23 Maggio 2020 – COMO ricorda CAPACI

 

Giardini a lago. Una cerimonia per ricordarecomo ricorda capaci 2020

Alle ore 17.57, l’orario dell’attentato del 23 maggio 1992, all’albero intitolato a Falcone, ai giardini a lago, il sindaco Mario Landriscina e l’assessore alla Sicurezza Elena Negretti, Benedetto Madonia e Claudio Ramaccini (rispettivamente presidente e direttore del Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco), e una delegazione della Croce Rossa Italiana hanno deposto una corona di fiori all’ALBERO FALCONE per ricordare le vittime della STRAGE DI CAPACI dove morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

 

 

VIDEO

RASSEGNA STAMPA

La mascherina indossata dai partecipanti alla celebrazione  é stata realizzata e donata al Progetto San Francesco dalla ditta Hoax Sports Wear di Massimo Martinelli con sede a Montano Lucino.

 MASCHERINA PSF 300

 


GIOVANNI FALCONE

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Chi era Giovanni Falcone – biografia a cura Fondazione Falcone

2012 – PALERMO   – XX ANNIVERSARIO DI CAPACI A PALERMO – GALLERIA FOTOGRAFICA


Il giudice che quasi nessuno ha rispettato in Italia, un mese dopo la morte è commemorato al Congresso americano. A Washington votano all’unanimità una risoluzione per mettere tutti in guardia: la sua uccisione (è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America). Nel grande atrio della scuola dell’FBI, a Quantico, in Virginia, c’è un suo busto in bronzo. L’hanno messo li, proprio in quel punto, perché gli allievi che vogliono diventare agenti speciali, devono passare davanti a Giovanni Falcone almeno due volte al giorno. Per rendere onore a un grande italiano. (Attilio Bolzoni)


 GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO, DUE VITE INTRECCIATE DAL MEDESIMO DESTINO


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Le parole di Falcone – video 

La STRAGE di CAPACI

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“Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium… Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno”Giovanni Falcone

Le vittime della strage di Capaci Allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Ecco chi erano: Francesca Morvillo, 46 anni, nata a Palermo, era la seconda moglie di Giovanni Falcone e morì al suo fianco. Sorella di Alfredo Morvillo, sostituto procuratore che fece parte del pool antimafia, aveva conosciuto Falcone a Palazzo di giustizia e lo aveva sposato nel 1986. Rocco Dicillo 30 anni, di Triggiano (Bari.) Quando superò il concorso in polizia, interruppe gli studi universitari e partì per Bolzano, prima sede di servizio. Nel 1989 iniziò a fare parte della scorta di Falcone, e con altri colleghi contribuì a sventare l’attentato alla villa dell’Addaura. Antonio Montinaro 30 anni, di Calimera (Lecce). Agente scelto, era stato inviato in Sicilia e temporaneamente assegnato al servizio scorte di Falcone. All’inizio sognava di tornare a casa, poi decise di rimanere e aprì un piccolo negozio di detersivi per la moglie. Da quando Falcone lavorava a Roma seguiva altre personalità, ma non mancava mai all’appuntamento quando il magistrato tornava in Sicilia nel weekend. Era padre di due figli piccoli. Vito Schifani 27 anni, di Ostuni (Brindisi). Guidava la prima delle tre Fiat Croma che scortavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Lasciò la moglie di 22 anni, Rosaria, e un figlio di 4 mesi. L’immagine di Rosaria ai funerali è rimasta nella memoria di molti. Sull’altare, piangendo, urlò ai mafiosi: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…”.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi


Il 23 maggio 1992, una micidiale carica di esplosivo piazzata sotto l’autostrada, nei pressi di Capaci (Palermo), uccide il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.

Scarica: 
Le foto del sopralluogo effettuato dalla polizia stradale

La richiesta della Procura di Caltanissetta nei confronti di mandanti ed esecutori
L’ordinanza di custodia del gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti

Il processo
Il 26 settembre 1997, la corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Carmelo Zuccaro ha emesso 24 ergastoli per l’eccidio avvenuto a Capaci. La decisione ha riguardato: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e tutti i componenti della commissione provinciale di Cosa nostra. I giudici hanno inflitto 26 anni di reclusione a Giovanni Brusca, che azionò il telecomando dell’esplosivo piazzato sotto l’autostrada. Pene minori per i collaboratori di giustizia rei confessi di aver preso parte all’esecuzione dell’eccidio: Salvatore Cancemi (21 anni), Giovan Battista Ferrante (17 anni); Gioacchino La Barbera (15 anni e due mesi); Calogero Ganci e Mario Santo Di Matteo (15 anni).

La sentenza della corte d’assise di Caltanissetta

La requisitoria del pm Luca Tescaroli: Parte Prima / Parte Seconda

In appello, sono state ribaltate alcune assoluzioni: il 7 aprile 2000 la corte d’assise d’appello presieduta da Giancarlo Trizzino infligge l’ergastolo anche a Salvatore Buscemi, Francesco Madonia, Antonino Giuffrè, Mariano Agate e Giuseppe Farinella, che in primo grado erano stati assolti. Ridotte le pene per i collaboratori di giustizia.
La sentenza della corte d’assise d’appello

Il 30 maggio 2002, la Cassazione conferma 21 condanne e annulla quelle riguardanti Pietro Aglieri, Salvatore Buscemi, Pippo Calò, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Giuseppe Madonia, Giuseppe Salvatore Montalto, Matteo Motisi e Benedetto Spera. Un nuovo processo d’appello, che viene fissato a Catania, riguarda anche le posizioni di alcuni mandanti ed esecutori della strage di via d’Amelio, su cui la Cassazione aveva sollecitato un nuovo esame. (La sentenza, nella scheda “Processo stralcio per Capaci e via d’Amelio).

La sentenza della Cassazione: Parte Prima / Parte Seconda

La nuova inchiesta
Le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza ai magistrati di Caltanissetta hanno offerto nuovi spunti d’indagine su chi fornì l’esplosivo per l’eccidio del 23 maggio.
Il verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza


GIOVANNI FALCONE  Palermo 18 Maggio 1939 – Capaci 23 Maggio 1992 Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mia madre una donna energica, autoritaria. Entrambi furono genitori che da me pretesero il massimo, con i sette e gli otto, la mia pagella veniva considerata brutta. Il tempo lo trascorrevo nella biblioteca di famiglia, divorando libri di avventura, storia di Francia di Sicilia ecc.ecc.. Dopo il liceo entrai all’accademia navale, volevo laurearmi in ingegneria, ma mi spedirono allo Stato Maggiore perché dicevano che avevo attitudini al comando, mio padre non ostacolò questa scelta ma mi iscrisse in legge e nel 1961 mi laureai con 110 e lode. Tentai così il concorso per entrare in magistratura che vinsi senza alcuna raccomandazione. A ventisei anni ero Pretore a Lentini con uno stipendio di 110 mila lire al mese, poi il trasferimento d’ufficio a Trapani con la qualifica di Sostituto Procuratore, dove scoprì progressivamente il penale. Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava. Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore. Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro. Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi. Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita. Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: <> frase disperata e sinistrica. I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare.  Le abitudini peggiori del palazzo di Giustizia a Palermo? i pettegolezzi, le chiacchiere da corridoio, una riserva mentale costante. Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità.   (Giovanni Falcone)


dI GIOVANNI FALCONE

  • Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive un barlume di dignità
  • Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mia madre una donna energica, autoritaria. Entrambi furono genitori che da me pretesero il massimo, con i sette e gli otto, la mia pagella veniva considerata brutta. Il tempo lo trascorrevo nella biblioteca di famiglia, divorando libri di avventura, storia di Francia di Sicilia ecc.ecc.. Dopo il liceo entrai all’accademia navale, volevo laurearmi in ingegneria, ma mi spedirono allo Stato Maggiore perché dicevano che avevo attitudini al comando, mio padre non ostacolò questa scelta ma mi iscrisse in legge e nel 1961 mi laureai con 110 e lode. Tentai così il concorso per entrare in magistratura che vinsi senza alcuna raccomandazione. A ventisei anni ero Pretore a Lentini con uno stipendio di 110 mila lire al mese, poi il trasferimento d’ufficio a Trapani con la qualifica di Sostituto Procuratore, dove scoprì progressivamente il penale. Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava. Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore. Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro. Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi. Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita. Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: <> frase disperata e sinistrica. I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare.  Le abitudini peggiori del palazzo di Giustizia a Palermo? i pettegolezzi, le chiacchiere da corridoio, una riserva mentale costante. Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità.  
  • “La Sicilia è una terra dove, purtroppo, la struttura statale è deficitaria. La mafia ha saputo riempire il vuoto a suo modo e a suo vantaggio, ma tutto sommato ha contribuito a evitare per lungo tempo che la società siciliana sprofondasse nel caos totale. In cambio di servizi offerti (nel proprio interesse, non c’è dubbio) ha aumentato sempre più il proprio potere. E’ una realtà che non si può negare.”  
  • “Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente».” 
  • Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati. Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Per seguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità. 
  • Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso -il tradimento, o la semplice fuga in avanti- provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. 
  • Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi.
    Il mafioso è animato dallo stesso scetticismo sul genere umano. “Fratello, ricordati che devi morire” ci insegna la Chiesa cattolica. Il catechismo non scritto dei mafiosi suggerisce qualcosa di analogo: il rischio costante della morte, lo scarso valore attribuito alla vita altrui, ma anche alla propria, li costringono a vivere in stato di perenne allerta. Spesso ci stupiamo della quantità incredibile di dettagli che popolano la memoria della gente di Cosa Nostra. Ma quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita. 
  • Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta anomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato. E’ il mio scetticismo una specie di autodifesa? Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso il tradimento, o la semplice fuga in avanti provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi.
  • In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera, non è detto neppure che ce la faccia a sopravvivere. La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per far apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino.
  • Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.
  • Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
    Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
  • Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di “emergenza”, in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali.
  • Ci troviamo di fronte e menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.
  • Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive un barlume di dignità.


Il 23 maggio 1992, la mafia aveva ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i 3 agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.

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INTERVISTA AD ANTONIO MONTINARO NELLA QUALE PARLA DELLA PAURA.. POCO TEMPO PRIMA DELLA STRAGE DI CAPACI: “Chiunque fa questa attività ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualche cosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange, è un sentimento umano, è la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell’ottica umana. Io come tutti gli uomini ho paura indubbiamente, non sono vigliacco, me ne sarei già andato. Beh nella mia posizione la paura è magari lasciare i bambini soli. Per uno scapolo è diverso. Per uno sposato si gestisce in virtù della propria famiglia: si ha paura di lasciarli soli, si ha paura di non avere la capacità di morire per una ragione valida. Io scorto un uomo ad altissimo rischio, un uomo che ha dato la possibilità a molti di credere. Non lo scorterei sicuramente se non avessi la massima fiducia nei suoi confronti; ho messo la mia vita a rischio per lui. Perché probabilmente è uno dei pochi di cui io forse ho tracciato una tale identità antimafia che mi permette di stare bene con me stesso, lo scorto perché credo che sia onesto, sennò non lo scorterei. Se un personaggio decide di combattere un fenomeno come la mafia e non ha l’aiuto della società, è normale che bisogna scortarlo. Se qualcuno decide di ammazzare un personaggio lo fa a prescindere da quanti uomini ci siano di scorta. Però io pecco di presunzione: io dico che attualmente siamo nelle condizioni, noi di questo apparato di sicurezza, se vengono nel contesto di autobomba va bene e li si è persi, li siamo sconfitti, la bomba fa il danno e tutto… Ma se dovessero venire nel contesto dell’attentato fatto ad un uomo cioè con l’uso di armi leggere o mitragliatrici, beh lì abbiamo la presunzione di lanciarne qualcuno a terra anche noi. La faccia della mafia è la faccia della gente che vede uccidere un uomo e non testimonia, ecco ci sono mille facce, mille momenti che vengono fuori quando la gente ha paura. La mafia è forte proprio perché la gente ha paura, e la paura nasce dalla volontà di non credere in chi potrebbe rappresentare, cioè la gente crede di non poter avere fiducia nello stato. Si sconfigge la mafia con un solo modo secondo me: facendo capire ai cittadini che i tempi del rivolgersi ad un “Peppino” o ad un “Zu Cicio” sono terminati, esiste uno stato, esistono dei rappresentanti e sono loro che devono risolvere i problemi, il vicino di casa non li può risolvere, può risolvere l’ascensore quando si è rotto…”

I discorsi sulla morte si facevano più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche Parole; “Io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”.
No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un po’ come aveva fatto prima di lasciare la Procura.
Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’Università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone. 
(da Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


La solitudine di Giovanni Falcone – II giornalista Saverio Lodato, il 19 maggio 2002, su “l’Unità”, ricorda un colloquio avuto con Giovanni Falcone alla Procura di Palermo poco prima che il magistrato si trasferisse a Roma come Direttore dell’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, nel marzo 1991. Anche in quell’occasione il magistrato espresse privatamente l’amarezza per gli ostacoli alle sue indagini all’interno della Procura di Palermo.   […] Giovanni Falcone indossava una felpa e pantaloni da ginnastica. Al centro della felpa campeggiava a caratteri cubitali il logo della Dea, la Drug Enforcement Administration, regalo dei colleghi americani durante un recente viaggio negli States dove Falcone negli ultimi anni si recava sempre più frequentemente per ragioni di lavoro. Fra noi due si svolse il dialogo che segue. Io: «Sta partennu?». Lui: «Minni vaiu a Roma, a lavorare con Martelli». Io: «Lasci Palermo?». Lui: «Esatto. Lascio Palermo». E con un sorriso alquanto tirato: «Qualcosa in contrario?». Non so come, non so perché, mi venne fuori una frase che era nello stesso tempo molto sincera e molto irrispettosa: «Giovanni, ci conosciamo da tanti anni. Nell’amicizia posso dirti che secondo me fai una minchiata?».  Falcone girò attorno a una pila di scatoloni (ormai quasi tutti zeppi di atti giudiziari), si diresse alla porta – mentre velocemente cercavo di intuire quale sarebbe stata la sua reazione – e, da socchiusa che era, la chiuse rumorosamente. «Ah, io secondo te faccio una minchiata? Cosa vuoi che ti dica? Va bene, hai ragione tu: faccio una minchiata…».Tentai una difesa. Mi ignorò e ripete: «Cosa vuoi che ti dica? Che qui è diventato impossibile lavorare? Che a Palermo per me non c’è più spazio? Che ho chiuso?». Adesso era paonazzo. Girava per la stanza tenendo in mano un rotolo di nastro adesivo da imballaggio con il quale fino a quel momento aveva sigillato scatoloni. Poi, trattenendo a stento la rabbia, ricominciò: «Ma lo sai che ieri ho telefonato a un giovane collega di Enna per chiedergli notizie su un imputato di mafia? Il collega si è messo a disposizione. E lo sai che mi ha richiamato dieci minuti dopo ed era sconvolto?». Riuscii a chiedergli il perché. «Perché appena ha chiuso la telefonata con me, ne ha ricevuta un’altra. Da chi? Dal mio capo, dal procuratore Pietro Giammanco», E cosa c’era di strano? «Di strano c’è che Giammanco già sapeva che io avevo fatto quella telefonata, quali informazioni avevo chiesto e anche a chi le avevo chieste. E ha telefonato al collega di Enna per ricordargli che il capo di quest’ufficio resta lui e che non gli sfugge niente del lavoro che faccio. Ti basta come segnale? Così non posso più andare avanti». Gli chiesi se qualcuno fosse stato presente alla sua telefonata. Falcone preferì non rispondere. E a quel punto reagii: «E io adesso scrivo un bell’articolo sul “l’Unità” raccontando l’intera storia per filo e per segno. Dimmi solo come si chiama il collega e dammi qualche particolare in più». Non l’avessi mai detto. «Se tieni alla mia amicizia non dovrai mai dire una parola su questa storia. Mi faresti soltanto danno. E mi costringeresti a smentirti. Scordatilla… (dimenticala)». Tentai qualche ultima e inutile resistenza. Verificai che diceva molto sul serio. Che voleva davvero che di quell’episodio non trapelasse nulla. Per allentare la tensione dissi solo: «Ti posso confermare che secondo me fai una minchiata ad andartene a Roma?».  Si mise a ridere: «Certo, certo. Ma dammi la tua parola d’onore che di quello che ti ho detto non scriverai mai nulla… Altrimenti non ti farò più entrare da quella porta…». Mantenni il patto […].  (da “Le Ultime Parole di Falcone e Borsellino”, a cura di Antonella Mascali )


I magistrati italiani non lo votano per il Csm. Non lo vogliono fra i piedi nemmeno lì. Sono pochi i giudici che gli vogliono bene. Una è Ilda Boccassini, il pubblico ministero di Milano che in quei mesi -è la fine dell’estate del 1989- inizia a indagare sulla mafia al Nord. E’ la Duomo Connection, trafficanti siciliani in combutta con amministratori pubblici milanesi. Giù a Palermo, la Procura ha chiuso intanto la sua inchiesta sui <>, le uccisioni di Pio La Torre, del segretario provinciale della Dc Michele Reina e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. E’ un’indagine superficiale, manca di approfondimenti sui mandanti. Come sempre, c’è solo Totò Riina.<>, dice Falcone a Borsellino e a qualche altro collega. Ma ancora una volta prevale il senso del dovere, la disciplina, l’ubbidienza, il rispetto della gerarchia. Giovanni Falcone firma. E’ stremato dalle polemiche precedenti, non condividere ufficialmente quell’inchiesta equivarrebbe ad aprire un altro <> e ricominciare con le audizioni al Csm. Dopo il duello Falcone-Meli, lo scontro Falcone-Giammanco. Capisce che è finito in una trappola, E’ stanco. Gli spiace solo di non aver indagato di più su <>, l’organizzazione paramilitare nata nell’immediato dopoguerra per difendere le democrazie occidentali dal <>. Falcone ha trovato alcuni indizi degli <> strutturati militarmente, tracce che lo portano alla morte di Pio La Torre.  E’ il procuratore Giammanco a fermarlo. Lui annota tutto sul suo computer. Consegna qualche appunto a Liana Milella, una giornalista di cui si fida. <>, le confessa. E’ frastornato, sempre più solo. Si prende i rimproveri e gli insulti anche degli artefici della <> di Palermo. Il sindaco Orlando lo attacca <>, il riferimento è alla sua firma in calce all’inchiesta sui cosiddetti delitti politici. E’ la fine di un’amicizia e la fine di un’epoca(Attilio Bolzoni – UOMINI SOLI)


La scrivania del giudice è coperta di assegni. Tutti ordinati per data e per nome. Sulla prima fila ce ne sono undici firmati Gambino Tommaso. Sono tre cugini con lo stesso nome. Uno nato nel 1939, l’altro nel 1934, il terzo nel 1940. 
Sulla seconda fila gli assegni portano la firma Inzerillo. Per non confondersi, il giudice Falcone dispone gli assegni con cura e comincia a disegnare sull’agenda un albero genealogico. La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana. In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le <> che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 -emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano- vivono i suoi cugini americani. E’ la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. E’ anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.
Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. E’ una rivoluzione investigativa. Ancora non sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.
<>, sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della <>. Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.
Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni.Le prime lettere anonime, bare o croci disegnate su fogli bianchi, gli vengono recapitate dopo che ha ordinato l’acquisizione delle distinte di cambio in valuta estera a partire dal 1975. La sua piccola stanza, in fondo al corridoio buio del piano terra del Tribunale, si riempie di scatoloni. Tutti i movimenti di denaro da New Jersey a Palermo sono lì dentro. E’ la scoperta dell’America.  (Attilio Bolzoni -UOMINI SOLI-)


<> GIOVANNI BRUSCAIniziammo i turni il 21 maggio di pomeriggio. Eravamo sempre gli stessi ma Bagarella non c’era più. Infatti quando finimmo di collocare l’esplosivo, lui prese la moglie e se ne andò a Mazara del Vallo. In quel periodo era latitante. La squadra si ridusse a me, La Barbera e Gioè, del mandamento di San Giuseppe Jato; Troia e Battaglia perché avevano la disponibilità del villino di Capaci; e Biondino, che faceva da tramite fra noi e i Ganci che si trovavano a Palermo. Ci eravamo messi d’accordo su come fare. Non potevamo andare sulla montagna dieci minuti prima, all’ultimo momento. Appena arrivava il segnale della macchina che partiva, dovevamo andare a collocare la ricevente. Avevamo preparato degli spinotti che ormai si dovevano solo collegare. Avevamo l’antenna pronta e tutto il sistema era composto da un motorino che doveva andare a fare massa con un chiodo di ferro e poi sarebbe avvenuta l’esplosione. Avevo anche detto a Ferrante: <<Giovà, mi devi fare la cortesia che quando arrivi in aeroporto, tu devi scendere dalla macchina. Devi guardare dentro l’auto di Falcone: dobbiamo essere sicuri che dentro non c’è qualcun altro. Dovessimo fare qualche pasticcio…Quindi tu lo devi vedere, Giovà; lo devi vedere. Hai capito? Scendi dalla macchina, ti metti all’ingresso del passaggio di polizia, in aeroporto. Falcone lo devi vedere entrare in macchina, devi essere sicuro. Capito Giovà? Solo allora telefoni a La Barbera>>.Poteva fare quello che gli dicevo perché in quel momento era libero, non era latitante. Quindi lui vide in faccia il magistrato. (Da -HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- di Saverio Lodato. La confessione di Giovanni Brusca.)


 <> E’ siciliano di Licata, terra agrigentina. Nasce nel 1930, a ventitré anni è già uditore giudiziario, poi giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. E’ una carriera di glorie e fasti quella di CORRADO CARNEVALE, il giudice che ama il cavillo. Lavora per due decenni all’Ufficio del Massimario, alla prima sezione civile e alle sezioni unite della Suprema Corte, va alla Corte di Appello di Roma, rientra in Cassazione. Alla prima sezione penale dove approdano i delitti di mafia, terrorismo, omicidio, strage. Nel dicembre 1985 diventa il presidente della prima sezione penale (<< Il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione>>, precisa lui), piega a livelli fisiologici l’arretrato. Quando si insedia sono 7065 i processi che attendono l’esame, nel maggio 1989 scendono a 837. Prima del suo arrivo la prima sezione è chiamata <>, diventa la <>. Esamina 6 mila processi l’anno, uno su tre è <>, con o senza rinvio. Alla prima sezione ci resta per sette anni meno quattro giorni. E’ dotato di una memoria prodigiosa. I suoi colleghi dicono che conosce ogni carta del processo che giudica. Come giudica è altro argomento. La Cassazione è l’ultima spiaggia per la mafia di Palermo. Dopo le pesanti condanne in primo grado e l’ <> che il maxi processo ha subito in Appello, tutte le attese degli uomini d’onore si sono concentrate sulla Suprema Corte e nella persona di Carnevale, il presidente della prima sezione penale. Già a inizio del 1991, Carnevale ha rimesso in libertà Michele Greco e 42 boss per decorrenza dei termini di carcerazione. Giovanni Falcone studia una contromossa e il ministro Martelli ordina di riportarli all’Ucciardone dopo appena cinque giorni. <>, commentano i mafiosi con rabbia. Lo sanno tutti che dietro Martelli c’è Falcone. Corrado Carnevale disprezza il giudice di Palermo e non ne fa mistero. Dice: <>. Lo sbeffeggia: <<C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei mali che affliggono la società>>. Aspetta pazientemente il maxi processo in Cassazione per farlo a pezzi. Ma, al ministero, da qualche mese, è partito un monitoraggio sui provvedimenti della prima sezione penale della Suprema Corte. Ne scelgono 12.500. Falcone e i suoi collaboratori li esaminano tutti, uno per uno. Si accorgono che i magistrati di quella sezione giudicano ogni singolo indizio autonomamente senza incrociarlo con gli altri. Una <> stravagante e sospetta, che finirebbe per demolire il maxi processo. Quante sentenze ha invalidato il presidente Carnevale fino a quel momento? Quasi 500. Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e banda armata, ha annullato la condanna a Michele Greco per l’omicidio Chinnici e il processo per la strage dell’Italicus, ha cancellato i provvedimenti di arresto del prete mafioso calabrese don Stilo e del camorrista Giuseppe Misso, ha ordinato un nuovo processo per la strage del rapido 904 Napoli-Milano, ha azzerato 19 ergastoli a Mommo Piromalli e agli affiliati della sua cosca, ha respinto il ricorso di Enzo Tortora che vuole il suo processo lontano da Napoli e al contrario ha trasferito quello sui <> dell’Iri da Milano a Roma. Gli chiedono: <> Risponde: <>. Corrado Carnevale si muove nell’ombra per ottenere il maxi processo. Ma non ci riesce, ci va un altro magistrato a presiederlo. Nelle carceri i boss si sentono perduti. Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra < (Dal libro Uomini Soli di Attilio Bolzoni)


Nel 1939 via Castrofilippo non era il simbolo del degrado palermitano. E la piana della Magione raccoglieva i palazzi della buona borghesia. Gli enormi portoni di legno lasciavano intravedere gli atri all’aperto che anticipavano le bianche scalinate. I balconi lunghi, con le ringhiere in ferro battuto e le persiane verdi, rappresentavano lo status symbol dei palermitani che avevano conquistato almeno il “pezzo di pane sicuro” con lo stipendio statale. No, né la Magione, col gioiello arabo-normanno al centro dell’enorme slargo, né la Kalsa con le sue chiese barocche, Palazzo Butera e l’ultima residenza palermitana del Gattopardo, venivano considerati quartieri a rischio. Certo, il “popolino” c’era anche allora, ma non dava manifestazioni di turbolenze. Anche la mafia esisteva già, pur se non si faceva vedere. Presenza discreta e immanente per garantire una tranquilla convivenza tra classi sociali che avevano poche affinità, se non il “comune sentire” e la vocazione a “farsi i fatti propri”. Ciò assicurava alla mafia, ancora primitiva e scarsamente industrializzata, il controllo del territorio, agli abitanti -anche a quelli non mafiosi- di poter rincasare col buio senza essere derubati o infastiditi. Non erano tempi eccezionali. Di quel periodo Sciasca dirà che viveva “dentro una società doppiamente non giusta, doppiamente non libera, doppiamente non razionale. Gli analfabeti erano il venti per cento della popolazione. Palermo contava più di quattrocentomila abitanti e il reddito medio (ma non tutti avevano un reddito) era di 3029 lire al mese.I Falcone, che il reddito lo avevano, abitavano al numero 1 di via Castrofilippo, al “piano nobile” di un bel palazzo antico che era stato la casa del sindaco Pietro Bonanno, fratello della nonna, quello della villa con le palme davanti a Palazzo d’Orléans. Appartamento, grande, con le volte alte, gli affreschi sul soffitto e le maioliche pregiate del pavimento. Una famiglia tranquilla, né ricca né povera, quella del dottor Arturo Falcone, direttore del laboratorio provinciale di igiene e profilassi. Lavorava solo lui; la moglie, Luisa Bentivegna, stava in casa a badare ai figli.In quella casa, il 18 maggio del 1939, col fondamentale aiuto di una levatrice e di un medico, è nato Giovanni, terzogenito molto atteso dopo due femmine. Era un giovedì di primavera inoltrata, ma Palermo era spazzata da un fastidioso vento di scirocco. L’umidità raggiungeva punte altissime. Il calendario annunciava la festa di san Venanzio martire e il “Giornale di Sicilia”, come piatto del giorno, consigliava “Quaglie alla siciliana”. La cronaca, invece, non offriva grandi spunti, tranne un infortunio al cantiere navale e il caso di una bambina, Caterina Restuccia, caduta nella pentola di acqua bollente e morta per le ustioni. Il 18 maggio i nati erano venticinque. Allentante il cartellone degli spettacoli: al Teatro Massimo l’ultima rappresentazione della stagione con la Traviata interpretata da Attilia Archi e Gino Fratesi. Al cine-varietà del Massimo il Gruppo d’arte “Novecento” dava La Casa del peccato con la Negri. Quel 18 maggio le cronache sportive davano conto del fatto che la squadra di calcio del Palermo aveva superato “agevolmente la combattiva Salernitana” e si attestava sui 32 punti in classifica. La prima pagina annunciava l’imminente visita del principe Umberto. Ma in casa Falcone, quel giorno, non ci fu tempo per leggere il giornale. Era arrivato il maschio, dopo due femminucce: Maria, che aveva tre anni e Anna, la più grande, che ne aveva quasi nove. (Francesco La Licata -Storia di Giovanni Falcone-)


Cosa Nostra ha buona memoria e non dimentica facilmente. Se poi un fantasma che credeva di aver esorcizzato le si presenta di nuovo come un incubo, come una persecuzione, la necessità di (rimuoverlo) diventa quasi fisiologica. Falcone era diventato l’ossessione della mafia, al (vecchio conto) si aggiungeva quello recente e, soprattutto, i timori per il futuro se il giudice fosse riuscito ad ottenere la giuda della Superprocura. Ciò che accade nei primi mesi del 1992 non fa che accrescere le preoccupazioni di Cosa Nostra. La Cassazione (fa acqua) il clima generale è cambiato: (Roma influenza l’orientamento della magistratura), (siamo alle sentenze politiche), così vengono vissute negli ambienti della (palude) le iniziative del governo contro i boss. Falcone entra sempre di più nel mirino dei commenti al vetriolo degli avvocati di mafia. Cresce il suo prestigio, ma aumenta il rischio. L’ultima (vittoria) è del 22 febbraio: il tribunale di Caltanissetta sancisce che Falcone fu calunniato dal (Corvo) il giudice Alberto Di Pisa, rinviato a giudizio perché ritenuto l’autore della lettera anonima, condannato a un anno e mezzo di reclusione (Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


Con la nuova “squadra Molti avevano detto che all’esterno quella scelta sarebbe stata vissuta come una sconfitta. Ma lui non se ne curò. Falcone arrivò al ministero con un leggero ritardo. L’insediamento era previsto per i primi di marzo, ma fu rinviato perché bisognava attendere che si liberasse dell’ultimo impegno processuale palermitano: la chiusura dell’inchiesta sugli omicidi politici. Una volta firmata la sentenza, si trasferì. Non si può dire che a Roma fosse più amato che a Palermo. Ma certamente potè contare su un gruppo di amici che si era trovati vicini ai tempi non sospetti del lavoro preparatorio del maxiprocesso. Aveva in mente il “suo gruppo”, del quale “doveva” far parte Liliana Ferraro. Sorse qualche problema, dato che Martelli si accingeva a trasferirla. Falcone intervenne e propose al ministro che la Ferraro fosse nominata sua vice: “La voglio accanto”. Aveva i suoi buoni motivi per avanzare una richiesta così determinata: motivi di profonda amicizia, ma non solo. Falcone non conosceva la “macchina” del ministero, mentre la Ferraro la dominava, e poi aveva bisogno di sentirsi protetto da qualcuno che sicuramente non avrebbe tradito. Un’altra amicizia nascerà con Livia Pomodoro, che Martelli nominerà capo di gabinetto del ministro nel maggio 1991. Un terzo amico lo troverà in Giannicola Sinisi, un giovane magistrato pugliese anche lui appena giunto a Roma, che diventerà per Falcone “l’allievo”.

Giannicola SINISI (magistrato)
Mi colpì subito quell’uomo. Mi colpirono i suoi occhi mobilissimi, il suo sguardo leale e franco. Capii che mi trovavo di fronte una persona “difficile” ma estremamente ricca. Legammo immediatamente, ci trovammo d’accordo soprattutto sul programma che aveva accettato di portare avanti. Ricordo che cominciammo a lavorare quasi subito. Anche prima del 13 marzo, in una stanza che non era la sua, in condizioni precarie. Primo obiettivo fu quello di chiedersi come fare per dare una nuova organizzazione alla polizia giudiziaria. Organizzò degli incontri. Andammo a cena, io, lui e Liliana Ferraro con Pino Arlacchi, con Gianni De Gennaro e con Piero Grasso, che si accingeva a passare anch’egli al ministero. Questo accadeva in febbraio, e non abitava ancora a Roma. Poi si insediò e mi disse: “Preparati a cambiare ufficio, verrai da me”. Sorse qualche problema e allora ne parlò col ministro, quindi andò direttamente dal capo di gabinetto di allora, Filippo Verde, e gli cominciò: “Lui viene con me”. Qualche tempo dopo cominciò ad avvalersi della collaborazione di Loris D’ambrosio, un collega che lavorava all’ufficio riforme del ministero e che Giovanni chiamò alla direzione generale degli Affari penali. Ricordo ancora il suo ritorno dal primo weekend trascorso a Palermo. Si presentò con un questionario sul problema del coordinamento delle indagini preliminari, lo stesso che poi sarebbe stato inviato, senza riceverne grande riscontro, a tutti i procuratori generali. Mi colpì la concretezza di quell’uomo: le cose di cui parlava diventavano realtà. Mi disse che si era fatto aiutare da Francesca per scrivere a macchina i testi delle domande.  
(Francesco LA LICATA-storia di Giovanni FALCONE)

Isolato nella sua città Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo. (da STORIA DI GIOVANNI FALCONE- di Francesco La Licata)

Di Paolo Borsellino

Paolo Borsellino, il 25 giugno 1992, a distanza di un mese dalla morte di Falcone, pronunciò queste parole per ricordare, in pubblico, appunto il suo collega ed amico.

“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”

 

  • “FALCONE È VIVO!” Il 20 Giugno 1992 il Dott. Paolo Borsellino, al termine di una fiaccolata con una veglia di preghiera, organizzata per ricordare il suo amico Giovanni Falcone, teneva un discorso che è considerato il suo testamento morale, qualche giorno dopo avrebbe scandito le stesse parole a Casa Professa..   “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? PER AMORE! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali. Intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse : “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare solo poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza ad una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone. Ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che fini per invocare ed ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa Nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottime condizioni del suo lavoro. Per continuare a “DARE”. Per continuare ad “AMARE”. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. MENZOGNA! Qualche mese di lavoro in un ministero non può fare dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborarono con la giustizia per le indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova incredibilmente il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagalo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarne dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli, accentando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone È VIVO!”   Paolo Borsellino” discorso alla Veglia per Falcone, Palermo 20 giugno 1992
  •  La morte di Falcone mi ha lasciato in uno stato di grave situazione psicologica per il dolore provato, in quanto non si tratta soltanto di un collega o compagno di lavoro ma, probabilmente del più vecchio degli amici che è venuto meno.  Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia di continuarlo a fare.  
  • Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.  
  • In pochi giorni mi sento invecchiato di almeno 10 anni, non solo perché ho perso un grande amico, ma anche perché ho perso il mio scudo. Mi sento solo.   
  • «Mio padre rimase invalido nel primo conflitto mondiale: in testa, trentatrè schegge d’osso che i medici, per non complicare le cose, evitarono di rimuovere. Da allora ebbe sempre difficoltà di deambulazione. Un mio zio, capitano d’aviazione, fu abbattuto».  Non si riferiva a Salvatore ma a Giuseppe, fratello del padre, caduto a ventiquattro anni nel corso di un duello aereo. Ma lo zio Salvatore era nel suo cuore e lo ricordo cosi: «Un altro zio, fratello di mia madre, falsificò i documenti anagrafici pur di arruolarsi come volontario: una granata lo colpi in pieno e l’uccise. Per questi nostri morti provavamo affetto e ammirazione, la loro vita era considerata un esempio. “Hanno servito la patria!” erano soliti ripetere i miei genitori». (da “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata

Paolo Borsellino non era riuscito a far parte del pool di magistrati che investigavano sull’omicidio di Giovanni Falcone, ma questo non gli impedì di continuare le indagini. Era determinato a consegnare gli assassini alla giustizia. <>, promise a Liliana Ferraro, l’ex capo dell’ufficio privato di Giovanni Falcone.A un mese dall’omicidio, il pomeriggio del 25 giugno, Paolo Borsellino organizzò un incontro con il colonnello Mori e il capitano dei carabinieri De Donno. Per ragioni di segretezza, non li ricevette nel suo ufficio, ma in caserma. Prima chiese loro se avessero delle piste sugli assassini di Falcone, ma la risposta fu negativa, e poi di riprendere sull’infiltrazione della mafia negli appalti pubblici relativi ai lavori in Sicilia, portate avanti su richiesta di Falcone. Paolo Borsellino domandò ai due ufficiali di operare in gran segreto e di conferire con lui. Formalmente, il procuratore non aveva il diritto di condurre indagini simili. Con sua massima frustrazione, il suo mandato copriva soltanto l’inchiesta sui clan di Trapani e Agrigento. (JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia)


Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo. Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare. Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992. L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai.(Attilio Bolzoni)


” Il traffico dello svincolo per l’autostrada va ingrossandosi sempre di più , mentre corro in direzione opposta -racconta Lucia-. C’è già tanta gente di fronte all’ospedale , scopro che mio padre è arrivato tra i primi al pronto soccorso . Ha chiesto dov’è Falcone , è scomparso dietro una porta a vetri . No , non so quanto tempo sia passato dal suo arrivo . All’improvviso lo vedo: ho impresso nella memoria il suo sguardo smarrito , sconvolto, è invecchiato in pochi minuti . Mi viene incontro , mi abbraccia: “È morto così, tra le mie braccia”. Comincio a piangere senza freni , sento la sua voce che vuole essere ferma , altera: “Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo”. Dopo qualche secondo non ce la fa più neanche lui . Ora è tra le mie braccia , inizia a singhiozzare . Sento le sue lacrime bagnarmi il collo , lo stringo per paura che si lasci andare . “Papà, ma adesso come farai a continuare?” Chiedo. “Non lo so, non lo so”. Piange ancora , scuote la testa . Alle nostre spalle arriva Alfredo Morvillo , il fratello di Francesca. Lui e papà si conoscono da una vita . Capisce che anche per la sorella non c’è stato niente da fare . “No, pure Francesca no…”, Singhiozza ancora. È grande la sofferenza per la perdita di Giovanni e Francesca , gli volevamo tutti bene , in casa Borsellino . Ma il mio pianto , quel 23 maggio , non sembri egoistico , nasconde anche una consapevolezza: adesso la morte di mio padre diventa più vicina , anche per lui le ore sono ormai contate .  (Estratto da “Paolo Borsellino”, Umberto Lucentini)


Enzo Biagi ricorda Giovanni Falcone L’ultima immagine che è rimasta nei suoi occhi è quella di un lembo di Sicilia: il mare, l’erba verde di un pascolo, gli ulivi saraceni. Le lancette dell’orologio di Francesca Morvillo coniugata Falcone sono ferme alle 18:08. Parlai di Giovanni Falcone con Maria, la sorella, intelligente, pacata, alla quale Giovanni, timido, riservato, confidava: <>. E ripeteva: <>. Quando la mafia uccise Lima, il magistrato rivelò a un amico: <>. Davanti alla sua casa, a Palermo, c’era una magnolia; non so se la chiamano ancora <<l’albero Falcone>>. Aveva detto: <>. Ero a cena con Giovanni e Francesca a Palermo, una sera del 1987, in casa di un comune amico: a mezzanotte andarono a sposarsi. <>, dissero poi; solo quattro testimoni, così vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali e si erano ritrovati con la voglia di andare avanti insieme. <<Perché non fate un bambino?>>, chiesero una volta a Giovanni. <>, rispose. E Buscetta lo aveva avvertito: <>. E spiegò: <>. Buscetta e Falcone si incontrarono a Brasilia e il giudice ebbe subito l’impressione di trovarsi di fronte a una persona molto seria. Lo avvertì: <>. E Buscetta: <>. Si sa come è andata a finire: una bomba, località Capaci.Una buona parte di Palermo, l’ha odiato, mentre era in vita. Quando è morto la città è scesa in piazza. Una moltitudine di gente ha preteso di ereditarne il pensiero, i meriti e il carisma. No, non erano in molti ad amare veramente Giovanni Falcone. Se i gesti concreti hanno un senso, basta misurarli per comprendere quanto pochi siano stati i suoi veri amici. Forse la verità è che Palermo, ma non solo lei, aveva dato a Falcone una silenziosa delega in bianco: “Liberarci dalla mafia”. Un alibi per nascondere la paura, l’impotenza, l’assenza di qualunque volontà di opporsi al malaffare. Paura? Certo, la paura c’è. Ma dove finisce la paralisi da terrore, per lasciare il posto al calcolato immobilismo, all’acquiescenza, in nome di una vita più agevole, di una tranquilla convivenza con un modo apparentemente innocuo, ma spietato e violento nella sua essenza? Qual è il confine tra il disimpegno e la complicità? Tra l’inettitudine e la collusione? Chi ha osteggiato Giovanni Falcone, l’ha fatto sempre “in buona fede”? La storia del giudice si identifica con quella degli ultimi, terribili anni palermitani: i morti, quelli di mafia e quelli che con una brutta parola abbiamo imparato a chiamare “eccellenti”, le defezioni, le inadempienze, i sospetti, le colpe della politica e dei governi, le protezioni concesse a governanti infedeli, l’impunità garantita agli assassini, l’illegalità elevata a sistema. Anni di piombo, molto più di quanto lo siano stati quelli del terrorismo: un lungo filo rosso che affonda la sua origine nel buio di un infinito “pozzo nero” e marcia verso una direzione che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, appare senza traguardo. La vita e la morte di Giovanni Falcone rappresentano una sorta di guida da questo passato pesante come un macigno a un futuro ancora poco rassicurante. (Francesco La Licata  in STORIA DI GIOVANNI FALCONE)


QUEL MAGISTRATO HA FATTO COSE DA PAZZI    <<E’ vero, io stato tirato in ballo molto spesso. e, direi, con puntuale insistenza. Ma da chi? Certamente né dalla magistratura, né da alcun altro organo inquirente. Sfido chiunque a trovare la benché minima traccia di valore processuale nei miei confronti. Il mio nome è stato tirato in ballo da qualche foglio locale troppo zelante nel costruire, attorno ai Salvo, una letteratura facile da smistare a tutti gli altri giornali. Il discorso dei miei rapporti con la mafia è stantìo. In venticinque anni di carriera, non sono mai entrato in un processo di mafia, non ho mai avuto un avviso di reato. Se fossi un mafioso, tutto questo sarebbe possibile?>    (Da PAROLE D’ONORE di Attilio Bolzoni)


Giannicola Sinisi (Magistrato) racconta:I discorsi sulla morte si facevano sempre più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo la lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche parole: “io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”. No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un pò come aveva fatto prima di lasciare la Procura. Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. “Ed è un processo che non si è concluso con la solita litania, con la solita sequela di assoluzioni per insufficienza di prove, che adesso sarebbero tutte con formula piena, ma è un processo che si è concluso con ben dodici ergastoli e gli annullamenti in Cassazione sicuramente porteranno ad altri ergastoli.” Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’Istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone(Da STORIA DI GIOVANNI FALCONE di Francesco La Licata)


L’infanzia di Giovanni Falcone fu uguale a quella dei bambini del suo ambiente, che allora si chiamava “ceto sociale”. Scuola, Azione cattolica, qualche divertimento: un film o una partita a ping-pong. Non frequentava spesso altri bambini: le relazioni della sua famiglia non erano estese e neppure i rapporti tra parenti. Così, ormai magistrato, Giovanni si confessò: “Mio padre? Era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Cosa mi insegnò? A lavorare sodo, a rispettare gli impegni, a preoccuparmi delle mie sorelle, vecchi valori forse…Era cattolico e tra noi c’era una stima reciproca. Ma era molto più anziano di me. Anche gli interessi culturali erano diversi”. Come si viveva in casa? “Mio padre ci stava molto. Per lui era punto d’orgoglio non aver mai bevuto al bar una tazzina di caffè. Di conseguenza niente mare, niente villeggiatura. Mia madre? Donna molto energica, autoritaria. Da lei pochissimi segni esteriori d’affetto. Entrambi furono genitori molto esigenti che da me pretesero il massimo. Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta. Comunque ero il prediletto.” Era piccolissimo, quando arrivò la guerra e la famiglia dovette sfollare. I primi bombardamenti indussero i Falcone a trasferirsi nella borgata marinara di Sferracavallo, in una villa con la terrazza. Ma le bombe arrivavano anche lì, per questo decisero di raggiungere le campagne di Corleone, paese dov’era nata la madre. Anni difficili, certamente determinanti, quanto l’educazione familiare, per la formazione di un carattere duro e tenace. (Francesco La Licata in Storia di Giovanni Falcone)


Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone.Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo.  (da STORIA DI GIOVANNI FALCONE di Francesco La Licata)


Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo. Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare. Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992. L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. (Attilio Bolzoni)


” Il traffico dello svincolo per l’autostrada va ingrossandosi sempre di più , mentre corro in direzione opposta-racconta Lucia-. C’è già tanta gente di fronte all’ospedale , scopro che mio padre è arrivato tra i primi al pronto soccorso . Ha chiesto dov’è Falcone , è scomparso dietro una porta a vetri . No , non so quanto tempo sia passato dal suo arrivo . All’improvviso lo vedo: ho impresso nella memoria il suo sguardo smarrito , sconvolto, è invecchiato in pochi minuti . Mi viene incontro , mi abbraccia: “È morto così, tra le mie braccia”. Comincio a piangere senza freni , sento la sua voce che vuole essere ferma , altera: “Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo”. Dopo qualche secondo non ce la fa più neanche lui . Ora è tra le mie braccia , inizia a singhiozzare . Sento le sue lacrime bagnarmi il collo , lo stringo per paura che si lasci andare . “Papà, ma adesso come farai a continuare?” Chiedo. “Non lo so, non lo so”. Piange ancora , scuote la testa . Alle nostre spalle arriva Alfredo Morvillo , il fratello di Francesca. Lui e papà si conoscono da una vita . Capisce che anche per la sorella non c’è stato niente da fare . “No, pure Francesca no…”, Singhiozza ancora. È grande la sofferenza per la perdita di Giovanni e Francesca , gli volevamo tutti bene , in casa Borsellino . Ma il mio pianto , quel 23 maggio , non sembri egoistico , nasconde anche una consapevolezza: adesso la morte di mio padre diventa più vicina , anche per lui le ore sono ormai contate .  ”  Estratto da “Paolo Borsellino”, Umberto Lucentini)


“Io vado, ci vediamo lunedì” La giornata del 22 maggio 1992 fino a sera, Giovanni Falcone l’aveva trascorsa a mettere ordine nelle sue cose. Aveva utilizzato la macchina tritacarte per distruggere alcuni documenti che non gli servivano più. Chi gli è stato vicino è rimasto molto impressionato da tanta meticolosità. Presagiva la fine? Forse è più consolante pensare che si preparasse psicologicamente a lasciare quell’ufficio, in vista della Procura nazionale che, chissà per quale convinzione, sentiva vicina. Nulla fa pensare che temesse: non avrebbe portato con sé Francesca, non l’avrebbe attesa per un giorno e mezzo. Anzi, il ritardo della moglie sarebbe stata la scusa ideale per poter viaggiare da solo, salvaguardandola così senza metterla in apprensione. Invece ha spostato più volte la partenza, si è mosso con estrema tranquillità, trovando persino la voglia e il tempo di fare un salto a casa per cucinarsi un piatto di spaghetti. E quando ha lasciato la sua stanza si è rivolto alla segretaria, salutandola in un modo che non lasciava trasparire timori: “Io vado, ci vediamo lunedì”.(Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


“Nel luglio del ’78 una mattina nella mia stanza dell’ufficio istruzione. Sapevo che Rocco Chinnici, nel frattempo divenuto consigliere istruttore, mi aveva affidato il processo Spatola, e la voce in giro s’era sparsa velocemente. Da più parti mi si fece notare che questa decisione avrebbe creato notevoli problemi di sicurezza. Non provai né paura né ansia, bensì un comprensibile stupore per una problematica per me inedita. Ma quella mattina rimasi sbalordito: una delegazione composta da noti avvocati, il fior fiore dei collegi di difesa palermitani, chiese di essere ricevuta. Non ebbi difficoltà a concedere l’incontro. Fu brevissimo: venivano a dirmi che mi consideravano persona per bene, che si fidavano della mia equità, della mia freddezza di giudizio. Mi sentii imbarazzato. Fra l’altro da parte dei miei colleghi non ho mai goduto di grandi simpatie, poiché non avevo il problema di apprendere i rudimenti del mestiere. Molti, con sufficienza, mi consideravano il braccio destro di Chinnici, quasi fossi un acritico e impersonale esecutore dei suoi indirizzi. Perciò quando Chinnici mi assegnò un compito così gravoso si convinsero definitivamente che fossi una persona che subiva i suoi ordini. Quando si resero conto che ero capace di valutare in piena autonomia fecero di tutto per metterci l’uno contro l’altro. Un bel giorno, quando la misura fu colma, fui io stesso a parlarne a Chinnici. La storia si concluse lì.”  Giovanni Falcone in Falcone vive di Galluzzo, La Licata, Lodato


Giovanni Falcone sapeva come sarebbe finita. <>. La stagione del Corvo, con accuse insensate da cui deve difendersi persino davanti al Csm, e lo strappo di Orlando con la polemica per le presunte <> serbate dai magistrati palermitani sui delitti eccellenti sono altrettanti passi che lo avvicinano all’uscita dalla scena siciliana. Dopo l’Addaura, lo nominano procuratore aggiunto. Ma basta scorrere gli appunti consegnati all’amica giornalista Liana Milella per comprendere il travaglio di quell’ultimo anno, di quell’ultimo incarico sotto <>, Piero Giammanco. Emarginazione, sospetti, <>, dice alla moglie Francesca. <<E’ colpa di Giammanco se mio fratello abbandonò Palermo. E Giovanni glielo disse pure, al momento dei saluti. Lui, imperturbabile, gli diede una pacca sulla spalla e lo baciò due volte sulle guance, come Giuda>>, ha raccontato la sorella Maria.Ancora una volta, invidie, rancori professionali, calcoli politici: la miscela contro Falcone è sempre la stessa. Lui reagisce con un rilancio: <>. E accetta la direzione degli Affari penali che gli offre Claudio Martelli, solo pochi anni prima nella trincea opposta alla sua con la campagna sulla <> e il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Forse è un azzardo reciproco, forse semplice realpolitik, ma funziona. Falcone prende servizio in via Arenula a marzo 1991, a undici mesi dall’avvio di Mani pulite a Milano, in un clima già pesante per la Prima Repubblica. Il delfino di Craxi sa di avere sulle spalle una somma segreta, il conto Protezione. L’eroe antimafia di Palermo è, probabilmente, l’unico che può traghettarlo fuori del craxismo, nel mondo nuovo si profila. Ma sarebbe ingiusto ridurre tutto al calcolo. <>, gli dà atto Maria. Giovanni Falcone immagina di poter avviare da Roma quel progetto che a Palermo gli è impedito: la Superprocura può diventare realtà nella capitale. E da subito cambia qualcosa d’importante, introducendo quel principio di rotazione in Cassazione che sfilerà la sentenza definitiva del maxiprocesso a Corrado Carnevale. Totò Riina e i suoi corleonesi hanno antenne lunghe nei palazzi, presagiscono la stangata che sta per piovere da Roma, capiscono come dietro quel verdetto micidiale che li seppellisce per sempre in galera ci sia la mano di Falcone, <>, si sfoga lui. (Da UN SIMBOLO DI SPETANZA di Goffredo Buccini)


da “Le Ultime Parole di Falcone e Borsellino”, a cura di Antonella Mascali  Il Diario

Il 24 giugno 1992 la giornalista de «Il Sole 24 Ore» Liana Milella pubblica alcuni appunti del diario di Giovanni Falcone, che il magistrato le aveva affidato a luglio del 1991 dicendole: «E per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli, non si sa mai». «Come in tante altre occasioni – racconta Liana Milella – si discute della sua decisione di lasciare il posto di procuratore aggiunto di Palermo. “Che ci rimanevo a fare? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi? No, meglio Roma. Qui al ministero c’è tantissimo da fare. E alla mafia, anche da qui, si può dare molto fastidio».

Primi di dicembre 1990: [Pietro Giammanco, Procuratore di Palermo, n.d.r.] si è lamentato col maggiore Inzolia [Vincenzo Inzolia, comandante di un reparto operativo dei Carabinieri di Palermo, n.d.r.] di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina.

7 dicembre 1990: [Giammanco, n.d.r.] ha preteso che Rosario Priore [giudice istruttore di Roma, n.d.r.] gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.
Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea [Ugo Giudiceandrea, Procuratore di Roma, n.d.r.] per la Gladio [struttura paramilitare clandestina, n.d.r.] prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.

10 dicembre 1990: [Giammanco, n.d.r.] sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione al capitano [Giuseppe, n.d.r.] De Donno [procedimento affidato a Enza Sabatino, n.d.r.], assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei Ce in tale previsione.

