DOPO FIRENZE BOMBE MAFIOSE A MILANO E ROMA

 

 

Tre bombe, una a Milano e due a Roma. È la notte del 27 luglio 1993, quando Cosa Nostra lancia l’ennesimo segnale del suo “ricatto” allo Stato: un’autobomba esplode in via Palestro, a Milano, vicino al Padiglione d’Arte Contemporanea, e poco più di 40 minuti dopo la Capitale viene svegliata dai boati di altre due Fiat Uno, cariche di pentrite e T4 e piazzate in pieno centro, una davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, l’altra a San Giorgio al Velabro, a pochi metri dal Campidoglio e dai Fori Imperiali. Nel capoluogo lombardo i morti sono cinque, mentre a Roma si contano 22 feriti.

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La strage di via Palestro: quando la mafia colpì il cuore di Milano  Alle 23.15 del 27 luglio del 1993, a Milano, un’autobomba esplode in via Palestro, davanti alla sede del Pac (Padiglione d’arte contemporanea). Con la strage di via Palestro la mafia colpisce il cuore del capoluogo lombardo, uccidendo cinque persone e ferendone dodici. A perdere la vita sono i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente della polizia locale Alessandro Ferrari e il venditore ambulante Moussafir Driss.

Gli attentati di Milano e Roma vengono realizzati nell’ambito  degli  attentati di stampo mafioso compiuti nel biennio 1992-1993 e che videro, tra le varie vittime, anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era il periodo in cui la mafia, dopo la conferma in Cassazione degli ergastoli nei confronti di Totò Riina e altri boss mafiosi, metteva in atto la sua dura rappresaglia contro l’inasprimento della lotta dello Stato contro Cosa nostra.

Risalgono sempre al 1993 la strage in via dei Georgofili a Firenze (cinque vittime), le autobombe esplose vicino alle chiese San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma, che esplosero quasi in contemporanea con quella in via Palestro senza fare vittime. Undici sono state le persone condannate in via definitiva per la strage di via Palestro nel corso di due diverse inchieste: Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e i fratelli Tommaso e Giovanni Formoso.



Gli attentati a Firenze, a Roma e a MilanoIl Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano devastato dall’esplosione in via Palestro 

A metà maggio, Lo Nigro, Giuliano e Gaspare Spatuzza provvidero a macinare e confezionare l’esplosivo necessario per gli attentati successivi, presso una casa fatiscente a Corso dei Mille messa a disposizione da Antonino Mangano (capo della Famiglia di Roccella)[5][6]; una parte dell’esplosivo venne affidata a Pietro Carra (autotrasportatore che gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), il quale lo occultò in un doppiofondo ricavato nel suo camion per trasportarlo a Roma, presso un magazzino sulla via Ostiense messo a disposizione da Emanuele Di Natale (amico di Scarano), dove Lo Nigro, Spatuzza e Benigno provvidero a scaricarlo e nasconderlo per utilizzarlo in un secondo momento[5][6].

Il 23 maggio Barranca, Lo Nigro, Spatuzza e Giuliano si portarono a Prato e vennero ospitati nell’appartamento di Antonino Messana (cognato di Giuseppe Ferro, capo della Famiglia di Alcamo), che inizialmente aveva rifiutato, ma poi aveva ceduto alle minacce di Gioacchino Calabrò (capo della Famiglia di Castellammare del Golfo) e Giorgio Pizzo (mafioso di Brancaccio)[5]: nei giorni successivi, Carra trasportò un’altra parte dell’esplosivo a Galciana (frazione di Prato), dove venne raggiunto da Lo Nigro, Spatuzza e Giuliano, i quali prelevarono l’esplosivo e lo scaricarono nel garage di Messana, accompagnati da Vincenzo Ferro (figlio di Giuseppe) con la sua auto[5]. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono una Fiat Fiorino e provvidero a sistemare l’esplosivo all’interno di essa sempre nel garage di Messana; la sera stessa Giuliano e Lo Nigro andarono a parcheggiare l’autobomba in via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, e procurarono l’esplosione[5], che provocò il crollo dell’adiacente Torre dei Pulci e l’uccisione dei coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia Nencioni (nove anni), Caterina Nencioni (cinquanta giorni di vita) e lo studente universitario Dario Capolicchio (ventidue anni), nonché il ferimento di una quarantina di persone[6]: la mattina successiva all’attentato di via dei Georgofili, due telefonate anonime giunsero alle sedi ANSA di Firenze e Cagliari che rivendicavano la strage a nome della sigla “Falange Armata”[19].

