio della belva – Racconti di mafia 56ª puntata

 

 

 Audio deposizioni nei processi


Giuseppe Marchese (Palermo, 12 dicembre 1963)  Nipote del boss mafioso Filippo Marchese e cognato di Leoluca Bagarella (la sorella Vincenza sposò Bagarella, a sua volta cognato di Riina), è stato uno dei killer più spietati appartenenti alla fazione dei corleonesi. Entra a far parte di Cosa Nostra ad appena 17 anni, e nella seconda guerra di mafia partecipa a vari omicidi tra cui quelli dei boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.  Viene arrestato il 15 gennaio 1982 per porto abusivo di armi e in carcere uccide il killer Vincenzo Puccio sfondandogli il cranio con una padella. Nel 1987 alla fine del Maxiprocesso di Palermo è condannato all’ergastolo. Tuttavia  diventa collaboratore di giustizia dopo la morte di Giovanni Falcone, ammettendo diverse volte di aver simulato la pazzia e di aver scontato gran parte delle condanne precedenti in ‘manicomio’ grazie all’intercessione di Riina



‘SPIETATO E SICURO MIO COGNATO E’ ANCORA UN CAPO’  “Se Bernardo Provenzano è il potere, la forza del potere di Provenzano è Leoluca Bagarella”. Giuseppe Pino Marchese, 32 anni, è stato il figlioccio di Totò Riina, combinato uomo d’ onore non ancora diciottenne proprio dal Capo dei Capi di Cosa Nostra. Fratello, cugino e nipote di mafiosi (il sanguinario Filippo Marchese, boss del Corso dei Mille, era suo zio), è il cognato di Leoluca Bagarella, che ha sposato sua sorella Vincenzina. Condannato all’ ergastolo, Giuseppe Marchese collabora con la giustizia dall’ agosto del 1992. Questa è la sua prima intervista. “Voi giornalisti continuate a scrivere che Bagarella non ha cervello, che Leoluca è solo un violento, uno che spara e basta. Che è come paglia che prende fuoco… Vi sbagliate. Ora vi racconto due o tre cose che so di Bagarella, mio cognato. Leoluca non guarda in faccia a nessuno. Se ha qualcosa che gli pizzica la gola, lo sputa fuori e in faccia a lui ci può essere anche un gesucristo, quello se ne fotte. Se pensa che una cosa è giusta, la dice. Dovesse farsi anche cento nemici. Io mi ricordo quando stavamo insieme in carcere… Il carcere non piace a nessuno, io ci sono stato 12 anni. I boss se ne potevano lamentare, i picciotti, no… Noi picciotti dovevamo farlo zitti e muti, il carcere, mai un lamento, mai una debolezza. Invece i capifamiglia e i capimandamento, abituati a fare fuori la bella vita, a spendere e spandere, arrivavano spavaldi e, dopo qualche mese là dentro o all’ isola, s’ ammosciavano e si facevano venire la depressione. Ricordo Pippo Gambino, Bernardo Brusca, Ciccio Madonia. Piagnucolavano. Sì – credetemi, li ho visti con questi occhi – piagnucolavano quei gran signori. Dicevano a Bagarella: ‘ U’ zu’ Totò (Riina) non si è interessato’ . ‘ Quel medico doveva farmi il certificato per l’ ospedale e non me l’ ha fatto buono e sono ancora qua’ . Oppure, dicevano: ‘ Dovevano darmi gli arresti domiciliari e aspetto ancora: u’ zu’ Totò non si sta dando da fare’ . Leoluca li faceva parlare. Poi, li guardava in faccia fisso fisso con quei suoi occhi che ti fanno la radiografia al cervello. E diceva: ‘ Ma tu che vuoi? Dimmelo ancora, che vuoi? Te lo devi fare, il carcereé Fatti il carcere, e sta zittoé’ . E quelli se ne stavano davvero zitti, anche se si chiamavano Totò Montalto. Se ne andavano con la coda tra le gambe e non provavano nemmeno a replicare una parola… Ogni tanto in carcere arrivavano i messaggi di Riina. U’ zu’ Totò protestava per il comportamento di Bagarella, ne chiedeva ragione. E lui sapete come rispondeva, così a brutto muso? Rispondeva: ‘ Che ne sa della galera mio cognato? Non sa niente, non se ne occupasse’ . E anche Riina se ne stava buono. Lui adorava Luchino. Quando si facevano le mangiate, anche se Leoluca era in carcere, la tavola si apparecchiava anche per lui. Il fatto è che, per Leoluca, non c’ erano figli e figliastri. Eravamo tutti uomini d’ onore, tutti uguali e non digeriva che i capimandamento si davano da fare per aggiustare la loro galera e non la galera degli altri. Lo mandava a dire anche al cognato: ‘ Se continuate a fare figli e figliastri, di che vi lamentate se poi si fanno pentiti?’ . Bagarella non era ossessionato dal danaro come i Corleonesi e i loro amici di Palermo. Quelli non pensano altro che ai soldi. Piccioli, piccioli, piccioli. Per i piccioli sono pronti a tradire anche il fratello o l’ amico fraterno. Ai picciotti Bagarella li aiutava. A me, ad esempio… Mi ricordo che io mi lamentai con lui perché la mia famiglia, quella dei Corso dei Mille, era nel traffico della robba e a me, in carcere, non arrivava né una lira né un pensiero… ‘ Ma che ti mancano i soldi? – mi disse – Ecché sono un problema i soldi? Puoi avere tutti i soldi che vuoi, ma è importante che non te lo scordi mai’ . Aveva ragione lui, non erano un problema. Da allora non c’ era traffico che Leoluca non mi quotasse, non c’ era palazzo che si tirasse su dove non c’ era la mia parte. E non aiutava soltanto gente stretta a lui, a Riina, ai Corleonesi. Dava una mano anche ai catanesi, ai trapanesi, ai detenuti comuni. Ci mandava il pensierino, ci faceva mandare il vaglia. Ricordo che aiutò anche Antonio Mancini, quello della Banda della Magliana. La sorella di questo Mancini si rivolse a lui per far star tranquillo il fratello in carcere. Bagarella diede disposizioni e, dopo un po’ , arrivò il ringraziamento di Mancini. Bagarella è ombroso, sospettoso. L’ ho detto. Guarda uno, lo guarda soltanto e gli fa la radiografia all’ anima. Se quello ha l’ anima nera, o soltanto un punto nero, Bagarella lo capisce e quell’ altro è un uomo morto perché Bagarella non ci pensa su un minuto a scippare la testa a un cristiano anche se è andato a braccetto con lui per venti anni. Ma sentite a me, tra quei tragediatori dei Corleonesi, tra quei malvagioni dei loro compari, Bagarella è uno che l’ amicizia la rispetta. Per questo dico che, secondo me, il suo esercito personale ce l’ ha ancora, gente pronta a tutto, a farsi ammazzare per lui, ad assaltare l’ Asinara per andarselo a riprendere. Ora dicono: se ne andava per Palermo solo come un povero disgraziato. Bisogna capirla bene la situazione ché questo è un segno di forza, non di debolezza. Se se ne andava solo era perché si sentiva sicuro, perché aveva intorno gente di cui si poteva fidare e che lo proteggeva, perché lì c’ erano i suoi affari. Mica come Totò Riina che si muoveva con le staffette, che non si fidava di nessuno perché aveva tradito tutti quelli che poteva tradire, e io gli facevo da battistrada ogni volta che metteva il naso fuori di casa. Eppoi, attenzione, Riina si nascondeva in campagna, a Mazara del Vallo. Come in campagna si nascondono Giovanni Brusca e Pietro Aglieri. Se fosse stato in campagna, Bagarella non si prendeva. Invece, se ne stava a Palermo, in città. Che vuol dire? Vuol dire che, se stava in città, era operativo, curava i suoi interessi in un ambiente che dominava. E questo dice che conta, che è un capo. Io non ho dubbi, è ancora uno dei capi. E lo sapete perché? Perchè chi è stato con Bagarella non lo lascia. Lui, la gente, la tratta come fratelli mica come quei malvagioni dei vecchi, i Riina, i Brusca, i Montalto. Per Bagarella, la torta – ogni torta – si divide in parti uguali e non come quelli là