ONU: approvata all’unanimità la CONVENZIONE di PALERMO contro la criminalità transnazionale

 

 

 

 

 La CONVENZIONE di  PALERMO

 


E’ stata approvata all’unanimità da 190 nazioni la risoluzione italiana presentata a Vienna alla Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale (nota come Convenzione di Palermo). Si è discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo, il primo strumento legislativo universale, ratificato nel 2000, contro la criminalità organizzata transnazionale. La delegazione italiana era costituita dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti.

Tra i “suggerimenti” indicati nel documento italiano agli Stati:

  • l’adozione delle misure patrimoniali – sequestri e confische
  • l’invito alla costituzione di corpi investigativi comuni che facciano uso delle più moderne tecnologie (importanti soprattutto nelle inchieste sui traffici di migranti)
  • l’estensione della Convenzione di Palermo a nuove forme di criminalità come il cybercrime e i reati ambientali ancora non disciplinati da normative universali e il potenziamento della collaborazione tra gli Stati, le banche e gli internet providers per il contrasto alla criminalità transnazionale.

 

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale è un trattato multilaterale promosso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, adottata a Palermo nel 2000. Entrata in vigore il 29 settembre 2003, ad agosto 2017, la convenzione è stata ratificata da 188 Stati del mondo.

È formata essenzialmente dai Protocolli di Palermo, che sono:

  1. Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini
  2. Protocollo contro il traffico di migranti via terra, mare e aria
  3. Protocollo contro la fabbricazione e il traffico illeciti di armi da fuoco

Tutti e tre questi strumenti contengono elementi dell’attuale diritto internazionale sulla tratta di esseri umani, il traffico di armi e il riciclaggio di denaro. La Convenzione e i Protocolli cadono sotto la giurisdizione dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC).

La Convenzione di Palermo, che il 15 novembre compirà 20 anni, è l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionaleLa Convenzione, che per la prima volta dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari.

Nella risoluzione italiana approvata a Vienna si rende un “omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione“, si sottolinea “che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata” e si esprime “seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (COVID-19)“.

Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a “seguire il denaro” con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale.

Mafie, ok a Vienna a “risoluzione Falcone”. La sorella Maria: “Grande traguardo” Nella risoluzione si rende un “omaggio speciale al giudice, il cui lavoro e sacrificio ha aperto la strada all’adozione della Convenzione” 17 ottobre 2020 “Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie. Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato”. Lo dice Maria Falcone, presidente della Fondazione Falcone e sorella del magistrato ucciso il 23 maggio 1992, commentando l’approvazione all’unanimità da 190 nazioni la risoluzione italiana presentata a Vienna alla “Conferenza delle Parti” sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale (nota come Convenzione di Palermo). Delegazioni diplomatiche di tutto il mondo, esponenti delle istituzioni e della società civile, ong tra le quali la Fondazione Falcone, per quattro giorni, sotto l’egida dell’Unodc (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), hanno discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo, il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale ratificato nel 2000 e fortemente voluta dal magistrato ucciso dalla mafia il 23 maggio del 1992 a Capaci. Nella risoluzione si rende un “omaggio speciale al giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio ha aperto la strada all’adozione della Convenzione” e si afferma “che la sua eredita’ sopravvive attraverso l’impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalita’ organizzata”. E’ la prima volta che in una risoluzione internazionale si fa riferimento al contributo di una singola personalita’. La delegazione italiana era costituita dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti. “Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro Paese – prosegue Maria Falcone – sono recepite molte delle idee di Giovanni Falcone: dalla necessita’ di colpire i patrimoni illegali e di seguire i flussi di denaro, al potenziamento della cooperazione giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a piu’ Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni transnazionali di trafficanti di uomini. Quello raggiunto alla Conferenza delle Parti e’ un traguardo di cui essere orgogliosi”. La Convenzione di Palermo, che il 15 novembre compira’ 20 anni, e’ l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalita’ organizzata transnazionale. La ratifica da parte di 190 Paesi segno’ un traguardo importantissimo nella lotta alle mafie e l’avverarsi del sogno di Giovanni Falcone che dagli anni ’80 aveva compreso il rischio che la criminalita’ organizzata diventasse un problema globale l’importanza di un impegno corale degli Stati. LA REPUBBLICA

Ci sono le idee e le intuizioni di Giovanni Falcone, il suo metodo investigativo, la sua visione della lotta alle mafie nella risoluzione italiana approvata all’unanimità, a Vienna, dalle 190 nazioni che hanno partecipato alla Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale (Convenzione di Palermo). Delegazioni diplomatiche di tutto il mondo, esponenti delle istituzioni e della società civile, Ong tra le quali la Fondazione Falcone, per quattro giorni, sotto l’egida dell’Unodc (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), hanno discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo, il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale ratificato nel 2000 e fortemente voluta dal magistrato. ANSA


DOPO 20 ANNI, LA CONVENZIONE DI PALERMO CONTINUA NEL SEGNO DI FALCONE  Venerdì a Vienna si è chiuso l’incontro delle Nazioni unite contro la criminalità organizzata. Alcune risoluzioni italiane hanno rilanciato il contrasto all’economia criminale e il coinvolgimento della società civile nella lotta alle mafie Due risoluzioni italiane adottate in un’assemblea internazionale, una delle quali si inserisce nel solco dell’insegnamento di Giovanni Falcone. Venerdì 16 ottobre si è chiusa al Vienna International Centre, polo degli organismi internazionali presenti nella capitale austriaca, la Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale, una grande assemblea su quella che viene chiamata Convenzione di Palermo, il trattato internazionale contro le organizzazioni criminali nato esattamente venti anni fa. All’evento – organizzato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) – hanno partecipato circa mille persone in rappresentanza di 121 delegazioni da tutto il mondo per discutere dell’emergenza criminale a livello globale, diventata più grave per effetto dei mutamenti climatici, delle disuguaglianze economico-sociali, delle situazioni di instabilità politico-istituzionale e della pandemia. A rappresentare l’Italia c’erano le istituzioni (il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’ambasciatore italiano presso le organizzazioni internazionali di Vienna, Alessandro Cortese, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il consigliere giuridico Antonio Balsamo e il capo della Polizia Franco Gabrielli, per citarne alcuni), ma anche alcune associazioni che lavorano quotidianamente sul campo, come Libera che, già presente ai lavori per la Convenzione di Palermo nel 2000, ha condiviso la necessità di intensificare strumenti quali il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Tra le risoluzioni proposte dalla delegazione italiana e adottate a conclusione dei cinque giorni di confronto e dibattito tra gli Stati membri con il supporto delle organizzazioni della società civile accreditate, due quelle particolarmente rilevanti. Con la prima risoluzione si conferma la volontà da parte delle autorità italiane di facilitare l’attuazione degli obblighi – assunti da ciascun Stato membro – al fine di rendere operativo in maniera definitiva il Meccanismo di revisione della Convenzione approvato alla fine del 2018. Il meccanismo ha lo scopo di “radiografare” la legislazione dei 189 Paesi che hanno aderito alla Convenzione promuovendo lo scambio di informazioni per un migliore funzionamento della cooperazione internazionale, identificando i vuoti normativi e non solo che impediscono di contrastare con efficacia i fenomeni criminali e promuovendo le riforme necessarie. Alla seconda è affidato il compito di rafforzare il contrasto alla dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, che per la prima volta viene menzionata in modo esplicito con specifico riferimento alla strategia del “follow the money” nata in Italia con la legge Rognoni-La Torre ed estesa così su scala globale. Portavoce di quella strategia su scala globale era stato il giudice Giovanni Falcone prima della sua uccisione. La risoluzione ha uno “speciale tributo” a persone come lui: “La loro eredità continua a vivere attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata”. Si tratta di un atto non solo celebrativo, ma di forte portata innovativa, che dà grande spazio alla lotta alla criminalità organizzata come lotta per i diritti e le libertà. Non si tratta solo repressione, quindi, ma anche impegno per lo sviluppo e coinvolgimento della società civile. Oltre a rilanciare una cooperazione globale contro le conseguenze socio-economiche della pandemia e l’infiltrazione mafiosa e criminale nel mondo imprenditoriale, nell’ultima conferenza degli Stati parte dei giorni scorsi è stata valorizzata la forte esperienza italiana delle misure di prevenzione patrimoniali. Un contesto internazionale dove l’esperienza italiana assume centralità e si fa modello nella prospettiva della destinazione sociale dei beni confiscati a gruppi criminali e corrotti, logica ispiratrice della legge 7 marzo 1996, n. 109, fortemente voluta da importanti espressioni della società civile come Libera. Oggi il riutilizzo sociale dei beni confiscati entra a far parte del vocabolario di negoziazione internazionale, rappresentando la base per una molteplicità di ulteriori iniziative multilaterali e bilaterali su un tema come quella della amministrazione dei beni confiscati.


L’utilizzo sociale dei beni confiscati, una storia di 25 anni


Un percorso cominciato nel 1992 La via decisiva per combattere la criminalità organizzata presuppone una collaborazione internazionale energica ed efficace e richiede la predisposizione di una legislazione internazionale adeguataGiovanni Falcone Durante la prima riunione della Commissione sulla prevenzione della criminalità e per la giustizia penale delle Nazioni unite, avvenuta un mese prima della strage di Capaci, il capo della delegazione italiana era Giovanni Falcone: fu in quell’occasione che il magistrato antimafia lanciò l’idea di una conferenza internazionale incentrata sulla cooperazione multilaterale nella lotta al crimine organizzato affermando con forza che “la via decisiva per combattere la criminalità organizzata presuppone una collaborazione internazionale energica ed efficace e richiede la predisposizione di una legislazione internazionale adeguata”. Anno cardine per tante questioni nazionali e non solo, nel 1992 viene infatti approvato il Trattato di Maastricht che avvia formalmente l’esistenza della Comunità europea gettando le basi per la moneta unica, l’euro, e ampliando in maniera significativa gli ambiti di cooperazione fra i paesi europei, a partire dalla cittadinanza europea, una politica estera e di sicurezza comune e una cooperazione più stretta a livello giudiziario e di polizia in materia penale. Si arrivò così alla Conferenza ministeriale mondiale sulla Criminalità organizzata, tenuta a Napoli nel 1994, durante la quale vennero adottati la Dichiarazione politica e il Piano di azione globale contro il crimine organizzato transnazionale. Da qui l’idea di una Convenzione globale per cui si susseguirono una serie di seminari regionali per discutere innanzitutto di una definizione comune di criminalità organizzata transnazionale. Nel 1998 venne creato il Comitato intergovernativo per la redazione della Convenzione internazionale globale contro il crimine organizzato transnazionale, nonché per l’elaborazione di strumenti pattizi internazionali concernenti il traffico di donne e bambini, il traffico illecito di armi e munizioni, e il traffico e trasporto illegale di migranti, anche via mare (i cosiddetti “Protocolli”). Nel luglio del 2000 il Comitato approvò la Convenzione e alla fine dello stesso anno venne sottoscritta durante la conferenza Onu che si tenne dal 12 al 15 dicembre a Palermo, città simbolo della lotta alle mafie. Dopo più di un decennio di dibattiti, incontri e risoluzioni internazionali, nasceva il primo testo comune di riferimento nella lotta alla criminalità organizzata transnazionale.

La Convenzione segna uno slancio politico da non leggere come un punto di arrivo per il contrasto al crimine organizzato globale, bensì un segnale di partenza per tutti i Paesi che fino a quel momento non avevano previsto misure di contrasto e prevenzione coordinata, ai quali ora era per la prima volta dato uno strumento vincolante di giurisdizione internazionale. Di fatto la Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale si sta sempre più dimostrando l’unico vero strumento globale di cooperazione giudiziaria, come commenta in una nota recente il ministero della Giustizia. Più attuale oggi di quanto non fosse all’inizio, la Convenzione fornisce strumenti vincolanti ai Paesi aderenti (190 su 193 che fanno parte dell’Onu) per prevenire e combattere tutte le forme di criminalità organizzata. Si arriva poi nel 2015 alla Dichiarazione di Doha , elaborata durante l’ultimo World Crime Congress nella capitale del Qatar, che ha messo al centro il ruolo dello stato di diritto e segnato un passo decisivo nel dibattito internazionale intorno al tema del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale allargando la lente di analisi del fenomeno, ma soprattutto introducendo il ruolo chiave di attività culturali, sportive, artistiche e sociali promosse in primis dalla società civile come anticorpi del sistema criminale.


All’estero l’antimafia c’è, pensare il contrario è dannoso, sostiene la studiosa Anna Sergi


Una prospettiva per il domani  I corpi investigativi comuni, i magistrati di collegamento, gli accordi per l’utilizzazione di tecniche investigative speciali nelle indagini sulla criminalità transnazionale, la valorizzazione del ruolo della Convenzione di Palermo nel contrasto alle forme nuove ed emergenti di criminalità, come il cybercrime e i reati ambientali, la strategia delle indagini finanziarie di contrasto a criminalità organizzata, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo fino all’utilizzo e il rafforzamento di strumenti come il portale “Sherloc” (acronimo di Sharing electronic resources and laws on crime): sono solo alcuni dei punti al centro del rafforzamento di una cooperazione internazionale più che mai necessaria e capace di informarsi e formarsi su fenomeni in continua evoluzione. Una conferenza che si chiude con una sfida tanto ambiziosa quanto complessa, mettendo al centro una Convenzione nata venti anni fa e che oggi ha bisogno di ritrovare linfa vitale sia nelle politiche di contrasto di ogni Paese, sia in quelle che ne rafforzano le maglie democratiche, a partire dalla promozione di misure di welfare, istruzione e sanità.  Per approfondire: The promise of Palermo. A political history of the UN Convention against Transnational Organized Crime LA VIA LIBERA 20.10.2020

Di Leonardo Guarnotta  La Convenzione di Palermo  La Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato internazionale, in vigore dal 2003, ha trovato la propria ragion d’essere in quelle ineludibili esigenze di contrasto della criminalità organizzata, in quanto fenomeno transnazionale, che riguardano. come è noto, non soltanto il profilo europeo ma anche, in una prospettiva più vasta, l’intera comunità internazionale. Non vi è chi non veda come, ormai, il crimine organizzato abbia assunto la dimensione di un fenomeno di portata mondiale, contro il quale nessuna iniziativa di contrasto e di prevenzione potrebbe raggiungere soddisfacenti, positivi risultati ove non fosse frutto condiviso di una coordinazione e di una maggiore armonizzazione, in materia di lotta contro la criminalità organizzata, tra più Stati a livello non solo europeo ma addirittura universale. L’esperienza dell’ONU verso una lotta coordinata al crimine organizzato si è condensata e realizzata nella Convenzione siglata a Palermo nel dicembre 2000 da 189 su 193 paesi con la quale si è inteso ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato. Forti di questa consapevolezza le Nazioni Unite si sono impegnate nell’adozione di strategie di contrasto su scala globale e, a seguito di un cammino a tappe graduali, sono pervenute all’elaborazione di veri e propri “standard normativi”, destinati a costituire il minimo comune denominatore dei sistemi penali degli Stati membri La Conferenza di Palermo si è adoperata, quindi, nell’opera di definizione del concetto di “gruppo criminale organizzato” inteso come un “gruppo strutturato che persegue reati gravi”, una formula questa che, in realtà, è stata ritenuta non molto chiara e viziata da eccessiva vaghezza. Ma la scelta operata dalla Convenzione si deve probabilmente all’influenza che in essa ha avuto la tradizione dei sistemi penali di Common Law, nei quali la figura della Conspiracy abbraccia tanto le forme di mero accordo volto a compiere un reato quanto la realizzazione di uno o più reati da parte di un gruppo organizzato. Una duplicità riprodotta perfettamente nella definizione delle condotte incriminate dal testo della Convenzione a titolo di partecipazione all’organizzazione criminale. Tuttavia, nel complesso, la definizione della Convenzione è apparsa soddisfacente sia perchè esclude che sia necessaria la rigida definizione di ruoli e compiti all’interno del gruppo criminale organizzato sia perchè può attagliarsi anche a fenomeni di organizzazione criminale diversi dal gruppo strutturato e consistere in “aggregazioni mutevoli di soggetti volti a perseguire le più svariate attività criminose”.

In sostanza la Convenzione ONU richiede per la punibilità dei singoli la partecipazione diretta alle attività criminali, la suddivisione dei compiti fra almeno tre sodali, la previsione del mero accordo tra gli stessi, finalizzato alla perpetrazione dei reati, la conoscenza da parte degli associati della attività illecite svolte dal gruppo o delle finalità illecite derivanti da esse. E’ palese l’intento della Convenzione di ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato. Era assolutamente indispensabile, quindi, che tale modello avesse piena attuazione negli ordinamenti nazionali perchè l’importanza della Convenzione risiede soprattutto nel messaggio che ha inteso trasmettere e cioè che la sua ragion d’essere non risiede tanto nell’introduzione di questa o quella singola misura di contrasto più o meno innovativa, più o meno efficace, quanto nell’avere ricercato e, in gran parte ottenuto un linguaggio comune nell’azione di contrasto al crimine organizzato.   Non c’è chi non veda, dunque, come la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale sia il principale strumento internazionale nella lotta contro tale crimine e rappresenti un importante passo avanti nella strategia di contrasto allo stesso perchè ha significato il riconoscimento da parte degli Stati membri della gravità dei problemi posti da una criminalità organizzata in tutte le sue articolazioni: dal terrorismo alle mafie, dal traffico di esseri umani al riciclaggio, dal traffico di armi a quello di sostanze stupefacenti.

Ma sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che la lotta al crimine organizzato possa conseguire positivi risultati se non a medio-lungo termine perchè la ciminalità organizzata vive ed opera pienamente inserita nel XXI secolo ed è in grado di sfruttare sino in fondo tutte le opportunità offerte dal progresso tecnologico. Con l’abbattimento delle frontiere e la conseguente globalizzazione, beni, servizi e capitali circolano con grande facilità in ogni parte del mondo ed in Europa tutte le persone, anche quelle dedite ad attività illecite, possono liberamente spostarsi da uno Stato ad un altro dell’Unione, praticamente senza limite alcuno.      

Ed allora, era assolutamente necessario ed indefettibile che le Istituzioni adottassero una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare e aggredire l’oligopolio criminale.  

Senonchè, a dispetto dell’internalizzazione e globalizzazione del crimine organizzato, sembra persistere, purtroppo, un carattere ancora prevalentemente e prettamente nazionale e nazionalistico delle normative penali finalizzate all’azione di contrasto.

Si tratta di una differenza o disomogeneità dei sistemi penali vigenti nei vari Paesi interessati alla repressione del crimine organizzato che, non solo non facilita e non agevola, ma anzi inceppa l’efficacia e la tempestività degli interventi preventivi e repressivi sino a narcotizzarli e sclerotizzarli.

Addirittura, la mancanza di cooperazione e coordinamento può persino operare come fattore criminogeno.

Ed invece, in nessun altro campo come quello del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale occorre che le Istituzioni dei Paesi interessati adottino una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare ed aggredire l’oligopolio criminale.

Sottoscrivendo la Convenzione finale, circa due terzi degli Stati aderenti all’ONU hanno assunto il formale impegno di inserire nel proprio ordinamento una serie di misure “pensate” con riferimento alla realtà delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza investigativo-giudiziaria acquisita e maturata in decenni di lotta alla organizzazione criminale di tipo mafioso in particolare nel nostro paese, ma più in particolare in Sicilia.

La conferenza di Palermo, dunque, ha posto le basi per una solida piattaforma di integrazione internazionale nella lotta al crimine organizzato, premessa necessaria per rompere il muro dei confini, sino ad allora invalicabili, per le indagini e per la riduzione degli interstizi e delle zone grigie della “modernità” entro cui le mafie sanno bene incunearsi.

Conclusivamente, l’impegno dell’Unione Europea nella lotta alla criminalità appare ispirato da due linee guida.

La prima segnala che per una efficace lotta al crimine organizzato occorrono il dialogo e l’intesa tra gli Stati e con le Istituzioni comunitarie, non essendo più giustificabile, se non tollerabile, l’autarchia nelle scelte di politica criminale.

La seconda indica che nei rapporti di assistenza tra gli Stati è il principio dell’affidamento e non quello della indifferenza preconcetta e tanto meno della ostilità, a dover prevalere.

Ed in applicazione di tali linee che da tempo, in Europa, è in corso un processo lineare ed univoco di rafforzamento della cooperazione investigativa e giudiziaria tra gli Stati.

L’ultima tappa di questo percorso è stata Vienna dove, nel mese di ottobre 2018, si sono ritrovati i rappresentanti di 189 Paesi per fare il punto sulla sua applicazione.

Al termine dei lavori, è stata approvata all’unanimità la risoluzione che apre ad una revisione dell’accordo e ne rende ancora più stringenti gli impegni con la creazione di meccanismi di controllo volti ad accertare che tutti gli Stati abbiano adeguato i loro codici a quanto previsto dalla Convenzione.

Uno strumento prezioso per colmare le ultime lacune legislative e per rafforzare la collaborazione tra le forze di polizia e le magistrature di tutte le Nazioni che Giovanni Falcone già 40 anni fa auspicava.


Il sogno di Falcone: l’alleanza degli Stati contro la criminalità organizzata transnazionale  Primissimi anni ’80. Ufficio di Istruzione Penale del Tribunale di Palermo. In un contesto storico-giudiziario fosco, oscuro in cui, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni si affermava che la mafia non esistesse in quanto mera invenzione giornalistica o, addirittura, si sosteneva da altri che fosse un espediente mediatico del P.C.I. per screditare agli occhi dei cittadini la D.C., nasceva il pool antimafia dell’Ufficio di Istruzione di Palermo, un organo giudiziario non previsto dall’ allora vigente codice di procedura penale (ma posto in essere avvalendosi del disposto dell ‘art. 17 delle Disposizoni Regolamentari del codice Rocco), ideato e realizzato da due consiglieri dirigenti di quell’Ufficio, dapprima il compianto dott. Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983 per mano di Giovanni Brusca, potente “uomo d’onore” della “famiglia” di San Giuseppe Jato) e, dopo, dal suo successore, l’indimenticato dott. Antonino Caponnetto (deceduto nel 2002), i quali concepirono, Rocco Chinnici, ed attuarono, Antonino Caponnetto, il disegno, del tutto innovativo, di affidare le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso ad un gruppo di giudici di modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma bensì portato a conoscenza degli altri colleghi.

La strategia che si era inteso attuare era, dunque, quella di formare un drappello di magistrati, all’inizio davvero sparuto, che esperisse il primo e serio tentativo di ripristinare, nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, il primato del diritto e della legalità contro la violenza, l’arroganza e la tracotanza, divenute intollerabili, della criminalità organizzata di tipo mafioso, la “cosa nostra” come poi si apprenderà chiamarsi dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta, storico collaboratore di giustizia, carismatico “uomo d’onore” della “famiglia” palermitana di Porta Nuova.

Le complesse indagini esperite ebbero ad oggetto gli anni settanta ed i primi anni ottanta sino al 1989; insieme con l’eliminazione di magistrati e funzionari dello Stato, le sentenze-ordinanze emesse dal pool hanno preso in considerazione le “attività” di “cosa nostra” quali il traffico di sostanze stupefacenti, i sequestri di persona, le rapine, le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè del pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la “giurisdizione” delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.

Le indagini condotte dal pool antimafia hanno consentito, inoltre, di far luce sulla cd. guerra di mafia combattuta tra il 1980 ed il 1983 nel corso della quale vennero uccisi, ad opera dei corleonesi di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, nonché vennero consumati numerosi atroci delitti, una barbarica scia di vendette che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di una fazione di mafia, quella del c.d. clan dei Corleonesi.

Delitti che, purtroppo, sono stati considerati da troppi con indifferenza, oggetti del consumo delittuoso, quasi fossero una naturale conseguenza di un gioco violento che, comunque, andava consumato, o, ancora peggio, con la soddisfazione del cinismo, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati, cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori, o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.

Il maggiore merito della incessante, complessa, articolata e difficile attività di indagine del pool antimafia è stato, dunque, quello di definire, una volta per tutte, la struttura interna dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e tale impostazione è stata recepita nella sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992 con la quale si è formato il giudicato sul primo grande processo al Ghota mafioso, celebratosi a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987, a tutt’oggi il più grande processo mai celebrato al mondo contro appartenenti alla criminalità organizzata.

Venne, così, incontrovertibilmente e definitivamente accertato che “cosa nostra” è un vero potere criminale che si muove come anti-stato nello Stato, alla cui sicurezza attenta, apportandovi grave offesa con la commissione di efferati delitti che mirano a privarlo dell’opera di fedeli servitori (poliziotti, magistrati, funzionari pubblici) e mina alle sue fondamenta l’amministrazione della giustizia, l’ordine costituito e la sicurezza pubblica in molte zone del nostro paese, sì da fare apparire affievolito, se non addirittura compromesso, il ruolo delle Istituzioni della Repubblica, con effetti eversivi sulle Istituzioni stesse e sulla società civile.

Pur in presenza di tale drammatica situazione, maturò la consapevolezza che sarebbe stata necessaria l’adozione non di provvedimenti eccezionali, nel senso di una deroga ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ma di straordinarie misure politiche, amministrative e legislative che, sempre muovendosi nell’ambito dei principi costituzionali, consentissero alla magistratura ed alle forze dell’ordine di contrastare in modo più adeguato e stroncare la minaccia che la criminalità organizzata rappresentava per l’ordine costituito e per la sicurezza dei cittadini.

Ma siffatta ardua impresa non poteva essere opera soltanto della magistratura e delle forze di polizia ma frutto di un condiviso, concorde e solidale impegno di tutte le componenti della società civile. Prevenzione e repressione a nulla sarebbero valse se non accompagnate da una profonda e sentita rivolta morale, cui però lo Stato avrebbe dovuto garantire un sufficiente grado di sicurezza e di operatività.

Dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio c’è stata una grande mobilitazione, frutto dell’emozione suscitata da quegli eventi, da parte della società civile, quella avvertita, quella che rispetta le regole, quella che informa la sua condotta alla coltura e che non può non desiderare, con tutte te sue forze, che venga finalmente conseguita la definitiva liberazione da quelle gramigne infette, da quei bubboni malefici che si chiamano “cosa nostra”, “ndrangheta”, “camorra”, “sacra corona unita”, associazioni per delinquere di tipo mafioso, operanti anche in altre regioni dell’Italia, contro le quali non è sufficiente l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura ma è anche e soprattutto necessario non l’interessato opportunismo di sedicenti paladini dell’Antimafia di cartone, dell’Antimafia parolaia, dell’Antimafia di chi cerca poltrone o vuole lucrare benemerenze ma bensì l’impegno serio, concreto, costante, diuturno delle componenti sane della società civile, di tutta la società civile, quella che denuncia il pizzo, quella che si costituisce parte civile in processi di mafia, quella che organizza convegni, come quello che stiamo vivendo, per farsi carico della protesta e capire come bisogna comportarsi, perché, è bene che lo si tenga presente una volta per tutte, la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma ha travalicato i confini della Trinacria per espandersi in Italia là dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reticoli di contiguità e connivenze ma anche di collusioni e complicità, grazie alle quali non ha quasi più bisogno di ricorrere alla violenza o alla intimidazione; ecco perché non bisogna mai, mai dimenticare che la mafia è una società per azioni criminali con sede illegale a Palermo e con filiali nel resto della Sicilia, in molte Regioni italiane e in alcuni paesi del mondo e che la società civile non si libererà dalla soffocante, non più tollerabile presenza della mafia, antistato nello stato, che inquina il tessuto socio-economico-imprenditoriale, sino a quando sarà auto-indulgente e tollererà facilmente al proprio interno, atteggiamenti paternalitistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e “alegali”; insomma atteggiamenti mafiosi e paramafiosi.

È necessario che si faccia strada la convinzione che la cultura della violenza, del privilegio e della sopraffazione debba essere combattuta sia sul versante repressivo, grazie al costante impegno delle forze dell’ordine e della magistratura, sia sul versante preventivo mediante la costante ricerca di un radicate cambiamento culturale che consenta il riconoscimento e l’affermazione di irrinunciabili valori quali la democrazia, la legalità, la solidarietà, la pace e la giustizia.

Le cronache giudiziarie degli ultimi trent’anni, i processi a carico di importanti uomini delle istituzioni, basti ricordare quelli celebrati a carico di un sette volte primo ministro, nei confronti di un governatore della Sicilia e di alti funzionari di polizia, per limitarci a processi celebrati a Palermo e definiti con sentenze passate in giudicato, di condanna o di non doversi procedere perchè estinto il reato per intervenuta prescrizione, sono la cartina di tornasole di una pericolosissima commistione di interessi economici e di potere tra “cosa nostra” e rappresentanti delle istituzioni, grazie alla quale è possibile ai mafiosi infiltrarsi in nuovi settori economici ed imprenditoriali conseguendo in tal modo il controllo sempre più soffocante del territorio.

Altrimenti, come sarebbe stato mai possibile a Riina e Provenzano, capi dei capi quasi analfabeti, impegnarsi anche in attività legali (imprese, appalti e altro) senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, delle imprese e delle istituzioni?

E’ l’amara conferma di un potere mafioso in continua espansione come rilevato da numerose operazioni, condotte dalla magistratura nel Lazio, in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna che hanno consentito di constatare, anche in queste regioni, la inquinante presenza di un “fenomeno” politico-mafioso già ben noto agli inquirenti che operano al Sud. Il rapporto tra mafie e politica è, dunque, un tema sempre più di grande attualità ed è indubbiamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia dei partiti e delle istituzioni della nostra nazione.

Tornando alle vicende del pool antimafia, per quello che interessa in questa sede, in quella iniziale, straordinaria stagione storica e giudiziaria, il consigliere Rocco Chinnici assegnava a Giovanni Falcone, giudice istruttore da poco approdato a quell’ufficio, l’incarico di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano, su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano e prosperavano, commerciando in armi ed eroina, ben cinque “famiglie” mafiose.

Nel corso di quel procedimento, a carico anche di altri soggetti, veniva accertato come alcune “famiglie” mafiose palermitane acquistassero in Turchia ingenti quantità di morfina base, la trasportassero a Palermo, dove veniva trattata in clandestine “raffinerie” e trasformata in eroina purissima, che veniva commercializzata preferibilmente a New York ma anche in altre città statunitensi ed il cui ricavato era oggetto di transazioni economiche presso istituti di credito svizzeri.

Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a “cosa nostra”, fece comprendere a Giovanni Falcone che la strategia sino ad allora seguita nel contrasto giudiziario alla criminalità organizzata andava abbandonata perchè del tutto inidonea a conseguire risultati soddisfacenti.

Anche perchè, per moltissimi anni, la lotta alla mafia era stata quasi sempre emergenziale consistendo in estemporanee iniziative susseguenti a singoli fatti delittuosi come ad esempio la istituzione della commissione parlamentare antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco, detto il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”.

Per un lungo lasso di tempo, quindi, le singole manifestazioni criminose erano state viste in una ottica parcellizzante e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso di certo sottovalutato forse inconsapevolmente ma certo colpevolmente da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene e preoccuparsene.

Eppure, nel mese di marzo del 1973, Leonardo Vitale, il c.d. protopentito, giovane aspirante “uomo d’onore” e nipote del capo-mandamento Titta Vitale, aveva delineato, in un verbale di sommarie informazioni a firma dell’allora commissario della P.S. Bruno Contrada, l’organigramma della associazione mafiosa dell’epoca, naturalmente a livello delle sue ancora frammentarie ed incomplete conoscenze, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue all’associazione quali, ad esempio, Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale e poi anche sindaco di Palermo sia pure per pochi giorni, anticipando di oltre dieci anni le analoghe, ma più precise e numerose rivelazioni di Tommaso Buscetta, contenute nel verbale del suo primo interrogatorio reso in Italia a Giovanni Falcone il 16 luglio 1984 e nei successivi.

Ma Leonardo Vitaleessendo stato ritenuto non completamente sano di mente, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato in un manicomio giudiziario dal quale, scontata la pena irrogatagli, verrà dimesso nel dicembre del 1984 mentre nessuna o quasi iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone dallo stesso chiamate in reità e correità. Qualche giorno dopo il suo rientro a Palermo, la mafia punirà con la morte il suo “tradimento”. Dunque, non avere prestato la dovuta attenzione, per usare un eufemismo, alle propalazioni di Leonardo Vitale ha ritardato di oltre dieci anni l’azione di contrasto a “cosa nostra” ed è stata una grande occasione colpevolmente persa. In una stagione giudiziaria, quindi, in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di “cosa nostra” erano ancora frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro, Bari e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), un grandissimo e determinante contributo alle indagini svolte dal pool anti-mafia è stato fornito dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, “uomini d’onore” transitati dalla parte dello Stato, i quali hanno adottato tale decisione perché non hanno più creduto in “cosa nostra” ed hanno compreso che non valeva la pena di prestare ossequio ai principi di una organizzazione che aveva rivelato il suo vero volto di criminalità della peggiore specie e nei cui “valori” (da intendersi, ovviamente, in senso deteriore) più non si riconoscevano.

Ma, attenzione, per sgomberare il campo da ogni malinteso, va sottolineato che non deve ritenersi che alcuno dei predetti sia stato spinto a collaborare perché folgorato “sulla via di Damasco” come Saulo (poi diventato San Paolo) o perchè convinto da ragioni morali o ideali né che abbia aderito a “cosa nostra” sull’erroneo presupposto che si trattasse di una organizzazione a difesa dei deboli.

Si vuol dire, soltanto, che la degenerazione dei principi tradizionali di “cosa nostra” (le cd. “regole del gioco”) e la presa del potere da parte di spietati e feroci assassini (i “corleonesi” di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella) senza alcun vincolo solidaristico se non quello del lucro, hanno fatto comprendere che il rispetto dell’omertà era ormai un non senso.

E l’esperienza maturata al riguardo convinse i componenti del pool di essere nel vero nel ritenere che, ormai, la omertà era sempre meno il frutto di una convinta adesione ad una determinata sub-cultura e, sempre più, il frutto del terrore, della paura, della violenza e dell’intimidazione da un lato, e del tornaconto egoistico e di mire utilitaristiche dall’altro.

Le propalazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, supportate dagli obiettivi riscontri cercati sino allo sfinimento ed acquisiti nell’assoluto rispetto delle norme penal-processuali, hanno reso possibile, da un lato, infrangere il muro dell’omertà, che ha costituito uno dei pilastri portanti della stessa esistenza di “cosa nostra” da oltre centocinquanta anni, e dall’altro, di acquisire la reale conoscenza del fenomeno mafioso nella sua interezza, consentendo di alzare il sipario su di uno scenario fino ad allora soltanto immaginato, intuito o intravisto.

Istruendo il procedimento a carico di Rosario Spatola ed altri, Giovanni Falcone comprese ben presto che la mafia era anche un fenomeno criminale internazionale, che la sua potenza economica aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito, dovunque si trovassero, nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga.

Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari degli Stati a livello europeo e mondiale, in una ottica di prevenzione e di contrasto alle più svariate attività criminali.

Nel mese di ottobre del 1982 una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione “Criminalità organizzata” del Federal Bureau of Investigation, nella sede della sua accademia a Quantico in Virginia.

Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone, la cui presenza fu l’occasione propizia per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con quelle autorità giudiziarie che, all’epoca, erano impegnate nell’inchiesta condotta dall’F.B.I, avente ad oggetto un grosso traffico di droga, denominata Pizza Connection, perchè pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina da Palermo.

In quegli anni di febbrile attività investigativa, ben presto si intensificarono le rogatorie negli U.S.A. di Giovanni Falcone e degli altri componenti del pool antimafia e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo al fine di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti ma anche di trarre insegnamenti dall’esperienza maturata, già allora, da investigatori e funzionari dell’ F.B.I, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della D.E.A., l’agenzia anti-droga statunitense, i quali avevano scoperto un maxi-traffico di eroina tra la Sicilia e gli U.S.A. gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.

Fu così possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, Procuratore Distrettuale e poi sindaco di New Jork, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’ F.B.I e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan,

Nel corso delle numerose regotarie a New Jork, si aprì agli occhi di Falcone un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia grazie, anche, alla esperienza maturata in tema di collaboratori di giustizia (figure introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) ed alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di strumenti di lavoro quali, ad esempio, le agende elettroniche, cioè i computers, mentre Falcone, gli altri giudici del pool ed i pubblici ministeri ancora annotavano i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su calapini ed agende cartacee.

Ma, soprattutto, l’indagine condotta dagli investigatori statunitensi, chiamata “pizza Connection”, fornì a Giovanni Falcone preziosissimi elementi utilizzati nel c.d. “maxi-processo” che si è concluso con la irrogazione di 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione e molti milioni di lire di pene pecuniarie

Trovò, così, conferma l’intuizione di quel giudice non “visionario” ma lungimirante sulla necessità della collaborazione tra gli Stati per fare fronte, sia sul versante preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, come ora, facevano “affari” anche fuori i confini nazionali spartendosi un mercato miliardario.

Sulla scorta dell’esperienza maturata negli U.S.A.e di quella acquisita nel pool antimafia, Giovanni Falcone, lasciate le funzioni Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo ed assunte quelle di responsabile della Direzione degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia (chiamatovi da Claudio Martelli, titolare di quel Dicastero), si adoperò fattivamente, grazie alle opportunità offerte da quel privilegiato osservatorio, affinchè il legislatore adottasse, provvedimenti legislativi finalizzati a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di innovativi strumenti di contrasto al crimine organizzato.

In particolare:

  • è stato costituito presso alcune Procure della Repubblica la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A) in cui esercitano le loro funzioni magistrati scelti in relazione alle loro specifiche attitudini ed esperienze professionali, sulla falsariga dell’F.B.I. e della D:E.A. Nonché del vecchio pool antimafia del soppresso ufficio di istruzione a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito;
  • è stata istituita la figura del Procuratore Nazionale Antimafia le cui funzioni consistono nell’attività di impulso e di coordinamento delle attività di indagine in tutto il territorio nazionale in relazione ai procedimenti per i delitti indicati nell’articolo 51 comma 3 bis del codice di procedura penale, in modo da assicurare anche il collegamento tra diverse Autorità Giudiziarie interessate ad indagini concernenti lo stesso reato o più persone coinvolte in vicende processuali di competenza di dette Autorità, spesso all’insaputa l’una delle altre per mancanza di collegamenti o scambio di informazioni;
  • è stata costituita la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), un gruppo interforze in cui operano qualificati ed esperti appartenenti alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, il quale opera in stretto collegamento con le Procure della Repubblica, così come era già accaduto durante l’esperienza del pool antimafia che si era costantemente avvalso della fattiva e preziosissima collaborazione di esponenti delle forze dell’ordine senza dimenticare che un contingente di appartenenti alla Guardia di Finanza era stato stabilmente distaccato presso il c.d. “bunkerino”, come veniva chiamato l’ufficio in cui avevano lavorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed anche il sottoscritto dopo il trasferimento, a sua domanda, di Paolo Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala;
  • è stata approvata, sulla scorta dell’esperienza maturata da Giovanni Falcone negli U.S.A e nel pool, una legge premiale per i collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, le cui dichiarazioni avessero contribuito in modo determinante alla conoscenza delle dinamiche interne a “cosa nostra” e all’individuazione di appartenenti a quella associazione e di soggetti responsabili di gravi fatti di sangue in danno di magistrati, poliziotti, funzionari dello Stato, professionisti, avvocati, i c.d. “delitti eccellenti”;
  • è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che prevede un durissimo regime carcerario per gli appartenenti a “cosa nostra” condannati alla pena dell’ergastolo o a pesanti pene detentive al fine di impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno e trasmettere ordini agli affiliati ancora in libertà.

Queste provvide iniziative legislative nonché gli insostituibili, irrinunciabili e non negoziabili valori di giustizia, legalità, rispetto dei diritti umani, di condivisione e solidarietà, per i quali hanno sacrificato il bene supremo della vita, costituiscono l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone e, come non ricordarlo, dall’altro grande protagonista di quella irripetibile stagione giudiziaria, Paolo Borsellino.

Non una eredità fatta di beni, rendite o patrimoni ma bensì una eredità ricca di insegnamenti, di gesti, di parole, di comportamenti, di memoria lasciata da chi ci è venuto a mancare e tutti gli uomini di buona volontà, che si sono sentiti più soli dopo la loro morte, devono fare tesoro della loro testimonianza, del loro impegno, del loro sacrificio, del modo con il quale hanno provato a dare un senso alla loro esistenza.

Non è una eredità di sangue ma è una eredità simbolica che, rendendoli presenti nelle nostre vite, ci infonde coraggio, ci consiglia di non arrendersi mai, ci invita a credere che un cambiamento è sempre possibile, ci insegna il loro modello di lavoro e di vita, ci ricorda che la presa di distanza dal malaffare e da ogni forma di criminalità è un impegno inderogabile da assumere da parte di tutti noi, ci fa comprendere che, in un contesto temporale in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, si impone un soprassalto di fierezza e di dignità, ed è necessario uno sforzo comune da parte di tutte le componenti sane della società civile per realizzare una opera di bonifica morale e sociale che consenta a tutti di vivere ed operare in una società nella quale la forza del diritto abbia sempre la meglio sul diritto della forza.


 

Giovanni Falcone e Paolo Borsellinonon appartengono soltanto alla storia del nostro paese ma sono ancora presenti tra noi e lo saranno ancora a lungo perchè la loro speranza in un domani migliore e il loro coraggio sono la stessa speranza e lo stesso coraggio ereditati e fatti propri da tutti coloro che li hanno amati, condividendo quei valori per i quali Falcone e Borsellino hanno sacrificato il bene supremo della vita, e recependo il loro insegnamento di non fermarsi mai davanti agli ostacoli, di reagire alle incomprensioni ed alle avversità che inevitabilmente ciascuno di noi incontrerà nel proprio cammino. Infine, desidero ricordare due fra le celebri frasi di Falcone e Borsellino.

“Perchè una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perchè prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere”.

Giovanni Falcone “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”

Paolo Borsellino In queste due incisive e intense frasi mi sembra possano compendiarsi l’insegnamento, il richiamo al dovere e la speranza di un domani migliore, che costituiscono la preziosa, inestimabile eredità lasciataci da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  Milano 3 Maggio 2019

La Convenzione di Palermo, che il 15 novembre compirà 20 anni, è l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale  La Convenzione, che per la prima volta dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari. Nella risoluzione italiana approvata a Vienna si rende un “omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione“, si sottolinea “che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata” e si esprime “seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (COVID-19)“.

Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a “seguire il denaro” con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale.

 


Convenzione di Palermo: Onu a Vienna adotta “risoluzione Falcone” su lotta alle mafie. 17/10/2020. ONU ITALIA  La comunita’ internazionale dice si’ alle risoluzioni italiane per la lotta alle mafie. La Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale (nota come Convenzione di Palermo) che celebra quest’anno il suo ventesimo anniversario ha adottato ieri due documenti proposti dall’Italia, uno dei quali dedicato alla legacy di Giovanni Falcone.

Grazie alla prima risoluzione si avvia la concreta operatività del Meccanismo di revisione, strumento di valenza fondamentale, finalizzato al controllo dell’attuazione, nell’ordinamento di ciascun Stato membro, degli obblighi assunti. L’importanza di questo Meccanismo risiede proprio nell’eliminazione di vuoti normativi negli ordinamenti interni, che permettono alle organizzazioni criminali “in movimento” di sfruttarli, godendo di una sostanziale impunità.

Con il secondo documento, che prende il nome di Risoluzione Falcone, dal nome del magistrato ucciso dalla mafia a Capaci, si potenzia il contrasto alla dimensione economica della criminalità e, più in generale, si offrono strumenti sempre più avanzati di prevenzione e di repressione delle nuove forme di criminalità. La risoluzione mette nero su bianco l’importanza dell’eredità lasciata da Giovanni Falcone, pioniere della cooperazione giudiziaria nel contrasto ai clan e “il cui lavoro e sacrificio ha aperto la strada all’adozione della Convenzione”. E’ la prima volta che in una risoluzione viene valorizzato il contributo di una singola persona. Il documento fa chiaro riferimento alla cooperazione globale contro le conseguenze socio-economiche della pandemia e l’infiltrazione mafiosa nel mondo imprenditoriale. La Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale si sta sempre più dimostrando l’unico vero strumento globale di cooperazione giudiziaria, commenta  in una nota il Ministero della Giustizia. Più attuale oggi di quanto non fosse all’inizio, la Convenzione fornisce strumenti ai Paesi aderenti (190 sui 193 che fanno parte dell’ONU) per prevenire e combattere tutte le forme di criminalità organizzata. La delegazione italiana alla riunione era costituita dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano presso le organizzazioni internazionali di Vienna, Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti. Per l’Italia sono intervenuti anche il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il capo della Polizia Franco Gabrielli e il viceministro degli Esteri Marina Sereni. Al dibattito hanno partecipato anche ong italiane, come la Fondazione Giovanni Falcone, il Centro Pio La Torre e Libera che hanno riferito le loro esperienze in prima linea sul territorio. Soddisfazione e’ stata espressa da Maria Falcone, la sorella del magistrato: “Ci sono le idee e le intuizioni di Giovanni Falcone, il suo metodo investigativo, la sua visione della lotta alle mafie nella risoluzione italiana approvata all’unanimità a Vienna.“Giovanni credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie”, ha detto Maria che presiede la Fondazione che del giudice porta il nome: “Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato. Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro Paese, sono recepite molte delle sue idee: dalla necessità di colpire i patrimoni illegali e di seguire i flussi di denaro al potenziamento della cooperazione giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a più Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni transnazionali di trafficanti di uomini”. (@OnuItalia)


La Risoluzione Falcone ‘fa il tagliando’ alla Convenzione di Palermo dell’Onu


 

La Convenzione di Palermo, che il 15 novembre compirà 20 anni, è l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale  La Convenzione, che per la prima volta dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari. Nella risoluzione italiana approvata a Vienna si rende un “omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione“, si sottolinea “che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata” e si esprime “seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (COVID-19)“.

Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a “seguire il denaro” con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale.

L’Onu vota la «risoluzione Falcone». Il metodo del giudice ispirerà la lotta alle mafie del mondo A Vienna, nel corso della Conferenza delle Parti, approvato all’unanimità il documento italiano che pone l’eredità lasciata dal magistrato a fondamento della lotta alle mafie. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola personalità Un ponte virtuale che collega Palermo a Vienna ma attraversa 190 Paesi di tutto il mondo. Non è una infrastruttura visionaria ma è ciò che oggi in Austria è stato costruito per la lotta alle mafie di tutto il mondo: nel nome di Giovanni Falcone e delle sue straordinarie intuizioni investigative. È stata infatti approvata all’unanimità la risoluzione italiana, presentata nella capitale austriaca, alla Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il sogno che si avvera del giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era uno straccio di norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata il 15 novembre del 2000, che fu il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale. Adesso a Vienna si avvera il sogno di Falcone che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non esisteva una legislazione che prevedesse l’impegno corale degli Stati. Aveva intuito che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro «sporco» che generavano e il suo «follow the money» è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. Un «metodo» che neanche tutto il tritolo utilizzato, il 23 maggio del 1992, per ucciderlo a Capaci hanno fermato. Un attentato, voluto dalla mafia stragista del clan dei corleonesi, nel quale morirono anche la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Nel nome di Falcone Del resto che il giudice Giovanni Falcone fosse un’icona della lotta alle mafie non solo in Italia ma in tutto il mondo lo testimoniano due fatti: poco dopo l’attentato di Capaci del 1992 il Senato americano approvò una risoluzione che definiva la morte di Falcone «una profonda perdita per l’Italia, per gli Stati Uniti, per il mondo». Del resto il magistrato siciliano si era messo in luce con inchieste che avevano toccato nel vivo gli Usa come il processo «Rosario Spatola+119» oppure collaborando con la grande inchiesta denominata «Pizza Connection» che accertò l’immenso traffico di cocaina tra gli Stati Uniti e l’Italia e i milioni di dollari depositati. Il processo che riuscì a inchiodare a 45 anni di carcere il boss Gaetano Badalamenti fu possibile proprio grazie al «metodo Falcone» sulle inchieste economiche. C’è di più in Virginia alla Quantico Fbi Academy — la più famosa scuola al mondo per la formazione di investigatori d’eccellenza — due anni dopo fu posto nel Giardino della Memoria, adiacente all’ingresso, un busto in bronzo che raffigura il magistrato palermitano. La colonna su cui sorge è spezzata, a raccontare un lavoro interrotto, e, a terra, vi è appoggiato uno scudo che sul quale è scolpita una bilancia, simbolo della Giustizia. Chissà se oggi quel lavoro invece sarà il «motore» per alzare il velo delle mafie specialmente in Paesi che sono ancora indietro nel contrasto. Fbi che, nel 2013, ha voluto ribadire l’importanza del giudice dedicandogli la «Giovanni Falcone Gallery» nel quartier generale di Washington in cui si sottolinea come la sua «inesorabile determinazione abbia ispirato milioni di persone con la speranza che la giustizia e il rispetto della legge possano prevalere un giorno contro la criminalità e il terrorismo». Tornando a Vienna, la risoluzione è stata approvata alla fine di una quattro giorni a cui hanno partecipato, in gran parte da remoto, rappresentanti diplomatici e Ong di 190 Stati che hanno discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo. La delegazione italiana era costituita dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti. Per l’Italia sono intervenuti anche il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il capo della Polizia Franco Gabrielli e il viceministro agli Esteri Marina Sereni. Al dibattito hanno partecipato anche Ong italiane, come la Fondazione Giovanni Falcone, il Centro Pio La Torre e Libera che hanno raccontato le loro esperienze in prima linea sul territorio. Nella risoluzione si rende un «omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione», si sottolinea «che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata» e si esprime «seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (COVID-19)»

L’unanimità e le novità  Alla fine la risoluzione è stata approvata all’unanimità e contiene proposte che hanno messo — nero su bianco — l’importanza dell’eredità lasciata da Giovanni Falcone, pioniere della cooperazione giudiziaria nel contrasto ai clan, nella lotta alle mafie nel mondo. Un vero e proprio evento storico perché è la prima volta che in una risoluzione viene valorizzato il contributo di una singola personalità. Tra i «suggerimenti» indicati nel documento italiano agli Stati: l’adozione delle misure patrimoniali — sequestri e confische — che dal 1982 in Italia si rivelano uno strumento utilissimo nella lotta ai clan, l’uso sociale dei beni tolti alle mafie, l’invito alla costituzione di corpi investigativi comuni che facciano uso delle più moderne tecnologie (importanti soprattutto nelle inchieste sui traffici di migranti), l’estensione della Convenzione di Palermo a nuove forme di criminalità come il cybercrime e i reati ambientali ancora non disciplinati da normative universali e il potenziamento della collaborazione tra gli Stati, le banche e gli internet provider per il contrasto alla criminalità transnazionale. La Convenzione inoltre, per la prima volta, dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari.

«Seguire il denaro»  Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a «seguire il denaro» con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale.

Il «pool» e l’eredità  Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano le punte di diamante del «pool antimafia» fortemente voluto da un altro grande magistrato siciliano: Nino Caponnetto. Un’intuizione — la sua — tanto semplice quanto geniale: un nucleo di magistrati che non si occupavano più di singoli procedimenti ma che condividevano tutte le informazioni perché se la mafia si muoveva sul territorio con un progetto unitario e verticistico, la risposta dello Stato non poteva essere parcellizzata. Da questa idea nacque un capolavoro giudiziario assoluto come il maxiprocesso di Palermo che portò alla condanna di 346 persone. «L’idea di cooperazione nasce proprio da quel “pool” — spiega Giuseppe Antoci, presidente onorario della Fondazione Caponnetto ed ex presidente del Parco dei Nebrodi, scampato ad un attentato mafioso nel maggio 2016 — se funzionava a Palermo, poteva essere replicato su vasta scala mondiale. Era proprio il sogno di Giovanni Falcone quello di investire sulla cooperazione internazionale per la lotta alle mafie. Era anzi uno dei punti essenziali, secondo il giudice, che avrebbe consentito di attuare tutti gli accorgimenti necessari per un’operazione a più ampio raggio contro le mafie nel mondo. Adesso avanti con la cooperazione internazionale sulla lotta alle mafie che può rappresentare quel salto di qualità per consentirci di affrontare il tema come problema globale, così come di fatto sono ormai diventate le mafie».

Le reazioni«Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie», spiega la sorella Maria che presiede la Fondazione intitolata al magistrato. «Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato — aggiunge — . Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro Paese, sono recepite molte delle sue idee: dalla necessità di colpire i patrimoni illegali e di seguire i flussi di denaro, al potenziamento della cooperazione giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a più Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni transnazionali di trafficanti di uomini. Quello raggiunto alla Conferenza delle Parti è un traguardo di cui essere orgogliosi». Grande soddisfazione l’ha espressa anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: «Quale capo della delegazione italiana l’approvazione della risoluzione non può che essere per me motivo di grande orgoglio». «La lungimirante visione di Falcone — ha concluso il ministro — ha gettato le basi per questo straordinario risultato: oggi 190 Paesi del mondo hanno unito le forze e combattono insieme, in modo sempre più efficace, le mafie». Perché per combattere le mafie — per dirla come un altro grande magistrato come Gian Carlo Caselli — non basta arrestare la struttura «militare» ma anche le cosiddette «relazioni esterne»: i pezzi collusi di politica, economia e Istituzioni. Combattere davvero la mafia significa intervenire sull’uno e sull’altro versante anche perché le «relazioni esterne» sono la vera spina dorsale e, contemporaneamente, la corazza protettiva dell’organizzazione criminale.  17 ottobre 2020 Corriere della Sera ALESSIO RIBAUDO


ALL’ESTERO L’ANTIMAFIA C’È, PENSARE IL CONTRARIO È DANNOSO  Ad aprile ha indignato un articolo di Die Welt sugli aiuti economici all’Italia divorati dalla criminalità. Meglio sarebbe trovare il modo per spiegare all’estero cosa sono le mafie e quanto possono essere differenti nei vari contesti

La “reputazione” dell’Italia all’estero, a seguito di un’opinione pubblicata il 9 aprile su Die Welt, giornale tedesco, è diventata in questi mesi motivo di ampio dibattito. Il giornalista di Die Welt suggeriva una sfiducia radicata e diffusa per l’Italia nella questione coronavirusEurobond, dovuta alla presenza, in Italia, delle mafie che tutto divorano, soprattutto i fondi pubblici ed europei. Intellettuali, politici e accademici – inclusa chi scrive – si sono indignati e hanno risposto. Puntando l’indice alla Germania prima, all’Europa poi, si è detto che la mafia non è solo in Europa e che anche se da noi la mafia provasse – come quasi di certo farà – a mangiarsi i fondi, italiani o europei, qui in Italia abbiamo le giuste armi per controbattere. Perché noi la mafia la sappiamo riconoscere e la sappiamo combattere, più degli altri.

Questa polemica porta però a galla una serie di fumose approssimazioni sull’argomento ‘mafia all’estero’. Stereotipi sull’antimafia all’estero – anzi meglio, sull’assenza di un’antimafia all’estero – sono diventati quasi una questione ideologica. Una prima campana dice che l’Europa ignora la mafia, ma la mafia è ormai ovunque, quindi chi la ignora sembra quasi farlo apposta. Una seconda campana invece prova a farsi qualche domanda in più, a capire di quale mafia parliamo in effetti, dove sta e cosa fa questa mafia all’estero, se qualcosa fa. Ricercatori e giornalisti investigativi si occupano a tempo pieno, sul campo, di questi temi, in Germania, Svizzera, Australia, Canada. La criminalità approfitta della pandemia per sostituirsi all’assistenza pubblica. Dai territori, l’allarme di Libera e delle altre associazioni preoccupate per la crescita di consenso ai clan e dall’usura

I meriti degli investigatori stranieri  Ma, a seguire la seconda strada, si rischia di venir tacciati di eccessiva cautela e di apologia esterofila ingiustificata. Si viene tacciati di non conoscere il fenomeno mafioso quando si dice che in Australia o in Germania le polizie federali, l’Australian federal police (Afp) e la Bundeskriminalamt (Bka), conoscono la ’ndrangheta sui loro territori per nome, cognome e numero di scarpe. E che anzi la ’ndrangheta per le autorità australiane esiste dal 1964, quando la si identificò in maniera ufficiale come Onorata Società, prima che in Italia. Fu l’Italia, tra l’altro, fino agli anni ’70 del secolo scorso, a negare che la mafia australiana fosse mafia, visto che non era siciliana, nonostante i ripetuti appelli dall’Australia perché l’Italia li aiutasse a capire cosa accadeva all’interno delle loro comunità italiane. E si passa poi al Canada, che ha reso la ’ndrangheta priorità della polizia federale Royal Canadian Mounted Police (Rcmp) in seguito a una serie di operazioni tra Canada e Italia contro i clan calabresi del Siderno Group of Crime – come dimostra il fatto che il Canada è l’unico paese al mondo (oltre all’Italia) dove la ’ndrangheta è finita a processo come organizzazione criminale, dopo una serie di indagini della Rcmp insieme alle autorità italiane. Gli esempi ci sono e sono costantemente sotto gli occhi di chi voglia vedere. Si è dimostrato che le autorità estere non sono inattive nei confronti delle nostre mafie, anche se a volte lo fanno troppo tardi o comunque male per gli italiani. Ci si può chiedere, dunque, perché ciò accade.

Paese che vai, mafie che trovi  Sarà forse che anche dall’Italia arrivano nozioni confuse e contraddittorie su quello che sono le mafie? Come mi è stato spesso riferito dalle autorità canadesi e australiane, dall’Italia si inviano le richieste di estradizione spesso giustificate soltanto dalle ordinanze di custodia cautelare, lunghe quattrocento o anche duemila pagine e in italiano, senza alcuna chiarezza nelle richieste a monte.  E ancora, dall’Italia arrivano contemporaneamente spiegazioni – lezioni ­– su come la ‘ndrangheta sia un’organizzazione unitara, ma al tempo stesso, agli atti, le richieste di coordinamento transfrontaliero riguardano individui e clan molto diversi tra loro senza che si spieghi come questi si colleghino a un’idea unitaria di ‘ndrangheta. Un paese che non ha la stessa eredità giuridica e patrimonio giudiziario, come può riconciliare narrative contrastanti? Si dimentica spesso, infatti, che i sistemi giuridici non sono sempre basati sugli stessi principi e che, ad esempio, il reato di associazione a delinquere, in certe giurisdizioni, è in contrasto con lo stato di diritto perché si ritiene che possa ledere principi fondamentali quali l’individualità della responsabilità penale e la libertà di associazione.

Spacchettare il comportamento mafioso  Perché, invece di insistere che gli altri Stati debbano adottare una legislazione antimafia, non si prova a spacchettare il comportamento mafioso e a comprendere come usare le legislazioni di altri per arrivare a risultati simili? Il semplice policy-transfer in diritto penale (il trasferimento di conoscenze e disposizioni per creare nuove politiche penali in altri contesti, ndr) non può funzionare ovunque, insegna la storia del diritto, perché occorrono necessità storiche e sociali per arrivare a una legge che serva alle necessità locali. Servirebbe forse abbandonare se serve – e a noi italiani costa, simbolicamente ­– l’appellativo ‘mafia’? L’appellativo ‘mafia’ è un cultureme – ha un significato ormai consolidato, quasi moralizzato – che pesa sul diritto e sulla comprensione del fenomeno all’estero in quanto, all’estero, la parola rimanda a preconcetti su come la mafia debba essere (italiana, gerarchica, spietata, glamourizzata) e su cosa debba fare (droga, estorsione, corruzione). L’utilizzo di questa parola, all’estero, non è neutro abbastanza da poter essere assorbito con facilità in un corpo giuridico.

La ‘ndrangheta come viene vista, capita, combattuta in Italia, non è lo stesso fenomeno che si vede in altri Paesi

Bisognerebbe che si chiarisse, dall’Italia, a) quali sono i comportamenti mafiosi che all’estero creano il giusto sostrato perché la mafia si stabilizzi e b) quali sono le priorità che l’Italia richiede: una maggiore attenzione ai latitanti all’estero? Agli investimenti? O una maggiore attenzione a come ci si sposta dall’Italia al paese estero? Per fare questo bisognerebbe potenziare gli uffici di collegamento, e soprattutto, a livello narrativo, differenziare l’organizzazione criminale, in Italia, dalle attività e dalle strutture estere, quindi permettere un ufficio di collegamento a doppia specializzazione, da entrambi i paesi. Mi chiedo, inoltre, non sarà forse che ripetere all’infinito che la mafia è ovunque – che tutto è ‘ndrangheta in Europa, Germania, Canada, Australia – renda il fenomeno ancora più invisibile proprio in quei paesi che lavorano con sistemi giudiziari diversi, dove il costrutto legale e sociale della mafia non è stato, storicamente, come il nostro ed esistono altre priorità di ordine pubblico autoctone?

Come mi è stato riferito da diverse autorità canadesi, australiane ed europee, cercare la ‘ndrangheta – perché l’Italia avverte in continuazione che c’è – rischia peraltro di produrre una stigmatizzazione dei calabresi all’estero. Per evitarlo si cercano segni dell’organizzazione criminale che però, all’estero, non ha le stesse caratteristiche che ha in Italia. La ‘ndrangheta come viene vista, capita, combattuta in Italia, non è lo stesso fenomeno che si vede all’estero, dove i legami tra individui e famiglie sono più ibridi, le strutture più flessibili e diluite sul territorio, i meccanismi normativi dei gruppi adattati al luogo, i ‘regolamenti’ modificati da usi e costumi locali. A Vibo Valentia i “ragazzi di Libera” si impegnano a contrastare il sistema ‘ndranghetistico, Per loro restare può voler dire anche rinascere. E così da qualche mese in città si respira un’aria nuova

Meno lezioni, più comprensione reciproca  E per finire, rimane da chiedersi perché mai quando le mafie italiane investono fondi, più o meno ripuliti, nell’economia legale in altri paesi, ci indignamo accusandoli di non prendere sul serio la mafia? Ogni paese amministra da sé risorse e decide priorità in base a scelte politiche ed economiche, all’allarme sociale e alle necessità del territorio. Se il danno di un investimento mafioso all’estero non è percepito, che sovranità abbiamo noi di sindacare soprattutto quando poi ci indigniamo se i conti in tasca vengono fatti a noi, come nel caso degli Eurobond? Non sarebbe forse più saggio cercare di spiegare e spiegarsi all’estero usando un linguaggio di comprensione reciproca, che tenga conto di diverse eredità giuridiche e di diverse necessità, anziché arroccarsi su posizioni che sono più morali che di sicurezza? Forse se guardassimo di più a come il nostro Stato ha depotenziato l’antimafia e ha tagliato le risorse proprio alle autorità che più necessitano di supporto – pensiamo al disastro delle carceri e pensiamo all’assenza di un vero e proprio processo antimafia, a doppio binario, che segua le indagini specializzate ­– ci indigneremmo anche di più e più a ragione. 25.5.2020 LA VIA LIBERA


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