13 dicembre 1990: Nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella [Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana ucciso il 6 gennaio 1980 a Palermo, n.d.r.] mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infasti¬dito per il fatto che io e Lo Forte [Guido Lo Forte, pm di Palermo, n.d.r.] ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.

Dicembre 1990: Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina [Michele Reina, segretario provinciale della De ucciso il 9 marzo 1979, n.d.r.], Mattarella e La Torre [Pio La Torre, segretario regionale del Pei ucciso il 30 aprile 1982, n.d.r.], stamattina gli [a Giammanco, n.d.r.] ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pei) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al gi [giudice istruttore, n.d.r.] di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone [Giuseppe Pignatone, allora pm di Palermo e attuale procuratore di Roma, n.d.r.] insistono per richiedere al gi soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.

Dicembre 1990: altra riunione con lui [Giammanco, n.d.r.], con Sciacchitano [Giusto Sciacchitano, n.d.r.] e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra. [Giammanco, n.d.r.] Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio. Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’onorevole Avellone [Giuseppe Avellone, deputato democristiano, n.d.r.], a Pignatone, Teresi e Lo Voi [Vittorio Teresi e Franco Lo Voi, sostituti procuratori a Palermo, n.d.r.], a mia insaputa.

10 gennaio 1991: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del gi Grillo [Renato Grillo, n.d.r.] dei giornalisti Bolzoni e Lodato [Attilio Bolzoni de «la Repubblica» e Saverio Lodato de «l’Unità», n.d.r.], arrestati [il 16 marzo 1988, n.d.r.] per ordine di Curti Giardina [Salvatore Curti Giardina, n.d.r.] tre anni addietro con imputazione di peculato [per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonino Calderone su mafia-politica-imprenditoria, n.d.r.]. Il gi ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il pm Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una «ardita» ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca.

16 gennaio 1991: Apprendo oggi che, durante la mia assenza ha telefonato il collega Moscati, sost. proc. della Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo [Giammanco, n.d.r.] che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato [Teresa Principato, n.d.r.], naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente telefonando a Moscati.

17 gennaio 1991: Solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato [Roberto Scarpinato, n.d.r.] il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contraddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa nostra.

26 gennaio 1991: Apprendo oggi da Pignatone, alla pre¬senza del capo [Giammanco, n.d.r.], che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara [segretaria di Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, n.d.r.]. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta.

6 febbraio 1991: oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa.


Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice  di Pietro Grasso–  Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica

Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell’azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell’espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro  Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima.  

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA  Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L’FBI E CON RUDOLPH GIULIANI Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia.Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta ”camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA “GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l’associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell’organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l’inequivocabile contesto probatorio sull’esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell’associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell’area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall’organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l’assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all’improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un’adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell’identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant’è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l’uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l’inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all’interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, ”Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con…, Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l’estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell’omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA’ Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell’informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l’infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l’esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l’impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all’ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l’appartenenza. Si infranse così il mito dell’invincibilità e dell’impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l’aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l’opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL “METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana,  la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell’esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a  Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell’ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il”metodo Falcone”.


Io, uditore nella stanza del dottor Falcone Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò – me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo – adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene – ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo – che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione. E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” – quel che colpiva particolarmente – da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso – e le custodisco gelosamente – di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra – quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio “Affidatario”, noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.  (Di Vincenzina Massa – Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell’ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone)


Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie .da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte.  un ‘ indagine come tante è all’origine del grande processo che segna l’inizio della fine per i padroni della Sicilia, un giudice come tanti diventa il magistrato più amato e più odiato d’Italia.  Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata , in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo a mettere veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l’uomo che cambia Palermo e l’Italia.  Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi di e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. E’ celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba.  Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi per quello che fa o per quello che non fa. Ci riescono alle 17:56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso la città. A quell’ora, gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di mone Erice registrano un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci. Non è un terremoto . E’ una carica di cinquecento chili di tritolo che fe saltare in  aria GIOVANNI FALCONE.  (di  Attilio Bolzoni -Storia di Giovanni Falcone)


Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Ilda Boccassini.


Lo stile dell’uomo e del magistrato di Giovanni Paparcuri Più del metodo mi piacerebbe parlare dello stile, lo stile di uomo che faceva un mestiere difficile: il magistrato. E in questo stile bisogna aggiungerci il carattere, il modo di rapportarsi con la gente e principalmente con i mafiosi, con alcuni suoi colleghi forse ha peccato di ingenuità, cioè si è fidato di qualcuno di cui non doveva. Il metodo Falcone, comunque, era rappresentato anche dagli sguardi, da gesti e da quello che non diceva. Era coerente in tutto e per tutto, un vero uomo d’onore e come tale si comportava.
Tuttavia seguire la traccia del denaro era nato col Consigliere Chinnici, poi il dr. Falcone lo perfezionò e raggiunse importanti risultati, in primis sul processo Spatola, e sempre grazie a questo metodo scoprì attraverso un assegno la vicenda del falso sequestro Sindona.
Oramai è stato detto tutto sul metodo che usava il dr. Falcone, ma il suo metodo non serviva esclusivamente a scoprire intrallazzi, ma serviva pure per altro. Intanto si fidava del suo intuito e in poche battute si accorgeva se colui il quale aveva di fronte diceva la verità.
Quando conduceva un interrogatorio, come mi raccontava il maresciallo dei carabinieri, che era addetto alla verbalizzazione, non andava subito sull’argomento da trattare, ma con calma li invitava a raccontare la loro vita, fino a quando non arrivavano al punto di interesse, e qui li “fregava”, infatti spesso e volentieri da semplici testi li imputava per falsa testimonianza o per favoreggiamento.
Comunque valutava  sempre chi aveva di fronte, non scordando mai, anche se era un mafioso, che si trattava pur sempre di un essere umano. Basta leggere un passo di una sua intervista, se non ricordo male del 1985: “Comprendo il dramma umano di chi mi sta di fronte. Questo lavoro non può essere svolto se si è privi di umanità”. Era molto metodico, quasi maniacale, il pool antimafia si avvaleva per le indagini bancarie e patrimoniali di una squadra di sottufficiali della Guardia di Finanza diretti dal capitano Ignazio Gibilaro, struttura voluta proprio dal giudice e i loro uffici erano ubicati accanto al bunkerino, oggi Museo Falcone Borsellino. Ebbene, nonostante questo gruppo era deputato a fare ciò, il dr. Falcone spesso e volentieri controllava personalmente la documentazione bancaria e in particolar modo gli assegni, sequestrati a seguito di mandati di cattura o indagini, l’operazione più significativa e che, tra l’altro, mi riguarda personalmente fu quella denominata “Charlie”, la racconto perché mette in risalto una sfaccettatura forse poco conosciuta di un metodo che solo il dr. Falcone sapeva usare, perché non credo che altri avrebbero fatto la stessa cosa.
Dunque, una mattina il dr. Falcone mi chiamò con un tono un po’ diverso, e già dal tono capii che c’era qualcosa che non andava. Entrato nella sua stanza vidi una montagna di assegni e documentazione bancaria sulla sua scrivania, sequestrati, appunto, in seguito all’operazione Charlie, io pensai che voleva essere aiutato per la solita spunta, o che magari voleva che confrontassi alcune firme attraverso verbali di interrogatorio o di sommarie informazione, quindi mi misi di fronte a lui, invece mi disse di girare e di mettermi proprio al suo fianco, nelle sue mani teneva un assegno, che subito dopo mi mostrò, chiedendomi di chi era quella firma. La firma era di mio padre. In quel momento se mi avessero tagliato le vene non sarebbe uscita una goccia di sangue, e già pensavo: “Giovanni qua è finita la tua storia”. Comunque gli dissi che quella firma era di mio padre e l’assegno fu emesso come anticipo per la compravendita di un appartamento, il sogno di ogni famiglia. Dopodiché mi domandò se c’era il compromesso, “certo dr. Falcone”. Non aggiunse altro e quell’assegno lo rimise assieme agli altri, ma io impietrito non sapevo che fare, mi aspettavo altro, fino a quando non mi disse: “ancora qua è? vada a lavorare”, mentre stavo per uscire mi fece tornare indietro e con tono ancora più severo mi disse: Signor Paparcuri (non più papa) se lei è qui un motivo c’è, vada a lavorare”. Io tornai a lavorare e quell’assegno con la relativa documentazione l’ho microfilmato e inserito in banca dati: ho fatto semplicemente il mio dovere.
Per l’uomo-giudice non occorreva altro, si è fidato della mia parola e del suo istinto, il metodo Falcone era anche questo, ma guai a prenderlo in giro. Il suo metodo era anche quello di trasmettere a noi collaboratori il senso dello Stato; per noi era un punto di riferimento.
Un altro aspetto del suo metodo è rappresentato anche da altro, cioè alcune volte dal mio ufficio notavo che il dr. Falcone accompagnava alla porta alcune persone che lo venivano a trovare, e dall’espressione del suo volto e da alcuni comportamenti capivo se lo aveva fatto per educazione oppure perché lo aveva mandato letteralmente a quel paese, dove stava la differenza? Se la presenza era gradita accompagnava con lo sguardo e con un sorriso quella determinata persona fino a quando non scendeva le scale, viceversa se non era gradita, aveva il viso tirato e appena il visitatore varcata la soglia della porta blindata, la chiudeva immediatamente. Ecco, con parole mie ho cercato nel mio piccolo di raccontare il metodo Falcone, all’inizio ho specificato che era fatto anche da sguardi, ma quelli non li posso descrivere con semplici e freddi caratteri, occorrerebbero dei colori, ma non ci riesco, forse perché preferisco tenerli per me. Rimane comunque il fatto che seguire la traccia del denaro è un ottimo metodo per contrastare il malaffare, ma quello del dr. Falcone, sommandolo ad altri comportamenti, era uno stile, era lo stile del dr. Falcone, prima uomo e poi magistrato.


La mossa vincente di seguire il denaro  La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell’ 800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in  cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all’etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell’isola. E’ stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all’epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all’Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l’uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta – io – i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all’impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell’ omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all’intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti  soggetti legati a Cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l’assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l’acquista. Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni . Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro . Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all’estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell’incipit dell’ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all’estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.  (Di  Leonardo Guarnotta – Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni ’80 componente del pool antimafia dell’ufficio istruzione)


La collocazione dell’esplosivo avvenne a fine aprile La collocazione dell’esplosivo avvenne a fine aprile, questa volta di notte. Il buco era già stato scelto: era perfetto, stretto, piccolino, come mi aveva detto il mio parente. Poteva avere un’efficacia come quella che poi in realtà ebbe. Avevamo le idee abbastanza chiare. Sapevamo anche che l’auto di Falcone correva sempre nella corsia dei sorpassi.Misurammo l’autostrada, da un punto all’altro, con una corda. Dovevamo riempirne di esplosivo solo metà. Ci siamo riportati questa misura all’interno del cunicolo. Per arrivare a metà dell’autostrada bastava contare i tubi del cunicolo che misuravano un metro ciascuno e avevano un diametro di 50 centimetri. Nell’altra corsia non collocammo l’esplosivo: si solleverà solo per effetto dell’esplosione… Mettevamo nel conto anche il passaggio di qualche auto di <>. Ma era una possibilità su mille e ci augurammo che non si affiancasse nessuno alla macchina di Falcone. La consideravamo un’ipotesi molto remota perché, di solito, le macchine di scorta fanno allontanare le altre auto. Avevamo previsto anche questo. Quindi, fatti tutti questi conteggi, tutte le prove, sistemato il frigorifero, arriviamo ai primi di maggio. La notte in cui completammo l’operazione eravamo io, Gioè, Bagarella, Biondino, Salvatore Biondo il <>, Ferrante, Giovanni Battaglia, Pietro Rampulla e la Barbera. Abbiamo cominciato al tramonto. Avevamo i telefonini. Biondino e Ferrante, quando li avremmo chiamati, avrebbero dovuto portarci l’esplosivo che avevamo depositato nella villa di Troia.  (da HO UCCISO GIOVANNI FALCONE di Saverio Lodato)


Il primo lavoro era quello di riuscire a entrare nel cunicolo e vedere com’era fatto. Io ero un po stanco per tutto ciò che avevo fatto poco prima. Nel momento in cui provai a infilarmi nel cunicolo sentii un po d’affanno, mi mancò l’aria. E pensai: <>. La stessa cosa accadde a La Barbera. Nel frattempo arrivò Gioè, più riposato, più fresco. E disse: <>. Entrò al buio, tranquillo. Si infilò nel cunicolo e gridò: <>.
Ci eravamo procurati uno skateboard, quello che usano i ragazzini per giocare. Pensavamo di metterci i fustini sopra e di trasportarli in posizione orizzontale. All’inizio, abbiamo fatto una vita da cani. Prima entravamo con le mani davanti e i piedi che restavano fuori, spingendo i fustini uno a uno. Dentro il cunicolo c’era un tubo da un pollice che usavamo come guida e che ci consentì di individuare il punto esatto dove collocare l’ultimo fustino a metà dell’autostrada. Entravamo a turno, io, Gioè, La Barbera.
Bagarella e Battaglia, in quella fase, ci coprivano le spalle. Mentre noi lavoravamo, loro, armati, si guardavano intorno. Tant’è vero che arrivò una pattuglia dei carabinieri, ma erano due poveretti che forse erano andati a fare pipì. Scesero, si fermarono, fecero quello che dovevano fare e se ne andarono senza vederci perché in quella zona ci sono alberi e cespugli e noi ci eravamo nascosti in tempo. Hanno rischiato di essere uccisi, e l’attentato sarebbe saltato. Continuammo il nostro lavoro.
Avevamo piazzato solo tre fustini e con difficoltà enormi. Con le mani in avanti e la faccia a terra. Per non lasciare impronte, calzavamo guanti da muratore, quelli di cuoio. Fu a questo punto che mi venne un’idea. Dissi a Gioè:<<Perché non ci mettiamo con la pancia sopra lo skateboard? Mettiamoci al contrario: con i piedi all’interno e spingiamo i fustini con i piedi, con la testa verso l’uscita. Tanto il primo fustino che ci fa da segnale c’è già. Ci leghiamo una corda al torace. Basta strattonarla e tu capisci che è il momento di tirarmi fuori>>. E così abbiamo fatto. Appena arrivavamo in fondo, ci fermavamo e quello che era fuori tirava senza fare fatica e ci faceva uscire. Con i primi tre fustini avevamo impiegato un tempo infinito e con sforzi non indifferenti. Con gli altri, in un’oretta e mezzo, ci eravamo sbrigati. Infatti avevamo già posizionato il fustino più grosso con il detonatore dentro. Per evitare di rompere il filo del detonatore lo passammo sotto il tubo, in modo che non venisse danneggiato. Il filo attraversava i fusti, dal detonatore all’uscita.  Infine sistemammo altri fusti. Il cunicolo non lo chiudemmo. Mettemmo solo un po di erbacce. Non l’abbiamo murato perché avremmo suscitato sospetti. Poi c’era Troia che, abitando a Capaci, poteva controllarlo giornalmente. Fra l’altro, l’ultimo tratto del cunicolo era libero e quindi dall’esterno non si vedeva niente. Lì vicino c’erano dei materassi che servivano da punto di riferimento.  (da HO UCCISO GIOVANNI FALCONE – La confessione di Giovanni Brusca di Saverio Lodato)


In quel mese di maggio del 1992 a Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. E’ un bersaglio facile. Falcone passeggia per le strade della capitale senza poliziotti dietro, incontra amici, niente blindate, mitragliette, scorte. Poi, i mafiosi incaricati di ammazzarlo ricevono l’ordine di tornare in Sicilia. Giovanni Falcone deve morire ma non deve succedere a Roma, in un agguato con armi corte -pistole e fucili- dentro un delitto mafioso tradizionale. Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Nella dinamica che cambia si rintraccerà la matrice della strage, che non è solo mafiosa. Qualcuno indica ai boss il <> per farlo fuori. E’ una di quelle <> di cui Giovanni Falcone ha parlato per anni sui delitti politici di Palermo. Adesso tocca a  lui. (Da UOMINI SOLI di Attilio Bolzoni)

Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, Né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. GIOVANNI FALCONE

Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.

In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

(Giovanni Falcone)


PREMIO INTERNAZIONALE GIOVANNI FALCONE AL PROGETTO SAN FRANCESCO

PALERMO – PSF al XX Anniversario Strage di Capaci – 23.5.2012

PSF Falcone

Il Centro Studi sociali contro le mafie – Progetto San Francesco, con i consiglieri nazionali   Alessandro De Lisi, Claudio Ramaccini, Benedetto Madonia, Salvatore Teresi assieme al segretario generale della Cisl di Como,   è a Palermo per ricordare il lavoro giudiziario e culturale di Giovanni Falcone. Nel giorno del ventesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morí il magistrato palermitano con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Il Progetto San Francesco ha incontrato Maria Falcone all’arrivo delle navi della legalità. ” Avervi qui a Pelermo, insieme a tutti questi ragazzi, con questi giovani scout genovesi è per noi la prosecuzione di un percorso comune iniziato a Como, proseguito a Milano e che certamente ci vedrà uniti in tutt’Italia” Così Maria Falcone alla squadra del Progetto San Francesco, ricordando anche gli atti vandalici a danno della targa posta sul lungo lago lariano.

Cisl Como e Progetto San Francesco a Palermo con Maria Falcone al XX Anniversario della strage di Capaci

Maria FALCONE pianta l’Albero FALCONE e incontra gli studenti COMO 5.3.2011

 
a cura di Claudio Ramaccini – Resp. Comunicazione Centro Studi Sociali contro le mafie – PSF