che mettevano le mani nel piatto sempre per primi per fottersi il boccone migliore e più grande… Sa essere anche un animale, Bagarella. Se pensa che uno si sta comportando da cornuto, gli scippa le corne. E’ sicuro. Se uno vuole babbiarlo (giocarlo, n.d.r.), diventa un bestia e, quando è una bestia, è peggio del diavolo. Non credete, però, che perda la testa, che sia – come si dice – un istintivo. Anche quando uccide, è freddo come il ghiaccio. No, non sa nemmeno che cos’ è l’ istinto. Quando gli arriva una voce sulle cose brutte che sta facendo uno, non lo uccide subito. S’ informa, chiede, valuta, sente l’ altra campana e decide. E se decide per la morte, non dice: va e uccidilo. Se ne occupa in prima persona. Va a vedere il posto. Controlla le abitudini di quel cristiano e lo uccide con le sue mani. Dicono: non è intelligente? Io rispondo: ecché era intelligente, Luciano Liggio? Io ho conosciuto l’ uno e l’ altro e vi dico che Bagarella vale due Liggio. Voi giornalisti continuate a scrivere che i Corleonesi sono in crisi. Certo, bene non stanno, ma sempre là sono. E’ vero, Provenzano è malato di cancro e sta morendo. Per questo ha fatto tornare a casa la sua famiglia, la moglie, i figli. Lo ha fatto perché il suo destino è ormai segnato e vuole che almeno i figli non vivano da braccati, che comincino ad ambientarsi, a radicarsi nel paese, a studiare. Provenzano è un uomo che ricordo saggio, posato e non ‘ u tratturi che dicono, ma chi ha accanto? Voi parlate sempre di Aglieri e Brusca come i capi di Cosa Nostra, ma il capo, i capi, i capi vicini a Provenzano possono stare in paesi di campagna, e nessuno sa come si chiamano, nessuno sa come sono fatti, che faccia hanno, che mestiere fanno. I Corleonesi hanno fatto sempre così. I fatti loro non li hanno raccontati mai a nessuno. Che succede ora? Secondo me ora non succede niente. Che è successo quando hanno preso Riina? Niente. Voi dite che Bagarella è come paglia che prende fuoco. Niente di più sbagliato. A lui piace mangiare freddo. Se ne starà tranquillo. Valuterà la situazione. Con calma, deciderà che cosa fare. E quando avrà deciso, colpirà. Non voglio portare sventura, ma il sangue scorrerà a Palermo. Una guerra di mafia? Nemmeno per sogno. Guerre di mafia come quella degli Anni Ottanta non ce ne saranno più, statene certi. Quando dico che scorrerà sangue, penso che ci saranno attentati, omicidi eccellenti. Insomma, cose di questo genere. E penso che Bagarella farà di tutto per non accollarsele. Come quando si facevano gli omicidi senza usare la calibro 38 per non farli apparire omicidi di mafia. Certo, il precario equilibrio dei Corleonesi si può anche rompere, ma a quel punto si devono uccidere non uno, ma tutti i Corleonesi e io non credo che ci sia qualcuno che abbia oggi questa forza anche se Bagarella è in carcere. Vincenzina, mia sorella? Di Vincenzina, non voglio parlare”. QUELLE PARENTELE DENTRO COSA NOSTRA ROMA – Nozze e amori infrangono alleanze e scatenano conflitti. Difficile districarsi nella ragnatela di parentele. Pino Marchese, collaboratore di giustizia, ha tre fratelli: Vincenzina, Angela e Nino. Vincenzina ha sposato Leoluca Bagarella, fratello di quell’ Antonietta moglie di Totò Riina che sembrò non gradire troppo il matrimonio di un corleonese con una palermitana. Nino Marchese, che sconta l’ ergastolo, ha sposato Agata Di Filippo, sorella di Emanuele e Pasquale (marito di Giusy Spadaro, figlia di don Masino) che hanno contribuito alla cattura di Bagarella. Angela Marchese ha sposato il cugino Giuseppe Grado, fratello del Giovanni collaboratore di giustizia.  di GIUSEPPE D’ AVANZO 28 giugno 1995  La Repubblica