A fine maggio, Lo Nigro, Giuliano, Spatuzza e Salvatore Grigoli (mafioso di Roccella) macinarono e confezionarono altro esplosivo presso la casa fatiscente di Mangano e poi in un magazzino sempre a Corso dei Mille (preso in affitto da Grigoli stesso), dove, insieme all’esplosivo, tagliarono anche dei tondini di ferro che dovevano servire ad amplificare l’effetto distruttivo dell’ordigno[5].

A giugno, Spatuzza giunse a Roma per organizzare un altro attentato e compì un primo sopralluogo presso lo Stadio Olimpico, accompagnato da Scarano[5][6]. A metà luglio, Lo Nigro e Spatuzza, accompagnati da Scarano con la sua auto, effettuarono vari sopralluoghi nella zona di Trastevere durante la popolare “Festa de’ Noantri” per individuare un luogo da colpire e scelsero le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano[5]. Nello stesso periodo, Spatuzza e Giuliano si portarono ad Arluno, in provincia di Milano, dove Carra e Lo Nigro portarono l’altra parte dell’esplosivo, che provvidero a scaricare insieme a Giovanni Formoso (mafioso di Misilmeri)[6]; Spatuzza e Giuliano rubarono anche una Fiat Uno a Milano e la affidarono a Formoso per imbottirla di esplosivo[6].

Attentato al Palazzo del Laterano, facciata danneggiata e tutte le finestre divelte

Il 26 luglio, Lo Nigro, Spatuzza e Giuliano si portarono a Roma e nella serata del giorno successivo rubarono altre due Fiat Uno, accompagnati da Benigno e Scarano: le due auto rubate furono portate nel magazzino di Di Natale sulla via Ostiense, dove Lo Nigro e Benigno provvidero a imbottirle con l’esplosivo già conservato lì[5]; la sera stessa, Lo Nigro portò la prima autobomba davanti a San Giorgio al Velabro mentre Spatuzza, Benigno e Giuliano portarono la seconda a San Giovanni in Laterano, accendendo le rispettive micce:[5] le esplosioni, che avvennero a distanza di quattro minuti l’una dall’altra, provocarono ventidue feriti ma nessuna vittima, nonché gravi danneggiamenti alle due chiese.[6]

Mezz’ora prima degli attentati alle chiese di Roma, la Fiat Uno già rubata da Spatuzza e Giuliano esplose in via Palestro a Milano, uccidendo il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno (intervenuti per una fuoriuscita di fumo biancastro dall’autobomba) ed anche l’immigrato marocchino Moussafir Driss (che dormiva su una panchina) e causando il ferimento di dodici persone, nonché gravi danni all’adiacente Padiglione di arte contemporanea e alla Galleria d’arte moderna[6]: il giorno successivo, Spatuzza spedì due lettere anonime a nome della sigla “Falange Armata” alle redazioni dei quotidiani “Il Messaggero” e “Corriere della Sera” che minacciavano nuovi attentati ed altre vittime innocenti[5][6][ WIKIPEDIA

 

Cosa stava succedendo in Italia: gli anni delle bombe  Gli attentati della notte tra il 27 e il 28 luglio del ’93, due atti di terrore che colpiscono le città del potere economico e politico, sono il culmine dell’attacco mafioso che Cosa Nostra porta avanti contro lo Stato italiano cercando di indebolirlo per creare le condizioni adatte a una trattativa, quella che nei processi sarà poi denominata “Trattativa Stato-Mafia”. Tra il 20 e il 27 luglio, infatti, il Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria, ha prorogato molti provvedimenti di 41 bis in scadenza che riguardano detenuti mafiosi. Prima della notte del 27 luglio 1993, l’Italia ha già vissuto il terrore del tritolo: il 14 maggio un’autobomba diretta a colpire Maurizio Costanzo era scoppiata in via Fauro, a Roma, e otto giorni dopo un’altra deflagrazione a Firenze, in via dei Georgofili, vicino agli Uffizi, aveva ucciso cinque persone. Poi, il 2 giugno, davanti a Palazzo Chigi era stata trovata una Fiat 500 imbottita di esplosivo. Dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio del 1992, in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Cosa Nostra si sposta sul “continente” e, nell’anno del governo Ciampi, della dissoluzione della Dc e di Mani Pulite, colpisce Roma e Milano, quest’ultima al termine di una settimana difficile dopo il suicidio del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, e dell’imprenditore Raul Gardini. Il 2 novembre del 1993, il ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnoverà circa 300 provvedimenti al 41 bis in scadenza per “frenare la minaccia di altre stragi”.

L’attentato a Milano La prima delle bombe a esplodere il 27 luglio 1993 è quella a Milano. In via Palestro, davanti al Padiglione di Arte Contemporanea, la Fiat Uno carica di tnt deflagra alle 23:14: la quantità di esplosivo è tale che il motore della macchina viene trovato a quasi 300 metri di distanza. Le vittime sono un vigile urbano, Alessandro Ferrari, tre pompieri, Carlo La Catena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto, avvertiti poco prima da una telefonata anonima che aveva segnalato “del fumo uscire da una Fiat Uno parcheggiata in via Palestro”, e Moussafir Driss, un cittadino di origine marocchina che stava dormendo su una panchina dei giardini pubblici. Quando Ferrari cerca di aprire la portiera, tutti e cinque vengono investiti in pieno dall’esplosione. I feriti sono 12 e gravissimi sono i danni al patrimonio artistico: lo scoppio crea una sacca di gas nel sottosuolo che esplode nella notte investendo il Pac e la Villa Reale e distruggendo dipinti e sculture.

Le bombe a Roma Quarantatré minuti dopo l’attentato a Milano, alle 23.58, un’altra autobomba esplode davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano davanti agli uffici del Vicariato, e quattro minuti più tardi è la volta della deflagrazione della Fiat Uno piazzata all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro, a pochi metri dal Campidoglio e dai Fori Imperiali. I due attentati non provocano vittime, ma ci sono 22 feriti e gravissimi danni alle due chiese. Secondo Gaspare Spatuzza, uno dei protagonisti degli attacchi diventato, anni dopo, collaboratore di giustizia, l’obiettivo “erano i monumenti, non le vite umane. Quello che avvenne erano conseguenze non cercate”.

I processi e le condanne L’anno successivo agli attentati la Procura di Firenze acquisisce le indagini sulle esplosioni del capoluogo toscano, di Roma e di Milano. L’inchiesta si basa soprattutto sulle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e nel 1996 inizia il processo per le bombe del 1993. Nel filone principale vengono condannati all’ergastolo Leoluca Bagarella, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Filippo Graviano, Cosimo Lo Nigro, Antonino Mangano, Matteo Messina Denaro, Bernardo Provenzano, Gaspare Spatuzza, Salvatore Benigno, Gioacchino Calabrò, Cristofaro Cannella, Luigi Giacalone e Giorgio Pizzo, mentre ai collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Brusca, vengono inflitte pene più lievi che vanno dall’assoluzione ai 28 anni di carcere. Le posizioni di Salvatore Riina, Giuseppe Graviano, Alfredo Bizzoni e Giuseppe Monticciolo vengono stralciate dal processo principale e per loro la condanna di primo grado arriva nel gennaio del 2000: ergastolo per Riina e Graviano, sette anni per Monticciolo e un anno e mezzo per Bizzoni. Nel febbraio 2001 la Corte d’assise d’appello di Firenze conferma tutte le precedenti condanne e le assoluzioni di primo grado, annullando però l’ergastolo per Cristofaro Cannella che viene ridotto a trent’anni di carcere. Tutte le sentenze vengono poi confermate in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 2002. Per quanto riguarda la bomba di via Palestro, nel 2002 la Procura di Firenze dispone l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso, identificati da alcuni collaboratori di giustizia come gli esecutori materiali della strage di Milano. I due vengono condannati all’ergastolo nel 2003 dalla Corte d’Assise di Milano e la sentenza viene poi confermata nei due successivi gradi di giudizio.

Le indagini sui “mandanti occulti” Nel 1994, accanto all’indagine principale si sviluppa un filone parallelo volto a individuare eventuali concorrenti esterni a Cosa Nostra, i cosiddetti “mandanti occulti”. Nel 1996, dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti, vengono iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con le sigle “Autore 1” e “Autore 2” per concorso in strage, ma due anni dopo il gip di Firenze archivia l’inchiesta perché non è stata trovata la conferma delle affermazioni de relato (termine giuridico che indica una conoscenza indiretta dei fatti, ndr) dei collaboratori di giustizia. Nel 2003 viene indagato l’ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, accusato da un pentito di aver incontrato nel 1993 Bagarella, Messina Denaro e Graviano, ma anche questa inchiesta viene archiviata. Nel 2008, infine, la Procura di Firenze archivia definitivamente l’intera indagine sui “mandanti occulti”.

La riapertura delle indagini su Berlusconi  Nel 2017 a Firenze vengono riaperte le indagini su Silvio Berulusconi in seguito alla trasmissione, da Palermo a Firenze, delle intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano disposte dalla procura siciliana. Allora si era parlato di un “atto dovuto” per le dovute verifiche. Gli accertamenti, a due anni di distanza, nel 2019, non risultano ancora stati conclusi e il leader di Forza Italia è ancora indagato.