Marchese, il ‘killer pentito’  E Totò Riina cominciò a tremare  I pentiti che misero in crisi Cosa nostra. Ecco le loro storie.   La storia di Cosa nostra è un po’ anche la storia di vecchie famiglie che per decenni si sono tramandate il potere nelle borgate palermitane. Per tanti ragazzi cresciuti in quegli ambienti saturi di mafia è stato spesso un dovere (e un onore) seguire le orme del padre e interpretare come una missione il ruolo di custodi dei sacri valori familiari.

Mai i caporioni di allora avrebbero immaginato che un giorno si sarebbero trovati l’infamone in casa. Già, il pentito. E invece è successo: si sono spezzate antiche catene, sono avvenute miracolose conversioni, boss incalliti colpevoli dei peggiori crimini di punto in bianco hanno salutato allegramente la compagnia, e chi si è visto, si è visto.

Dalla metà degli anni Ottanta e per oltre un decennio, tanti mafiosi hanno voltato le spalle non solo al malaffare, non solo alle trame sanguinarie, ma anche ai genitori che li avevano trascinati nelle acque putride, nel letamaio mafioso esponendoli a mille pericoli, alla vergogna, alla galera, alle pallottole.

Si perdono nella memoria i nomi delle famiglie che una volta dominavano nei quartieri. Fecero epoca al maxiprocesso affollati nuclei familiari costretti dentro le gabbie dell’aula bunker. Gruppi interi, genitori, fratelli, cugini, nipoti. Tutti lì dentro, ammassati dietro le sbarre. I Greco erano dieci, i Marchese otto, i Vernengo sette, gli Spadaro sei, come i Tinnirello. I Ciulla erano cinque e pure i Fidanzati, quattro i Sinagra, i Grado, i Lo Iacono, i Teresi.

La storia dei pentiti, come si sa, comincia nel 1984 con Tommaso Buscetta ma per vedere una gola profonda tradire la famiglia di sangue bisogna aspettare Giuseppe Marchese, cinquanta volte killer, nipote di don Filippo detto milinciana, vecchio capocosca di corso dei Mille e fratello di Antonino, altro assassino a caccia di record. Pino Marchese era anche fratello di Vincenzina, la moglie di Leoluca Bagarella, corleonese con marchio di fabbrica.

Il suo pentimento fece clamore non solo perché fu il primo del fronte dei vincenti, ma anche perché il reticolo di parentele lo aveva portato a stretto contatto con i massimi vertici della mafia palermitana e corleonese. La sua dissociazione fu una tragedia, ebbe effetti devastanti nel clan di Totò Riina e forse il suicidio di Vincenzina Marchese fu l’estremo sacrificio di una donna che volle risparmiare alla famiglia e il tributo imposto dal rituale delle vendette trasversali.

Pino Marchese aprì le danze. Subito dopo, a ruota, lo seguirono Giuseppe e Pasquale Di Filippo, fuggiti da una famiglia di solide tradizioni mafiose. Pasquale aveva sposato Rosa Spadaro, la figlia di don Masino. Uno smacco per il re della Kalsa, piegato anche dal tradimento di Rosa, che dopo avere recitato il copione obbligato della pubblica abiura del marito traditore davanti alle telecamere, ci ripensò, prese i bambini e mollò tutto per ricomporre la famiglia.

Perfino Raffaele Ganci, il vecchio ras della Noce che stava nel cuore di Totò Riina, dovette assistere impotente alla tragedia di Calogero, il primogenito passato improvvisamente dalla parte dello Stato dopo mesi e mesi di vita in comune, nella stessa gabbia, al processo per la strage di Capaci.

La stessa sensazione di disorientamento e incredulità avrà provato un altro boss del vecchio ordine mafioso, Bernardo Brusca, felice di aver lasciato il mandamento in eredità a Giovannino, pronto a raccogliere il testimone dando prova di avere tutti i numeri per far felice papà e il suo alleato di sempre, Totò Riina. Sembrava destinato a diventare il generale del grande esercito mafioso, Brusca junior, ed era pure deciso a concedere i gradi di colonnello al fratello Enzo Emanuele. Ma dopo il loro arresto in contemporanea, Giovanni ed Enzo si fecero un po’ di conti. Erano attesi al varco da una valanga di ergastoli. Ci pensarono su: dobbiamo farci la galera a vita? Non sia mai. Meglio cantarsela. E pazienza che un così imprevedibile salto del fosso precipitasse il vecchio don Bernardo nel buio della depressione.  Live Sicilia 16 Agosto 2020

 


 

MARCHESE Giuseppe Divenuto nel 1980 uomo donore” della famiglia” di Corso dei Mille, nel mandamento di Brancaccio – Ciaculli, svolse una breve ma intensissima attività criminale prima di essere tratto in arresto nel gennaio del 1982. La detenzione non pose fine, tuttavia, alla partecipazione del MARCHESE alla commissione di omicidi, essendo egli stato utilizzato dal RIINA per eseguire tali delitti allinterno del carcere, come nel caso dellomicidio di PUCCIO Vincenzo, reggente del mandamento di Brancaccio dopo lomicidio del feroce killer GRECO Pino scarpuzzedda” ed anchegli eliminato perché autore di una congiura per sottrarre il potere al RIINA, di cui non condivideva le modalità di gestione dellorganizzazione mafiosa e soprattutto dei rapporti con i detenuti. La volontà di collaborazione del MARCHESE, legato da rapporti di affinità con BAGARELLA, che ne aveva sposato una sorella, maturò nel corso del 1992, dopo la strage di Capaci ed è in gran parte dovuta alla percezione del cinismo con il quale i vertici dellorganizzazione gestivano i loro affiliati, utilizzandoli per i loro fini senza curarsi degli svantaggi che ne sarebbero potuti derivare agli stessi, come nel caso dellomicidio PUCCIO, che venne fatto compiere al MARCHESE in concomitanza con altro omicidio commesso allesterno del carcere ai danni di altro fratello del PUCCIO a nome Pietro, sicché il collegamento tra i due eventi, poi effettivamente operato dallA.G., rese insostenibile la tesi del delitto occasionale, tesi alla quale il MARCHESE affidava tutte le sue speranze di evitare una condanna alla pena della reclusione perpetua. Già sin dallinizio della sua collaborazione il MARCHESE fornì un contributo rilevante ai fini dellindividuazione delle persone che sarebbe stato utile sottoporre ad indagini per scoprire gli esecutori della strage di Capaci, avviando così quellattività investigativa serrata ed assai fruttuosa che portò progressivamente alla cattura di molti dei personaggi di vertice dellorganizzazione, alla collaborazione di alcuni di essi e, infine, allindividuazione di molti dei responsabili delle due stragi del 1992. Il MARCHESE è stato inoltre in grado di fornire indicazioni utili per la conoscenza dei canali utilizzati dallorganizzazione per comunicare con gli affiliati detenuti, nonché delle vicende interne del mandamento di Brancaccio – Ciaculli in cui lo stesso era inserito, mostrando sempre un elevato grado di affidabilità .

 

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF