La STORIA di VIA D’AMELIO in quattro racconti

La STRAGE  riassunta da Famiglia Cristiana, L’Espresso, Cosa Vostra, Wikipedia


VIA D’AMELIO, STORIA DEL PROCESSO BORSELLINO, UN MOSAICO CON TANTE TESSERE MANCANTI   Il processo Borsellino quater ha trovato conferma in Cassazione, è solo l’ultimo troncone di un percorso accidentato deviato dal “più grave depistaggio” della storia italiana. Che cosa sappiamo? Quanti processi sono stati aperti? Il depistaggio si sarebbe potuto smascherare?

Se il processo sulla strage di Capaci ha avuto un corso lineare, che si è concluso con la sentenza definitiva della Cassazione nel 2003, cui sono seguiti altri processi che hanno soltanto approfondito, completandole anche se forse non esaurendole nei moventi, le risultanze del primo processo, la vicenda di via d’Amelio, in cui hanno perso la vita il magistrato Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, ha avuto una storia processuale molto tormentata, che ancora non si è conclusa. Ora la Cassazione ha messo la parola fine sul processo quater, ma altre vicende giudiziarie collaterali e più o meno connesse sono ancora in corso e tante tessere del mosaico restano disperse.

IL CONTESTO STORICO, UNA PREMESSA NECESSARIA  Per capire che cosa possa avere determinato una vicenda così tortuosa e non sempre limpida, bisogna probabilmente ripartire dall’inizio, facendo una premessa sulla contingenza storica in cui le indagini sulle stragi sono iniziate. Essendo implicati nei due procedimenti, come vittime due magistrati in servizio a Palermo, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo – Giovanni Falcone nel 1992 era al Ministero della Giustizia fuori ruolo – la competenza delle stragi ricadeva sulla procura di Caltanissetta. Questo avviene perché ogni volta che un magistrato è vittima o indagato è stabilito per legge che non tocchi ai suoi vicini di scrivania occuparsene, ma a un altro giudice competente precostituito per legge: Caltanissetta per Palermo, Brescia per Milano, Milano per Torino e via di seguito. Una questione di distacco precauzionale. A dispetto del fatto che fosse una sede distrettuale – la Sicilia è l’unica regione che ne contempla ben quattro – Caltanissetta era a quell’epoca una procura piccola, con il ruolo del procuratore vacante. Numeri inadeguati a gestire la complessità prima della strage di Capaci del 23 maggio 1992, poi di quella di via D’Amelio avvenuta a 57 giorni di distanza.

Tre magistrati, Paolo Giordano, Carmelo Petralia e Pietro Vaccara si trasferirono lì da altre procure della Sicilia all’indomani della strage di Capaci, Fausto Cardella e Ilda Boccassini arrivarono da Perugia e da Milano nel novembre del 1992, grazie all’istituto dell’applicazione temporanea che poteva durare per legge non più di due anni: Cardella restò un anno, Boccassini due. Nel frattempo al vertice della procura nissena era stato nominato Giovanni Tinebra. Altri magistrati, tra cui prime nomine, innesti dalla Dna, e altri trasferiti, sarebbero arrivati man mano (tra loro Roberto Sajeva, Annamaria Palma, Nino Di Matteo, Luca Tescaroli): un fatto non trascurabile, perché ha fatto sì che i due enormi fascicoli (8 armadi di carte) dei procedimenti sulle stragi, siano passati nel corso dei procedimenti e poi dei processi, a staffetta, già dalle fasi del primo grado in diverse mani, con la complicazione dei passaggi di consegne che si può immaginare, data la mole delle carte.

V’è di più: la direzione distrettuale antimafia era appena nata, i suoi meccanismi con la Procura Nazionale antimafia non ancora rodati. La sentenza definitiva del maxiprocesso – il primo in cui sono stati gestiti collaboratori di giustizia provenienti da cosa nostra – risaliva a pochi mesi prima (30 gennaio 1992). La prima legge sui collaboratori di giustizia aveva appena compiuto un anno. Il codice di Procedura penale, che stabiliva la dipendenza funzionale della Polizia giudiziaria dal Pm, ne aveva appena tre, troppo pochi per essere già stato messo alla prova di un procedimento per mafia dall’indagine alla sentenza definitiva. Tutto questo, ovviamente non spiega, men che meno a giustifica incongruenze, opacità, punti oscuri, errori o depistaggi di un procedimento che, come vedremo, ne ha avuti molti, ma può aiutare a meglio contestualizzare la situazione o quantomeno a non incorrere nella distorsione cognitiva che porta a trasferire automaticamente all’epoca un bagaglio d’esperienze, di automatismi, di sapere acquisito che è scontato quasi trent’anni dopo, ma che poteva non esserlo all’epoca.

I PRIMI PROCESSI  Tra l’ottobre del 1994 e il 2008 sulla strage di Via d’Amelio si sono celebrati quattro processi e relativi gradi di giudizio: 1. Processo Borsellino 1 2. Processo Borsellino bis 3. Processo Borsellino ter 4. Processo stralcio, scaturito da un rinvio in appello da parte della Cassazione ad altra corte d’Appello (Catania). Quando l’ultimo viene confermato in Cassazione, nel 2008, sembra che il quadro delle responsabilità sia composto, anche se tanti punti restano da appurareche cosa ha accelerato la decisione di Cosa nostra di uccidere Borsellino, dopo aver massacrato Falcone? A determinare quell’attentato così clamoroso è stata solo la volontà di Cosa nostra o vi è stato il concorso di altri o almeno la convergenza di interessi diversi? E soprattutto, appurato che Cosa nostra aveva voluto e compiuto con modalità più clamorose rispetto anche a tutti i precedenti sanguinosi dei Corleonesi le due stragi, qual è stato il loro reale movente: basta a spiegare tanta violenza la vendetta per il Maxiprocesso, istruito dai due magistrati uccisi a Capaci e via D’Amelio, portato a sentenza definitiva il 30 gennaio 1992, nel quale per la prima volta Cosa nostra non si è salvata nel solito magma dell’insufficienza di prove?

2009 LA RIVELAZIONE DI SPATUZZA RIMETTE TUTTO IN DISCUSSIONE  Al netto delle domande rimaste aperte e di eventuali approfondimenti che possono sempre seguire, dal momento che la strage è un reato che non si prescrive, la definitività della sentenza della Cassazione del 2008 ha però i giorni contati, per uno sviluppo clamoroso che non rientra nella fisiologia dell’accertamento della verità giudiziaria neppure nei casi più complessi: nel 2009 la rivelazione di un collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, la cui attendibilità risulta ripetutamente riscontrata, svela che i processi Borsellino uno e bis contengono una “mina”: Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, che si era autoaccusato del furto della 126 fatta esplodere a via d’Amelio, non aveva detto la verità. Era stato Spatuzza a impossessarsi dell’automobile.

LA REVISIONE  Il processo di revisione conclusosi a Catania ha fatto cadere sette ergastoli irrogati per effetto delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e confermati in Cassazione nel 2008. Le persone che erano state chiamate a correo da Scarantino e lo Scarantino medesimo, per il concorso in strage, scarcerate già nel 2011, vengono tutte assolte nel 2017. Gli atti vengono spediti a Caltanissetta competente a indagare Scarantino per calunnia. Per chiarezza è giusto dire che non tutto quello che era stato accertato nei precedenti processi Borsellino si è sgretolato: accanto ai 7 ergastoli caduti, altri 26 non determinati dalle inattendibili dichiarazioni dei “falsi pentiti” – si è scoperto che anche Andriotta e Candura avevano dichiarato cose inattendibili – sono rimasti in piedi e altre condanne sono state confermate con sentenza definitiva il 5 ottobre 2021 con la conclusione in Cassazione del processo Borsellino quater, nella cui sentenza di primo grado la Corte d’Assise di Caltanissetta aveva definito il caso: «Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».

“IL PIÙ GRAVE DEPISTAGGIO DELLA STORIA GIUDIZIARIA ITALIANA”  Se il processo di revisione ha accertato la non sostenibilità delle accuse a carico delle persone per cui si era rivalutata la posizione, sono rimaste in ombra le modalità e le responsabilità con cui si era giunti alle collaborazioni inattendibili. Il “depistaggio”, presente come reato nel codice penale solo dal 2016, è infatti oggetto di altri processi definiti e in corso: se n’è occupato il Borsellino quater, nel quale è uscito prescritto dal reato di calunnia Vincenzo Scarantino e il processo in corso a Caltanissetta a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei con l’accusa di calunnia in concorso, tre poliziotti in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino che all’epoca, coordinato dalla Procura di Caltanissetta, si occupava delle indagini e dunque della gestione dei collaboratori rivelatisi falsi (Perché Scarantino ha detto il falso? Per volere di chi? Con l’aiuto di chi?). Al vertice di quel gruppo di investigatori della Polizia di Stato c’era Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, stimato da molti colleghi e magistrati, compresi quelli che nutrivano dubbi sulla credibilità e sulla caratura criminale di Vincenzo Scarantino. Le evidenze e le domande emerse negli anni riguardo alla gestione sciagurata di quella collaborazione con la giustizia e che rendono plausibili molti dubbi – cui non vanno esenti, come sempre in questi casi, strumentalizzazioni e letture “tifose” di segno opposto – fanno inevitabilmente di Arnaldo La Barbera il convitato di pietra di molte sentenze, definitive e non, più o meno recenti. La sua morte prematura ha reso il giudizio sul suo operato di allora materia per gli storici, senza avergli dato il tempo di vedersi contestare in giudizio accuse in vita e di difendersene.

IL FALSO PENTITO A distanza di 29 anni sono ancora in molti a chiedersi come abbia potuto una figura di poco spessore far deragliare un’indagine così importante facendole trovare conferme nei gradi di giudizio di diversi processi. Nelle deposizioni del processo in corso a Caltanissetta oggi a carico dei poliziotti s’è sentito al suo proposito l’appellativo siciliano di “scassapagghiara”, scassapagliai, a indicarne lo scarso spessore criminale, benché fosse parente di un noto uomo d’onore. A distanza di 29 anni è acclarata la sua figura di “collaboratore” controverso. Arrestato a settembre del 1992, collaboratore dal giugno 1994, già nel 1998 nel Borsellino bis aveva ritrattato tutto in aula affermando di aver ricevuto pressioni per mentire. Uno dei dati che hanno fatto scrivere all’estensore della sentenza di primo grado del quater che la situazione avrebbe dovuto: consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone».

LA TRAPPOLA SI SAREBBE POTUTA EVITARE?  L’aspetto che più interroga, di tutti i punti oscuri di una vicenda intricatissima, viene da due lettere, risalenti all’ottobre 1994, una delle quali inviata per conoscenza anche alla Procura di Palermo e solo lì ritrovata, lasciate agli atti da Ilda Boccassini, che fece parte del Pool che si occupava delle stragi a Caltanissetta dal novembre 1992 all’ottobre 1994. In questi documenti, uno dei quali controfirmato anche da Roberto Sajeva, magistrato della Dna e parte del Pool, si evidenziavano in modo circostanziato le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Scarantino e si suggeriva di riconsiderarne l’attendibilità complessiva. Il processo Borsellino 1 stava iniziando. Quei documenti scritti e ritrovati sono la prova documentale che già nel 1994 almeno due magistrati coinvolti nelle indagini avevano intuito la presenza di una falla. Se quell’intuizione avesse trovato ascolto «il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» si sarebbe potuto, come tante volte si fa con mitomani e depistatori, smascherare e sgonfiare per tempo?

È una risposta che potrebbe trovare il processo in corso a Caltanissetta, il cui dibattimento sta provando a far luce sulle eventuali responsabilità di poliziotti all’epoca impegnati nella gestione di Scarantino, e sul buco nero su chi e che cosa l’avrebbero indotto a mentire. Ma è evidente che il tempo trascorso renderà difficile dare risposte incontrovertibili a tanti piccoli episodi la cui memoria a distanza di 29 anni potrebbe non essere più così salda. Tanto più che nel frattempo è venuto a mancare, non solo Arnaldo La Barbera, ma anche il capo della Procura nissena di allora Gianni Tinebra.

UNA PAGINA INQUIETANTE Potremmo non sapere mai compiutamente se quello che chiamiamo depistaggio sia stato un disegno complessivo che ha indotto tante persone in errore o una catena di tanti eventi più piccoli (fraintendimenti, incongruenze, inesperienze, errori, inadempienze, aggiustamenti, forzature più o meno intenzionali) che hanno finito per convergere e portare l’indagine a deragliare e i processi a condannare innocenti o se si sia trattato di una commistione di entrambe le cose. Comunque il risultato è una “pagina vergognosa e tragica” della storia giudiziaria italiana per dirla con le parole del Procuratore generale della Cassazione al Borsellino quater.

INDAGINE ARCHIVIATA SU ALCUNI MAGISTRATI  Nel frattempo a Messina è stato archiviata l’indagine aperta per accertare eventuali responsabilità a carico di Annamaria Palma e Carmelo Petralia, due magistrati che si occuparono dei processi Borsellino a Caltanissetta, un procedimento scaturito dalle motivazioni del primo grado del Borsellino quater. Non sono stati ravvisati profili penali: “anomalie tecniche, giuridiche e valutative” sì, ma non dolo.

IL BORSELLINO QUATER IN CASSAZIONE  Il 5 ottobre 2021 il Borsellino quater ha visto confermate in Cassazione le condanne emesse in secondo grado, che a sua volta confermava il primo. Alle condanne di esecutori e mandanti della strage di via d’Amelio diventate definitive nei precedenti processi si sono aggiunte quelle all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni per calunnia per i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Nonché il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Vincenzo Scarantino, cui erano state riconosciute le attenuanti generiche perché si era ritenuto che fosse stato indotto a mentire.

LA VERITÀ GIUDIZIARIA SULLA MORTE DI BORSELLINO  Nemmeno questo basta a colmare tutte le lacune, sono stati gli stessi giudici di secondo grado a descrivere le evidenze probatorie acquisite dall’ultimo processo come «Singoli pezzi di un mosaico» con tante tessere mancanti. Mancano, per esempio, le tessere che potrebbero spiegare l’oscuro percorso compiuto dalla borsa presente nella macchina del giudice Borsellino al momento dell’attentato, scomparsa, e ritrovata solo mesi dopo negli uffici della Mobile di Palermo, senza l’agenda rossa, mai ritrovata, riguardo alla quale l’ipotesi più accreditata è che fosse un reperto importante – perché si ritiene che Borsellino vi annotasse cose importanti relative alle sue indagini – e che in origine si dovesse trovare nella borsa.

Riguardo alle ragioni per cui sarebbe morto Paolo Borsellino i giudici di primo e secondo grado sono giunti pur nell’identico esito processuale a conclusioni parzialmente diversese per i primi la cosiddetta trattativa Stato-Mafia avrebbe aperto “nuovi scenari”, i secondi hanno escluso che abbia influito sulla decisione di uccidere Borsellino, che «gli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa» avrebbero preso nel dicembre del ’91, durante la riunione della commissione provinciale di Cosa nostra, convocata da Totò Riina per gli auguri di Natale, contestualmente alla decisione di compiere la strage di Capaci, pur non escludendo il fatto che «abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Paolo Borsellino sarebbe morto perché «aveva continuato la sua instancabile opera nel contrasto alla criminalità organizzata, continuando a essere insieme al collega e amico Giovanni Falcone un simbolo della lotta alla mafia, rendendosi ben visibile anche agli occhi della stessa organizzazione criminale che continuava a concepire propositi omicidiari nei suoi confronti».

LE MOTIVAZIONI DELLA CASSAZIONE, STRAGE MAFIOSA CON ZONE D’OMBRA  La sera dell’8 novembre 2021, i giudici della Cassazione depositando le motivazioni della decisione assunta il 5 ottobre 2021, chiariscono le ragioni che li hanno convinti a confermare la sentenza di Appello del cosiddetto Borsellino quater: nessun dubbio che sulla «paternità mafiosa della strage in cui sono rimasti uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina , anche se restano anomali «anomalie» non chiarite e «zone d’ombra», tra queste il percorso compiuto dalla borsa di Paolo Borsellino «ricomparsa dopo alcuni mesi», dopo la strage, «nelle mani del dottor La Barbera che la riconsegnava alla moglie del magistrato» .

Secondo i magistrati della Suprema corte quanto emerso nel processo sulla cosiddetta “trattativa” Stato – mafia è di «sostanziale neutralità», non fa emergere «nuovi scenari», nonostante gli «abnormi inquinamenti delle prove», in fase di indagini. Ha convinto la quinta Sezione penale della Cassazione a confermare la decisione dei magistrati della Corte d’Appello nissena, secondo cui «i dati probatori relativi alle zone d’ombra possano al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino, ma ciò non esclude il riconoscimento della “paternità mafiosa” dell’attentato di Via D’Amelio e della sua riconducibilità alla “strategia stragista” deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto come “risposta” all’esito del maxi processo». Tutto questo – rileva la Cassazione – «non fa certo venir meno la complessità finalistica di quella strategia, proiettata in una triplice dimensione: una finalità di vendetta contro il “nemico storico” di Cosa Nostra rimasto in vita dopo la strage di Capaci», una «finalità preventiva, volta a scongiurare il rischio che Borsellino potesse raggiungere i vertici delle nuove articolazioni giudiziarie promosse da Giovanni Falcone». 

Questa in estrema sintesi la verità che i giudici hanno stabilito in via definitiva. Ma è chiaro che nel merito tanti punti oscuri sono destinati a restare tali. FAMIGLIA CRISTIANA 9.11.2021 di Elisa Chiari


La storia della Strage di Via D’Amelio e del suo depistaggio

Il 19 luglio 1992. Quel giorno, all’incirca verso le 17.00, una colonna di fumo nero si è alzata da pochi attimi tra i palazzoni di Palermo, nella centralissima via Mariano d’Amelio. È una colonna di fumo che sa di morte e che investe come un assordante vagito una domenica d’estate. Alle ore 16.58 del 19 luglio 1992 quella che verrà poi indicata essere stata un’autobomba squarcia il ventre molle dell’Italia.

Il giudice Paolo Borsellino, Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo, è morto. Insieme a lui, in quella che sarebbe stata ribattezzata “Strage di Via D’Amelio”, il capo-scorta Claudio Traina, gli agenti Vincenzo Li MuliWalter CusinaAgostino Catalano e Emanuela Loi, la prima donna poliziotto a morire in servizio.

A Palermo il 19 luglio 1992 la vita spezzata del giudice Paolo Borsellino inizia a diventare storia. In maniera angosciante, rabbiosa, annacquandosi nello scorrere del tempo, passiva, sublimata dai processi e, soprattutto, dai depistaggi, la morte e la mancanza di verità diventano Storia della Repubblica. In maniera, purtroppo, tipicamente italiana.

Su Paolo Borsellino, sulla sua intransigente difesa della Legge, sul suo straordinario coraggio, sulla sua eccezionale capacità investigativa, in quel momento storico si concentravano le speranze duramente colpite dall’aggressione mafiosa. Cinquantasette giorni prima, infatti, era avvenuta la Strage di Capaci. Il 23 maggio 1992 erano stati uccisi il giudice e amico di Paolo, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, il capo-scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

Nonostante il breve lasso temporale, la mafia attuava un altro gravissimo progetto delittuoso, colpendo “il Magistrato che portava con sé l’eredità morale di Giovanni Falcone e, con il suo eroico impegno, rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con Cosa Nostra”.

Non è un caso, quindi, che il piano contro Paolo Borsellino assunse i caratteri di un attacco terroristico: esso era finalizzato a piegare alla volontà dell’organizzazione mafiosa un intero Paese. Ora che è passato più di un quarto di secolo, la storia della fine di questo magistrato non solo non la si conosce fino in fondo, ma è anche diventata tragedia. Ancora non sappiamo chi l’ha ucciso e perché lo voleva morto. Chi l’ha tradito, chi l’ha lasciato solo.

Numerose sono le versioni che hanno lasciato spazio a nuove e ipocrite fondamenta di uno Stato, nelle sue più alte rappresentanze e rappresentazioni, devoto alla sua figura.

È una tragedia in cui compaiono e scompaiono volti e pochi nomi. In cui aleggia, talvolta come uno spettro e altre come un coniglio tirato fuori da un cilindro, un’ombra che ha i tratti di personaggi eccellenti, di servizi segreti e poliziotti, di mafiosi veri e mafiosi presunti.

E in questo senso che Paolo Borsellino diventa un eroe romantico, non per il prima – la sua vita che poco davvero si conosce – ma per i tratti con cui viene a mancare – lui come pure la Giustizia – per quella scarsità di pietas che contraddistingue questa storia malinconica. Storia in cui, per i familiari del giudice, alla sua assenza si è aggiunta anche l’assenza della verità come parte integrante delle proprie vite.

Questa tragedia volutamente resa tale da più attori pone quasi in secondo piano il contesto mafioso, consumandosi per le strade di Palermo e dell’Italia, tra veleni e palazzi, tribunali, carceri e uffici di Polizia.

Paolo Borsellino è stato sacrificato e non si è sacrificato. E come nei più lugubri recenti drammi, quasi ci si deve accontentare e ringraziare di avere una salma su cui piangere. E farsela bastare.

Il racconto. Nella comunicazione di notizia di reato del 20 luglio 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo, la ricostruzione dell’accaduto inizia così: «Alle ore 16.58 circa del 19 c.m., personale della Volante “21”, nel transitare per questa Piazza Giacchery, udiva una forte deflagrazione provenire dalla parte ovest della città, fatto che subito induceva a pensare che era accaduto qualcosa di grave. Notiziata la Sala Operativa il suddetto personale si dirigeva immediatamente verso la zona, e giunto in via Autonomia Siciliana, angolo via D’Amelio, si trovava dinanzi ad uno scenario agghiacciante. Decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuavano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodevano da soli, gente che urlando chiedeva aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati dall’esplosione. Nell’occorso un individuo, notata la vettura della Polizia, vi correva incontro, imprecando aiuto ed asserendo di essere uno degli uomini della scorta del Dr. Borsellino e che quest’ultimo, unitamente agli altri cinque componenti la scorta erano deceduti a seguito di una violentissima esplosione».

Cosa era successo poco prima dell’esplosione? A raccontarlo è Antonio Vullo, unico agente della scorta sopravvissuto. Lui e i suoi colleghi, arrivati presso l’abitazione estiva del giudice, a Villagrazia di Carini, all’incirca alle 13.30, avevano dato il cambio agli agenti della scorta “H24”. Intorno alle ore 16.00 Borsellino chiamò i due capi-pattuglia delle autovetture della scorta, Traina e Catalano, per comunicare che poco dopo avrebbe dovuto recarsi dalla madre, in via D’Amelio. Borsellino, tra l’altro, diede loro le indicazioni occorrenti per raggiungere l’indirizzo. Era la prima volta che gli agenti si recavano lì. Pochi minuti dopo il corteo di macchine partì in direzione di via D’Amelio. Era composto dall’auto di “staffetta”, guidata dal Vullo – che aveva capito dove si trovasse via D’Amelio – con a bordo Li Muli e Traina; dalla macchina condotta da Paolo Borsellino; e dall’altra auto di scorta in cui viaggiavano Catalano, Loi e Cosina.

Dopo avere percorso l’autostrada dallo svincolo di Carini a quello di Via Belgio, le autovetture, che procedevano ad una velocità abbastanza sostenuta, imboccarono via dei Nebrodi, proseguendo fino a via delle Alpi e svoltando ancora in viale Lazio, percorsero via Massimo D’Azeglio fino a via Autonomia Siciliana, per arrivare infine in via D’Amelio.

Antonio Vullo racconta ai magistrati, che lo interrogano qualche anno dopo, di aver rallentato, soffermando lo sguardo sulle numerose macchine parcheggiate a spina di pesce, ambo i lati della via (che comunque non aveva un’uscita). Una circostanza che “infastidisce” – termine utilizzato da Vullo nella sua deposizione – gli agenti, poiché in quel luogo risiedeva la madre del magistrato. Solo in seguito Vullo avrebbe appreso che era stata presentata da alcuni colleghi una relazione finalizzata a ottenere una zona rimozione sul posto.

Prima che Vullo e Traina avessero il tempo di prendere qualsiasi decisione, Borsellino li sorpassò e posteggiò la propria autovettura al centro dell’unica carreggiata presente, davanti al cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Vullo fece scendere dalla propria autovettura gli altri componenti della scorta, che avrebbero dovuto bonificare il portone dello stabile, e si spostò in corrispondenza della fine di via D’Amelio, per impedire l’accesso di altre macchine. Uscito dall’abitacolo del veicolo, Vullo vide che Borsellino era andato a pressare il campanello del cancelletto ed aveva acceso una sigaretta. Accanto a lui vi erano Catalano e Loi, mentre Traina e Li Muli stavano tornando indietro. Qualche secondo dopo, il magistrato e i suddetti componenti della scorta entrarono all’interno del piccolo cortile nel quale vi era il portone dello stabile. Vullo vide che Cosina era fermo davanti all’altra macchina, intento ad accendersi una sigaretta, e pensò quindi di avvicinare ad essa anche l’auto da lui guidata, posizionandola di modo da essere pronti a ripartire. Durante questo spostamento, Vullo vide che Borsellino e gli altri componenti della scorta erano sempre fermi davanti al portone di ingresso dello stabile, dove il magistrato stava pigiando sul campanello. Mentre Vullo era intento a fare manovra, venne investito da una corrente di vapore e polvere ad altissima temperatura all’interno dell’abitacolo. Sceso dalla macchina, si rese conto di quanto era accaduto. In via D’Amelio era calata una pesante oscurità e la visibilità era assai limitata.

L’esplosione… sono stato investito io da una nube abbastanza calda, all’interno dell’abitacolo sono stato sballottato, sono uscito dal veicolo e tutto distrutto, già avevo visto il corpo di un collega, dell’autista Cusina, che era accanto alla mia macchina, e… mi sono messo a girare così, senza nessuna meta, cercando aiuto o dando aiuto agli altri colleghi…”. Vullo affermò di aver visto solo “brandelli”, mentre cercava di muoversi all’interno della cortina di fumo; si dirisse prima verso la fine di via D’Amelio poi verso via Autonomia Siciliana. Ed è qui che i primi colleghi giunti a prestare soccorso lo trovarono.

L’agente Vincenzo Alberghina, che arrivò sul posto coi colleghi della “volante 21”, racconta: “…abbiamo visto la via D’Amelio e c’era questa immagine di guerra, sembrava quasi. Tutte le auto in fiamme, tutte le auto in fiamme, non riuscivamo a capire inizialmente di che cosa si trattasse. Dopodiché abbiamo visto uscire… siamo scesi immediatamente, abbiamo visto uscire dalla sinistra il collega che effettivamente era scampato. Non sappiamo di che cosa si trattasse, abbiamo chiesto che cosa era successo e ci disse che si trattava della scorta di Borsellino, lui era riuscito a scampare e ha questo punto io ho preso… ho fatto accompagnare il collega direttamente dalla mia volante al pronto soccorso, perché era sanguinante, in evidente stato di choc… io sono rientrato nella zona dov’era successo il fatto. Siamo risaliti nei piani superiori, abbiamo soccorso le persone che scendevano dai palazzi e quello che c’era a terra era… quello che effettivamente era successo, tutti i corpi mutilati e le macchine in fiamme ancora e nient’altro”.

L’informazione. Il primo lancio dell’agenzia Ansa è delle 17.16 ATTENTATO DINAMITARDO A PALERMO (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – Un attentato dinamitardo è stato compiuto a Palermo in via Autonomia Siciliana nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Vi sono coinvolte numerose automobili e sono molti i feriti. Sul luogo dell’esplosione che è stata avvertita ad alcuni chilometri di distanza, sono confluite tutte le pattuglie volanti della polizia e dei carabinieri. Sono state richieste autoambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, un magistrato sarebbe rimasto coinvolto nell’attentato.

Sempre alle 17.16 ATTENTATO DINAMITARDO A PALERMO (2) (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – Sul luogo dell’attentato le autoambulanze hanno raccolto decine di feriti per trasportarli negli ospedali della Villa Sofia, del Cervello e del Civico. Tra i feriti vi è anche un agente della polizia di stato che si pensa sia un agente di scorta. Uno dei primi soccorritori ha segnalato di aver trovato per terra una mano. La zona è sorvolata dagli elicotteri della polizia e dei carabinieri.

Alle 17:23 ATTENTATO DINAMITARDO A PALERMO (3) (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – Sul luogo dell’esplosione giacciono a terra i corpi di quattro persone morte.

Alle 17:55 ATTENTATO DINAMITARDO A PALERMO: FERITO GIUDICE BORSELLINO (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – Nell’attentato di Palermo è rimasto ferito, secondo le prime notizie fornite dalla polizia, il giudice Paolo Borsellino. Nella violenta esplosione di una automobile imbottita di tritolo, sono rimaste coinvolte l’autovettura del magistrato e le due blindate della scorta.

Alle 17:47 ATTENTATO A GIUDICE BORSELLINO (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – L’attentato al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta è avvenuto in via Mariano D’ Amelio, dove abitano la madre e la sorella del magistrato. L’esplosione è stata violenta e oltre all’auto del giudice Borsellino, sono rimaste coinvolte le due auto della scorta e un’altra decina di autovetture che erano posteggiate lungo la strada. Il manto stradale è stato sconvolto per una lunghezza di duecento metri. L’edificio vicino al quale è avvenuta la deflagrazione dell’autobomba è rimasto danneggiato: muri lesionati, alcune parti crollate, infissi di balconi e finestre divelti fino al quinto piano.

Alle 17:58 ATTENTATO A GIUDICE BORSELLINO (2) (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – L’autobomba, una Fiat 600 imbottita presumibilmente di tritolo, era stata parcheggiata davanti al numero 21 di via D’Amelio, dove abitano la madre e la sorella del giudice Borsellino. Nella deflagrazione l’autobomba si è disintegrata e alcuni rottami, dopo un volo di oltre cinquanta metri, sono andati a finire in un giardino dietro un muretto.

Alle 18:18 MAFIA: STRAGE A PALERMO, UCCISO BORSELLINO (ANSA) – PALERMO, 19 LUG – Il giudice Paolo Borsellino è rimasto ucciso nell’attentato. Il suo corpo, completamente carbonizzato, con il braccio destro troncato di netto, è nel cortile del palazzo dove abitano la madre e la sorella. Non è stato ancora riconosciuto ufficialmente, ma alcuni suoi colleghi, fra i primi ad accorrere sul luogo dell’attentato, asseriscono che è “certamente” lui.

Resti. La deflagrazione causata dall’autobomba, una Fiat 126 di colore rosso – almeno così racconta uno dei testimoni che qualche ora prima aveva parcheggiato la propria macchina accanto a quell’auto – posta di fronte al civico 19 è così potente da lasciare un cratere.

Di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta rimangono le membra. Resti umani che vengono rinvenuti al primo e al secondo piano degli stabili circostanti. Una mano viene ritrovata dietro il palazzo dov’era avvenuto lo scoppio: aveva fatto un salto di dodici piani. Nei giorni immediatamente successivi, in più di un’occasione, vengono trovati parti di corpo umano, “membra che non si capiva cosa fossero, però si capiva soltanto che erano resti umani”.

Il cadavere di Paolo Borsellino viene rinvenuto con indosso una cintura in cuoio marrone con un frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e un frammento di stoffa di cotone verde, residuo di una maglietta “polo”. Al suo corpo mancavano l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori. Buona parte dell’addome e del torace, nonché del viso, era bruciato. Il colore nerastro ricopriva la pelle. Questi dettagli crudi aiutano a comprendere la scena che si presenta ai primi soccorritori.

Il corpo del magistrato senza vita viene riconosciuto dal suo tratto più distintivo, i baffetti. Si comprese che uno dei cadaveri era quello dell’agente Emanuela Loi da uno dei due seni rimasto pressoché integro.

Sul luogo della strage però muore soltanto chi deve morire. Con un atto terroristico senza precedenti, collegato anche a quanto successo a Capaci, a perdere la vita sono i fedeli servitori dello Stato. Nessun’altra persona muore. Nessun effetto collaterale, almeno apparentemente, accade in via D’Amelio.

Via D’Amelio, una stradina stretta e chiusa, diventò il punto di ritrovo di centinaia di persone che qui accorrono in breve tempo. Mentre altre persone uscivano sotto shock dagli appartamenti, giungevano ambulanze e vigili del fuoco. Giungevano giornalisti, poliziotti e carabinieri. I resti umani venivano ammassati. Arrivava anche Giuseppe Ayala, ex magistrato e ora politico, mentre si spargeva la voce che fosse stato ucciso proprio lui. Arrivavano i colleghi di Paolo Borsellino, arrivava il figlio Manfredi mentre le fiammate che ancora divampavano dalle automobili bruciate venivano spente a secchiate d’acqua.

E nel caotico via vai che si era creato, si cercava di transennare la zona, mentre la scena del crimine di uno dei più gravi delitti commessi dalla mafia già appariva compromesso da quel caos miscelato a sgomento, rabbia e paura.

Nei giorni successivi proseguivano i lavori di recupero – scrive Enrico Deaglio nel “Il vile agguato” – ma senza metodo. Cinquantasei sacchi neri, quelli usati per l’immondizia, venivano riempiti di pezzi di ferro, di cicche, di detriti e inviati per l’analisi agli esperti dell’Fbi. Lunedì 20 luglio una targa – PA 878659 – veniva ritrovata sotto un’auto bruciata. A molta distanza dall’esplosione veniva rivenuto un intero blocco motore di un’utilitaria. Tre giorni dopo, a seguito dell’inventario delle ventuno automobili coinvolte nell’esplosione, la targa e il blocco motore sarebbero diventate per gli inquirenti, coadiuvati dai tecnici della Fiat di Termini Imerese che risalivano al numero di telaio, parte della stessa autovettura: una Fiat 126 del 1985, che sarebbe risultata poi essere stata rubata il 9 luglio alla signora Pietrina Valenti.

Intanto, sempre in quel 20 luglio, il signor Giuseppe Orofino, proprietario di una carrozzeria in via Messina Marine, si accorgeva che era avvenuto un furto. Da una Fiat 126 di proprietà della signora Anna Maria Sferrazza, erano state sottratte le targhe, il libretto di circolazione e l’assicurazione. Il signor Orofino si recava subito al commissariato di Polizia per denunciare il furto. Ma qui, “con sua grande sorpresa, trasformatasi subito in timore, si trova trattato come un delinquente. L’officina viene perquisita, lui stesso intimidito”.

Poi, il 13 agosto 1992, a nemmeno un mese di distanza dalla strage, un appunto del Servizio segreto civile partiva dal centro Sisde di Palermo verso Roma, protocollato col numero 2298/Z.3068, per informare che “in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abitava la madre del Giudice Paolo Borsellino. […] In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Un appunto su cui nessun agente in servizio all’epoca tra Palermo e Roma ha saputo o voluto dare spiegazioni. Un appunto strano e inquietante, perché a quella data non c’era ancora alcun pentito che parlasse del garage che avrebbe nascosto la Fiat 126. Solo un mese più tardi, il 13 settembre, Salvatore Candura avrebbe cominciato a parlare di questa macchina fino ad autoaccusarsi del furto commissionatogli da tale Vincenzo Scarantino, delinquente e piccolo spacciatore, “che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire”. Poi sarebbe arrivato il “pentito” Francesco Andriotta a confermare la confessione dello stesso Scarantino, che più volte aveva ritrattato e più volte aveva ammesso le proprie responsabilità, dimostrando soltanto un fatto: di non essere credibile. Tutto falso, come le dichiarazioni di Andriotta e Candura, ma, invece, tutto giudicato attendibile dagli organi inquirenti e giudicanti, che sulle dichiarazioni di Scarantino hanno istruito processi e condannato individui che non c’entravano nulla con la strage.

Soprattutto, si è costruita una falsa verità sulla morte di Paolo Borsellino a cui avremmo dovuto credere, quasi ciecamente. Su cui lo stesso Paolo è morto nuovamente, insieme agli agenti della sua scorta.

Il depistaggio. A neanche un’ora dalla strage, si sa che a causare l’esplosione è stata un’autobomba. Ancor prima di dare notizia della morte di Borsellino, si viene a sapere che la vettura utilizzata è una Fiat.

L’Ansa, nel rilanciare la notizia dell’attentato, sbaglia solo il modello, una 600 anziché una 126. L’auto era stata imbottita di tritolo il giorno prima, il 18 luglio (ma questo si sarebbe saputo solo tempo dopo), e parcheggiata in via D’Amelio o la stessa notte o poco prima dell’alba del giorno dopo, lontano da occhi indiscreti, in quella via che pare fatta a posta – dato che è chiusa – per organizzare un attentato ai danni di Borsellino; in quella via che è ben visibile – e il linea d’aria assai vicina – dal Castello Utveggio; in quella via che finisce in un giardino su cui sta sorgendo una nuova palazzina, appartenente ai fratelli Graziano, noti costruttori edili.

Per una buona mezz’ora, però, nessuno sapeva nulla. A parte quattro uomini a bordo di una piccola imbarcazione nelle tiepide acque del mare che bagna Palermo.

Scrive Deaglio nel suo libro, sottolineando la singolarità della compagnia: “Il proprietario della barca, signor Giovanni Valentino, ha un grosso negozio di abiti da sposa ed è in buoni contatti con il noto mafioso Raffaele Ganci; il dottor Lorenzo Narracci è il fedele assistente del capo dei Servizi segreti, Bruno Contrada, anche lui presente. (Abita ormai a Roma, ma è tornato a Palermo per le ferie.) C’è anche un capitano dei carabinieri. Alle ore 16.58 e venti secondi, mezza Palermo ha sentito il boato, ma non saprà per almeno mezz’ora che cosa è successo. Sulla barca ricevono una telefonata che parla di un attentato e il dottor Contrada ottiene conferma dal centro Sisde di Palermo che si è trattato di un attentato contro il giudice Borsellino, per cui decidono di tornare a riva, cambiarsi d’abito e andare a dare un’occhiata sul luogo dell’eccidio. Lo scambio delle telefonate ha occupato appena il tempo di cento secondi. Certo, se il capo era in ferie in barca, al centro Sisde di Palermo erano sul pezzo. Nonostante fosse una domenica di luglio”.

La vicenda di Bruno Contrada, poi, sappiamo come è andata a finire. Quel giorno però, c’era una città che si stava stringendo attorno al suo ultimo paladino.

Alcuni magistrati del Palazzo di Giustizia chiesero le dimissioni del procuratore capo Pietro Giammanco, che quasi in sordina sarebbe uscito silenziosamente di scena poco tempo dopo, per poi ritornare alla ribalta quando si sarebbe appreso di un Paolo Borsellino furioso perché lo stesso Giammanco non gli aveva comunicato di una notizia confidenziale riguardante un possibile attentato nei suoi confronti per mezzo di esplosivo. Notizia che il magistrato ottenne quasi per caso, durante un incontro fortuito con il Ministro Salvo Andò che lo informò a riguardo.

La famiglia Borsellino rifiutò i funerali di Stato mentre quelli degli agenti della scorta del magistrato, che si tennero in Cattedrale, si trasformarono in un assalto ai rappresentanti delle Istituzioni al grido “Via la mafia dallo stato”. A loro si unirono altre migliaia di cittadini. Il neoeletto Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, venne difeso dalle aggressioni, non dalla scorta, ma da Giuseppe Ayala e dal capo della Polizia Vincenzo Parisi. Era il ventre molle dello Stato, squarciato, e che allora cercava di riassettarsi con l’invio dell’esercito pronto all’operazione “Vespri Siciliani”, scendendo in forze in un’isola che era tutta Palermo e in quella Palermo – mentre nelle carceri alla notizia della morte di Borsellino, i mafiosi stappavano bottiglie di Champagne – pareva ci fosse la forza per togliersi dal giogo mafioso.

Per rassicurare il popolo, occorreva trovare al più presto un colpevole. Le indagini sulla strage vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (morto nel 2002). Fu il Prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde (poi senatore del PD, morto nel 2015) a optare per questa scelta, confermata da un decreto urgente della Presidenza del Consiglio. La Barbera era un vecchio amico di De Sena e – particolare non di poco conto – era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto, con il nome in codice “Rutilius” (notizia che si sarebbe appresa nel 2010).

In altre parole, all’indomani della strage, il Sisde decise di affidare le indagini a un uomo del Sisde.

A fine settembre veniva trovato un “colpevole”, si chiamava Vincenzo Scarantino, aveva all’epoca 27 anni e precedenti penali per furto e spaccio. Era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati in agosto per presunta violenza carnale. A dicembre, neanche due mesi dopo l’arresto di Scarantino, in seguito ad un’indagine collegata alle ultime investigazioni di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, veniva arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”, Bruno Contrada (uno dei quattro uomini che era in barca quel pomeriggio del 19 luglio e che presto accorreva in via D’Amelio), ai vertici del Sisde, i cui colleghi erano quelli che perseguivano la pista Scarantino.

L’arresto di quest’ultimo veniva annunciato così dal Procuratore Tinebra: “Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio”. Ma ai giornalisti che già obiettavano nella prima conferenza stampa su come Cosa Nostra avesse fatto ad affidarsi a un balordo, Tinebra rispondeva: “Scarantino non è un uomo di manovalanza”.

Il 24 giugno 1994 Scarantino iniziava a parlare. Denunciava, poi ritrattava, si smentiva da solo, piangeva. Si vociferavano storie di tradimenti e omosessualità. Veniva messo a confronto con alcuni mafiosi di rango, divenuti collaboratori di giustizia, e da lui accusati di aver preso parte al disegno stragista di Cosa Nostra. Gli stessi mafiosi non riconoscevano Scarantino, sentendosi presi quasi in giro e suggerendo ai magistrati di non dargli ascolto.

Col tempo, le dichiarazioni di Scarantino venivano perfezionate: la Fiat 126 non l’avrebbe presa alla Guadagna, la sua borgata, ma in via Roma. Parlava di Salvatore Cancemi, Santino Di Matteo, Raffaele Ganci e Giovanni Brusca, chiarendo il perché della sua ritrosia a fare i nomi di questi ultimi due: “Avevo paura di far i loro nomi perché sapete quelli si mangiano i bambini vivi; me l’ha detto mio cognato”.

Emergevano anche testimonianze di promesse da parte dei poliziotti, di violenze in carcere e di pressioni sulla sua famiglia (il fratello dichiarava: “Stanno vestendo il pupo”), di verbali ritoccati e concordati, di interrogatori condotti in modi anomali. Scarantino arrivava persino a telefonare a “Studio Aperto”, tg di Italia1, per denunciare la situazione che era costretto a subire (eppure allora la Procura di Caltanissetta riteneva credibile Scarantino così come i giudici che, sulla base delle dichiarazioni dello stesso Scarantino e di quelle resa da Salvatore Candura e da Francesco Andriotta, hanno emesso sentenze di condanna a carico di personaggi che non c’entravano con l’attentato. Altri magistrati che interrogavano Scarantino, invece, si dissociavano dalla scelta di ritenerlo uno dei colpevoli della strage, come il magistrato Alfonso Sabella, che, ascoltandolo a Palermo, lo definiva “fasullo dalla testa ai piedi”).

Si tratta, ancora oggi, di un “passaggio” assai delicato che coinvolge magistrati assai importanti che hanno spinto Fiammetta Borsellino, terzogenita del giudice, a fare pubblicamente una serie di domande che attendono ancora risposta.

La missiva sull’inattendibilità del falso pentito, infine, sarebbe stata rivenuta poi a Palermo e non a Caltanissetta. Misteri, dunque, assai velenosi. E, nonostante i dubbi, Vincenzo Scarantino rimaneva per quasi vent’anni, un’abile stratega militare, un picciotto salito presto al rango di mafioso, a cui Cosa Nostra aveva affidato il compito di uccidere Paolo Borsellino.

I processi hanno dato credito alle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino: un’ottantina di giudici tra l’Assise, l’Appello e la Cassazione hanno condannato persone che nulla hanno avuto a che fare con la strage.

I processi (1994-2008). Il primo processo, celebrato dalla Corte d’Assise di Caltanissetta presieduta da Renato Di Natale, si era concluso il 26 gennaio 1996 con la condanna all’ergastolo per Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, mentre il collaboratore Vincenzo Scarantino veniva condannato a 18 anni di carcere, così come chiedeva la Procura. In secondo grado, la Corte presieduta da Giovanni Marletta confermava l’ergastolo soltanto per Profeta, mentre a Orofino venivano inflitti 9 anni per favoreggiamento mentre Pietro Scotto veniva assolto. La Cassazione, nel 2000, confermava la sentenza di secondo grado. Nel mentre era iniziato il processo Borsellino Bis che si conclude il 13 febbraio 1999, con sette ergastoli comminati a Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto. Poi, dieci altre condanne per associazione mafiosa. Il 18 marzo 2002, in appello viene inasprito il verdetto, portando a tredici le condanne a vita, così come chiedeva la Procura di Caltanissetta: vengono condannati a vita Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Scarantino, che precedentemente aveva ritrattato, era tornato ad accusare, ed in parte viene nuovamente creduto. Nel 2003 la Cassazione conferma la sentenza d’appello.

Il 28 gennaio 1998 si apriva il cosiddetto Borsellino Ter che si concludeva in primo grado nel dicembre del 1999 con 17 ergastoli e 175 anni di reclusione (e 10 assoluzioni). Carcere a vita per Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (classe 1955), Cristoforo Cannella, Domenico e Stefano Ganci. Ventisei anni per il pentito Salvatore Cancemi, 23 anni per Giovanbattista Ferrante, 16 anni a Giovanni Brusca.

In appello, l’8 febbraio 2002, il giudizio si fa più tenue. Solo 11 sono gli ergastoli confermati – e due sono nuovi, Salvatore Biondo (classe 1956) e Francesco Madonia – mentre Stefano Ganci viene condannato a 30 anni, a venti invece Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Nino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi.

Il 18 gennaio 2003 la Cassazione conferma gli ergastoli a Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe 1955) e Salvatore Biondo (classe 1956). Mentre vengono confermate le assoluzioni per Salvatore Montalto, Benedetto Spera e Mariano Agate. Vengono annullate le condanne per strage di Stefano Ganci e Francesco Madonia, accusati della sola associazione mafiosa. L’intervento della Cassazione, che annulla e rinvia le posizioni di alcuni imputati, ha determinato un nuovo processo d’appello, a Catania.

Il 9 luglio 2003 lo stralcio del Borsellino Ter e di una parte del procedimento per la strage di Capaci (entrambi rinviati dalla Cassazione alla seconda corte d’Assise d’Appello di Catania) vengono riuniti in un unico processo che si conclude nel 2006 con le condanne all’ergastolo per i capi mafia Giuseppe e Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate e Benedetto Spera. A vent’anni di carcere viene condannato Antonino Giuffrè e ventisei anni vengono inflitti a Stefano Ganci. Tale sentenza diventa definitiva in Cassazione il 18 settembre 2008.

Gaspare Spatuzza. L’anno 2008 pare essere lo spartiacque della lunga storia dei processi sulla Strage di via D’Amelio. Si concludono i procedimenti giudiziari iniziati ancora prima del nuovo Millennio. Soprattutto, inizia a collaborare un mafioso fino ad allora sconosciuto ai più: Gaspare Spatuzza, che non solo ammette di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso nel 1993, ma dice anche di aver rubato la Fiat 126 usata per l’attentato. Spatuzza racconta con dovizia di particolari la stagione delle stragi di Cosa Nostra, sbugiardando quanto ammesso, anche non volutamente, da Vincenzo Scarantino e, di fatto, la versione precostituita che il falso pentito aveva, a fasi alterne, portato avanti fino a quel momento. Spatuzza viene ritenuto attendibile. È questo non piccolo particolare la vera svolta perché costringe a rivedere tutta la montatura orchestrata fino ad allora. In altre parole, finalmente si può parlare, anche se inizialmente con molta fatica, di depistaggio sulla strage di vi D’Amelio.

Sarà un caso che nel 2008 si concludono i “vecchi” processi e Spatuzza si penta?

Dieci anni prima, nel giugno del 1998, Gaspare Spatuzza, arrestato nell’estate del 1997, incontra in carcere Pierluigi Vigna, Procuratore Nazionale Antimafia (morto nel 2012), e Pietro Grasso, allora suo vice.

È un colloquio informale, investigativo, per ottenere informazioni ma esse non possono essere usate durante un processo. Il colloquio fu registrato (ma trascritto undici anni dopo, nel 2009) con notizie che vengono mantenute segrete – come solitamente accade – fino al 2013 quando, per sbaglio – nel vero senso della parola – le 80 pagine di trascrizione vengono allegate alla carte pubbliche di un nuovo processo (il Borsellino Quater) da parte della Pubblica Accusa. Per legge, quindi, queste pagine sono anche consultabili dagli avvocati difensori. E infatti, uno di questi, interroga Spatuzza sui fatti descritti in quelle pagine. Succede un parapiglia e, dopo le obbiezioni dei pm, il Presidente della Corte decide che, nonostante l’errore, quelle carte non sono utilizzabili. Intanto però Gaspare Spatuzza, prima di tale decisione, ha risposto alle domande postegli in merito alle informazioni contenute in quelle 80 pagine. O meglio, ha risposto dicendo di non ricordare, in maniera molto evasiva, o negando, dicendo di non aver mai firmato quel verbale (cosa normale, in effetti, perché ancora non aveva deciso di collaborare). Spatuzza ricorda solo di aver avuto un colloquio con Vigna o Grasso nell’anno del suo arresto, nel 1997.

Perché Spatuzza nega l’incontro? In quella trascrizione effettivamente qualcosa di importante c’èIl pentito nel 1998, nel pieno dei primi processi sulla Strage di via D’Amelio, metteva al corrente Vigna e Grasso che la “pista Scarantino” era sbagliata. Che Orofino non c’entrava nulla con il furto della Fiat 126. (“Non esiste completamente”, dice Spatuzza riferendosi al coinvolgimento di Scarantino nella strage, facendo poi riferimento alla situazione carceraria vissuta da Scarantino e nominando La Barbera.) Ora, ammettendo anche che questo verbale dovesse essere mantenuto per legge segreto, risulta difficile credere che il Procuratore Nazionale Antimafia e il suo vice non abbiano dato alcuna comunicazione – cosa che comunque si poteva fare – di tali importanti notizie alle Procure interessate (compresa quella di Caltanissetta). In effetti Grasso ha riferito che Vigna doveva aver inviato le informazioni alle Procure competenti.

Quindi cosa è successo – o meglio cosa non è successo – per dieci anni, dal 1998 al 2008, anno in cui il nuovo Procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari dice di aver ricevuto il verbale di trascrizione?

Successivamente, alla fine del processo Borsellino Quater – aprile 2017 – il Presidente della Corte decide che la trascrizione del verbale del 1998 di Spatuzza – che intanto fa sapere che già nel 1997 aveva cercato di mettere in guardia gli organi inquirenti (“Ho cercato già nel ’97 di mettere in guardia l’istituzione, a dire: siate cauti per la questione di via D’Amelio perché la storia non è così. Però non ho sentito più nessuno [….] Purtroppo hanno seguito un altro… e oggi ci troviamo qui a rifare tutto daccapo”) – si può rendere pubblica. Al contrario, non si può rendere pubblico l’audio di quell’incontro. Perché viene presa questa decisione, alquanto illogica? C’è da pensare che i contenuti non coincidano.

La revisione. Il 13 luglio 2017, a quasi venticinque anni di distanza dal 19 luglio 1992, il Processo di Appello di revisione per la Strage di via D’Amelio, voluto dalla Procura di Caltanissetta nel 2011, a seguito delle dichiarazioni di Spatuzza, si conclude con l’assoluzione dal reato di strage per dieci imputati: Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Assolto anche Salvatore Tommasello, che intanto è deceduto. Di queste dieci persone, tre all’epoca dell’arresto erano incensurate: Murana, Urso e Vernengo.

Giuseppe “Franco” Urso, cugino del pentito Francesco Marino Mannoia, era stato peraltro assolto al Maxi processo, dal reato di associazione mafiosa, arrestato il 18 luglio del 1994 e poi scarcerato il 13 febbraio del 1999 con la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che lo assolveva per la strage, ma gli infliggeva 10 anni per associazione mafiosa. Dal 18 marzo del 2002 (condanna in appello all’ergastolo per la strage), fino al 23 maggio del 2003 si era reso irreperibile. Urso è il cognato di Cosimo Vernengo, figlio del boss Pietro, condannato all’ergastolo al Maxi processo. Arrestato anche lui il 18 luglio del 1994 e poi scarcerato il 13 febbraio del 1999, la Corte d’assise di Caltanissetta lo aveva assolto dal reato di strage ma lo aveva condannato a 10 anni per associazione mafiosa. Condannato all’ergastolo in appello per la strage, si era reso irreperibile dal 18 marzo 2002 al 6 marzo 2004. Gli altri imputati nei processi Borsellino Uno e Borsellino Bis avevano già delle pendenze con la giustizia; erano tutte persone conosciute nell’ambiente criminale, lo stesso frequentato da Scarantino.

La vicenda di Salvatore Profeta è assai emblematica in questo senso: questi non si può certamente definire un innocente visto che, già condannato per mafia ed estorsione, scarcerato nel 2011, è stato nuovamente arrestato una volta tornato alla guida della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù nel 2015.

Facile ipotizzare, quindi, che Vincenzo Scarantino all’epoca avesse accusato della strage di Via D’Amelio persone che lui sapeva essere di un certo ambiente, come dimostrano le condanne per mafia nel caso di Urso e Vernengo, comunque non cancellate. A Vincenzo Scarinto, a termine del processo d’Appello di revisione, il reato è stato prescritto, venendo riconosciuta l’attenuante di essere stato indotto a fare false accuse. Da chi? Solo da Arnaldo La Barbera? E perché? (A proposito, il 1 luglio 2018 la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, poliziotti all’epoca del gruppo di La Barbera, per il reato di calunnia in concorso. Nel 2015 sempre Mario Bo e i suoi colleghi Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera erano stati indagati sempre per calunnia ma prosciolti per il depistaggio sulla strage, mentre altri due poliziotti nel 2016 venivano messi sotto inchiesta: Giacomo Pietro Guttadauro e Domenico Militello, accusati da Scarantino di averlo indotto a rendere falsa testimonianza insieme ad altri colleghi.)

Tuttavia, è sicuramente il caso di Gaetano Murana a ridefinire la tragedia nella tragedia. 18 anni in carcere da innocente. 18 anni di carcere, una moglie e un figlio – all’epoca dell’arresto – di due mesi. 18 anni di carcere perché era stato riconosciuto colpevole di aver partecipato alla riunione deliberativa della strage con i capi di Cosa Nostra; di aver “bonificato” la zona in cui sarebbe passata la Fiat 126; di aver fatto da battistrada alla stessa auto, dall’officina di Orofino fino a piazza Leoni. Condotto a Pianosa, aveva subito sevizie, perquisizioni anali, botte, angherie, come i profilattici messi nel brodo o il peperoncino nella marmellata di ciliegie – il tutto sempre accompagnato dalle risate delle guardie. Murana è figlio di un pescatore, faceva lo spazzino all’Amia. Per via del processo è stato prima sospeso e poi licenziato. Quando venne assolto in primo grado tornò in servizio e il primo incarico che gli diedero fu quello di andare a spazzare davanti al carcere dell’Ucciardone. Murana non ha mai avuto un confronto con Scarantino, era sconosciuto a tutti e gli era stato assegnato un difensore d’ufficio, fino a quando l’Avvocato Rosalba Di Gregorio non si interessò alla sua situazione. Arrestato il 19 luglio 1994. Scarcerato il 14 febbraio 1999. Veniva condannato all’ergastolo e rientrava in carcere spontaneamente nel 2002. Fu l’unico che non si rese irreperibile. E disse anche il perché ad un giornalista che gli domandava perché non fosse scappato. “Non ci ho proprio pensato, io ero innocente”, rispose Murana. Usciva dal carcere il 27 ottobre 2011 per sospensione della pena, dopo che le accuse di Scarantino erano definitivamente crollate. Prima, quando Scarantino fece la sua grande prima ritrattazione, disse di lui: “Murana l’ho accusato perché lo conoscevo e mi era antipatico perché non mi dava confidenza”. Successivamente, a un giornalista che domandava a Murana cosa avrebbe fatto se avesse visto Scarantino, lui rispose: “Ma guardi, lo inviterei anche a prendere un caffè. Perché hanno preso in giro pure lui”. 18 anni in carcere da innocente perché era ritenuto colpevole dalla Procura di Caltanissetta, perché Scarantino era attendibile ma c’erano anche “prove inconfutabili”, perché i giudici di primo grado, di secondo grado e della Cassazione hanno creduto a tutto questo.

Il Borsellino Quater. Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Così si esprimono i giudici del processo Borsellino Quater, iniziato nel 2013, in riferimento ai primi due processi, l’uno e il bis. Con il Quater si condannano all’ergastolo Salvo Madonia e Vittorio Tutino, mentre vengono inflitti 10 anni di carcere per calunnia ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. E il depistaggio, secondo i giudici, è “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri. E in questo modo sono state realizzate “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”.

La Corte, pertanto, evidenzia non solo il ruolo del gruppo investigativo – quello guidato da Arnaldo La Barbera – ma sottolinea come a monte vi fosse l’agire di un’entità oscura – chiamiamola così – che tale è rimasta. Secondo i giudici, a proposito di Scarantino, del tutto estraneo ai fatti della strage, “è del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”. Continuano i giudici: “Le anomalie nell’attività di indagine continuarono anche nel corso della “collaborazione” dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla “ritrattazione della ritrattazione”, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero. Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il “metodo Falcone””.

Le dichiarazioni di Scarantino erano da considerare inattendibili fin dall’inizio, come evidenziano i giudici, ricordando quanto già emerso fin dal primo interrogatorio quando il soggetto in questione menzionava ad esempio “la ricerca di una “bombola” da far esplodere per realizzare l’attentato”. Aggiunge la Corte: “Assolutamente anomala appare, ad esempio, la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino, detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia. Una evidente anomalia è riscontrabile pure nelle condotte poste in essere da alcuni degli appartenenti al “Gruppo Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato, i quali, mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia, dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. “Borsellino uno”. Tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’Ispettore Fabrizio Mattei, escusso all’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino. Risulta però del tutto inverosimile che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura, e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale”.

È lecito quindi interrogarsi “sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:

  • alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziata dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà;
  • ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
  • alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra “Cosa Nostra” e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.

Paolo Borsellino, infatti, “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ”Cosa Nostra””. E pertanto – scrivono i giudici – tornano alla mente le dichiarazioni del pentito Nino Giuffré il quale raccontò che “prima di passare all’attuazione della strategia stragista erano stati effettuati ”sondaggi” con ”persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico”. Cosa per altro percepita dallo stesso Paolo Borsellino, il quale proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, “disse alla moglie Agnese Piraino «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato»”.

I dettagli. Il 19 luglio 1992 sono i dettagli a fare la differenza. E lo sarebbero stati anche negli anni a seguire. Ne abbiamo scelti tre. Il primo dettaglio sono dei mozziconi di sigarette. Vengono trovati dagli agenti Mario Ravidà e Francesco Arena che il 20 luglio perlustrano la palazzina in costruzione in cui si getta via D’Amelio: “Abbiamo trovato un porta leggermente aperta e siamo entrati. Il palazzo era definito in tutta la sua struttura. Siamo saliti su per la scala e abbiamo notato una persona sulla scala. Gli abbiamo chiesto il documento ed era il costruttore del palazzo. C’era anche il fratello. Erano due dei Graziano. Abbiamo notato all’ultimo piano, un ufficio con una scrivania, un ufficio. E da li stesso abbiamo chiamato la centrale. La visuale da lassù era perfetta per azionare la bomba. Una visuale perfetta”. I due poliziotti sono curiosi, molto curiosi, e annotano tutto quello che vedono: “C’era un vetro, robusto, doppio, e c’erano anche delle cicche. Abbiamo rilevato dei numeri di cellulare, raro per quel periodo, abbiamo fatto relazione e consegnato tutto al dirigente, non ricordo se al dirigente della Criminalpol di Palermo, Di Costanzo o Tucci (entrambi deceduti, ndr). Relazione mai rinvenuta, ma io sono certissimo che fu fatta. Scoprì che non c’era quando mi convocò la Dda di Caltanissetta”. Di quella relazione non si saprà mai nulla; né verranno analizzati i mozziconi di sigarette per eventuali tracce di dna; né verranno sviluppati i tabulati telefonici dei fratelli Graziano – prestanome dei mafiosi Madonia.

Tra le macerie di quella che un attimo prima delle 16.58 era una normale strada, vengono notati alcuni uomini “in giacca e cravatta”. È il secondo dettaglio della strage. Il Sovrintendente di Polizia Francesco Paolo Maggi, arrivato sul posto circa dieci minuti dopo l’esplosione, notava Antonio Vullo in evidente stato di shock, seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani. Maggi sperando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta, poiché i loro corpi erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. Ed è in quel momento, mentre i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio sulla Croma blindata di Paolo Borsellino, che Maggi notava alcune persone, vestite tutte uguali, che si aggiravano anche nei pressi della macchina del Magistrato. A raccontarlo è lui stesso: “Uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa… proprio senza una goccia di sudore”. Era “gente di Roma” che lo stesso Maggi conosceva di vista, appartenenti ai Servizi Segreti, che “inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci. La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo”. Garofalo riferisce pure di aver rivolto qualche parola con uno di questi soggetti, che si era qualificato, mostrando un tesserino: “[…] non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede (…) della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. (…) Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su (…) quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere… di appartenere ai Servizi”.

Il terzo dettaglio è quello più famoso. C’è una fotogramma che ritrae il Capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli, immortalato mentre si allontana dal luogo della strage con in mano la borsa di pelle, pressoché integra, di Paolo Borsellino. Un comportamento “grave” su cui lo stesso Arcangioli non ha saputo dare spiegazioni plausibili. La borsa in questione, che il magistrato aveva poggiato tra il sedile anteriore e quello posteriore, conteneva i suoi effetti personali e la famosa “agenda rossa”, su cui Borsellino era solito annotare tutte le notizie e le intuizioni più importanti e rilevanti per le sue indagini. Risulta illogico – se non per fini oscuri – che durante il caos e il dramma del 19 luglio, il capitano dei Carabinieri si sia premurato “di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”. Ma non sarà l’unico ad avere tra le mani la borsa di Paolo Borsellino.

Secondo la ricostruzione di Arcangioli, la borsa veniva consegnata dallo stesso all’ex magistrato Giuseppe Ayala (o al Dott. Teresi), il quale gli aveva chiesto di prenderla per appurare che vi fosse l’agenda di Borsellino al suo interno. Una volta che Ayala aveva controllato il contenuto della borsa, vedendo che vi erano solo fogli sparsi, Arcangioli depositava la borsa all’interno dell’auto dello stesso Ayala. Tale ricostruzione è stata smentita dallo stesso ex magistrato, il quale ha dichiarato di aver tenuto in mano la borsa per pochi secondi e di averla data a un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, prima di andare a rassicurare i propri figli, poiché si era sparsa la voce che la vittima dell’attentato fosse lui.

Esiste, però, un’altra versione sulla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino: un vigile del fuoco seguendo le disposizioni dell’agente di Polizia, Francesco Paolo Maggi, spegneva il focolaio d’incendio sulla Fiat Croma blindata del magistrato. L’auto tra l’altro aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. La borsa veniva prelevata quasi sicuramente dal vigile del fuoco, che la passava allo stesso Maggi. Il poliziotto comprendeva che la borsa era piena dal peso della stessa, ma non ne controllava il contenuto. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, tale dottor Fassari, che teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile. Maggi eseguiva gli ordini, portando la borsa dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera, lasciandola sul divano dell’ufficio. La relazione di servizio su questa attività veniva redatta soltanto 5 mesi più tardi, su esplicita richiesta di Arnaldo La Barbera ed unicamente in vista dell’audizione, che si sarebbe tenuta pochi giorni dopo, dello stesso Maggi davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta. Ai familiari di Paolo Borsellino non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa. Anzi ad Agnese, la moglie di Paolo, veniva mentito: Arnaldo La Barbera le diceva che la borsa era andata distrutta nell’esplosione. Alcuni mesi dopo la strage, però, La Barbera si recava a casa della Signora Agnese per restituirle la borsa del marito “che avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio)”; in questa occasione Lucia Borsellino, una delle due figlie del magistrato, chiedeva a La Barbera di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre, non presente dentro la borsa. La Barbera, con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire e di fronte all’insistenza della ragazza, con la sua voce roca da accanito fumatore, diceva ad Agnese che la figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto “delirava” e “farneticava”. Questo atteggiamento – scrivono i giudici del Borsellino Quater – “rivelava non solo impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre”.

19 luglio 1992. Una strage di Stato. Ancora oggi non sappiamo dove sia e perché sia stata presa l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Ancora oggi non sappiamo chi ha premuto il radiocomando dell’autobomba. Ancora oggi non conosciamo il perché del depistaggio sulla Strage di via D’Amelio. Ancora oggi non sappiamo chi voleva morto il giudice Paolo COSA VOSTRA 14.7.2019 di Francesco Trotta 


 Via D’Amelio: la storia sofferta di una mezza verità   – 19 luglio 1992 – Via D’Amelio: la storia sofferta di una mezza verità Sono passati 25 anni dall’attentato che tolse la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta.

Si sono succedute inchieste e processi, ma restano ancora domande senza risposta: chi sono i mandanti occulti della strage? Chi ha ordito il depistaggio che ha fatto condannare innocenti e coperto i veri responsabili? – di Federico Marconi

Raccontare la storia dei 25 anni trascorsi dalla strage di via D’Amelio significa fare i conti con indagini e processi, mezze verità e totali bugie, false testimonianze e depistaggi. Le vicende giudiziarie sono riuscite a individuare chi fece esplodere la bomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.  Purtroppo ancora sfuggono i mandanti occulti di quel tragico delitto: perché se c’è una certezza è che Cosa Nostra non ha fatto tutto da sola.

LE CONDANNE INGIUSTE  Sicuramente con l’attentato del 19 luglio 1992 Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura non c’entrano nulla.  Condannati nel gennaio del 1996 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel primo troncone del processo sui fatti di via D’Amelio, i nove componenti del “mandamento” della Guadagna sono stati assolti lo scorso 13 luglio dalla Corte d’Appello di Catania. «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio» hanno dichiarato nelle battute finali del procedimento le due procuratrici generali di Catania.

41 bis  Così tradiamo la memoria di Falcone e Borsellino

La sentenza del tribunale etneo mette fine a una vicenda cominciata il 27 settembre 1992, quando il gruppo investigativo speciale “Falcone-Borsellino” guidato dall’ex capo della mobile di Palermo (e agente del Sisde) Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. I due picciotti della Guadagna dichiarano: “abbiamo rubato la Fiat 126 fatta esplodere a via D’Amelio”. Inoltre accusano alcuni compari di mandamento: Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto. Le dichiarazioni di Scarantino vengono confermate da Francesco Andriotta, suo compagno di cella a Busto Arsizio, a cui il killer avrebbe confidato la storia del furto e dell’esecuzione dell’attentato.  Le rivelazioni di Scarantino coinvolgevano anche Salvatore Cancelli e Gioacchino La Barbera, due collaboratori di giustizia, che da subito accusano il pentito di dire falsità nelle sue dichiarazioni. O «fregnacce pericolose» come ha affermato Ilda Bocassini nel 2014, procuratore aggiunto di Milano, tra il ’92 e il ’94 applicata alla Procura di Caltanissetta che si occupava degli attentati a Falcone e Borsellino.  «Dissi che andava sospeso tutto, che dovevamo verificare» continua la Boccassini, audita nel corso del processo di revisione «anche gli investigatori nutrivano dubbi su Scarantino, ma i pm hanno deciso di andare avanti per quella strada».

video – Paolo Borsellino, l’ultima intervista due mesi prima di morire

IL DEPISTAGGIO Tutto l’impianto accusatorio del “Borsellino uno”, iniziato nell’ottobre 1994, veniva retto dalla confessione di Scarantino. Ma i dubbi sulla sua affidabilità si facevano sempre più forti: gli avvocati difensori si chiedevano come fosse possibile che un balordo del genere potesse essere stato utilizzato per un’operazione complessa come l’attentato di via D’Amelio. Non solo, nel corso dei confronti i collaboratori di giustizia facevano a pezzi “Vincenzino”.  «Ma a questo come gli date ascolto? State attenti: è falso» dichiara ai giudici Salvatore Cancemi «non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo». Lezione che presto si stufa di ripetere. Nel luglio del 1995, in un’intervista telefonica a Studio Aperto, Scarantino ritratta: «Ho detto bugie, accusato innocenti». Ma per i pm di Caltanissetta non cambia molto. «È probabile che Scarantino stia vivendo un momento di difficoltà» ribatte il sostituto procuratore Giordano «in ogni caso, il fatto che abbia deciso di fare marcia indietro non risponde a verità».

Per il pm Carmelo Petralia invece «un’ eventuale ritrattazione non avrebbe alcun effetto sul processo: le indagini non sono legate solo alle dichiarazioni dei collaboranti». Il 26 gennaio 1996 il processo arriva a sentenza. Ergastolo per Profeta, 18 anni a Scarantino, 9 anni a Orofino per favoreggiamento, assolto Scotto. Le condanne verranno confermate in Cassazione. Pochi mesi dopo, il 14 maggio, inizia il “Borsellino Bis”. Alla sbarra Totò Riina, il boss della Guadagna Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Antonino Gambino,  Lorenzo Tinnirello, e i latitanti Natale Gambino e Giuseppe La Mattina. Secondo l’accusa Riina e gli altri si sono riuniti agli inizi di luglio a casa di Calascibetta per «delineare le modalità di consumazione della strage». Anche questa volta l’impianto accusatorio si regge sulle accuse di Scarantino, che viene chiamato a testimoniare il 14 settembre 1998.

per la seconda volta, ritratta: «Io non c’entro nulla con l’omicidio Borsellino». «A Pianosa il carcere era durissimo, cibo scarso e con i vermi. La Barbera mi disse che in cambio delle mie accuse mi sarei fatto solo qualche anno di galera e mi avrebbe dato 200 milioni» dichiara il pentito davanti a giudici e telecamere. Ma ancora una volta la sua ritrattazione non viene creduta. A febbraio del 1999 arrivano le condanne: ergastolo per Totò Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Gli altri imputati sono  condannati a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage. Le condanne diventano definitive con il passaggio in Cassazione nel 2003.  Durante il processo di Appello, un nuovo pentito conferma le accuse ritrattate ma comunque credute di Scarantino: Gaetano Pulci, braccio destro del boss Giuseppe Madonia. «Gaetano Murana mi ha confidato in cella di aver preso parte alla strage di via D’Amelio» le parole di Pulci, che permettono ai giudici di cementare la versione di Scarantino.

I MANDANTI OCCULTI  Pulci, in carcere per scontare una pena di 21 anni per omicidio, aveva numerose conoscenze nel mondo della politica: per questo è una fonte inesauribile di dichiarazioni eclatanti per gli inquirenti siciliani.

Non solo per i giudici dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, ma anche per quelli a lavoro sulla trattativa Stato-mafia e sui “mandanti occulti” delle stragi di maggio-luglio 1992.

«C’erano alcuni ministri tra le persone di cui ho sentito parlare che garantivano Cosa nostra della riuscita delle stragi. Con nome e cognome, non che io presumo» afferma Pulci.

Le sue dichiarazioni finiscono così nel fascicolo che la Procura di Caltanissetta aveva aperto nel 1993 per fare chiarezza sulle personalità esterne a Cosa Nostra che hanno ordinato e agevolato le stragi.

Sotto inchiesta personalità di spicco nell’Italia degli anni ’90: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Il fascicolo viene però archiviato nel 2003: «Gli atti dell’indagine, a prescindere dal loro valore probatorio, non potrebbero sostenere l’ipotesi accusatoria di un concorso di Berlusconi e Dell’Utri nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio», la motivazione del Gip Giovanbattista Tona.

NUOVE CONDANNE Le indagini non si fermano e nel 1998 ha inizio il terzo processo sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati i boss Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, accusati di aver ordinato l’eliminazione di Borsellino.

L’iter processuale, che durerà dieci anni, porterà alle condanne di tutti gli imputati.

Nel 2003 si torna in aula. Questa volta a Catania, dove si celebra un processo unico per le stragi del 23 maggio e del 19 luglio. Nel 2006 vengono condannati all’ergastolo boss Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi ritenuti colpevoli di entrambi gli eccidi.

Per la strage di Capaci l’ergastolo è inflitto a Giuseppe Montalto, Francesco e Giuseppe Madonia, mentre per via d’Amelio a Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e Benedetto Spera. Le pene sono confermate dalla Cassazione nel 2008.

LA SVOLTA Sempre nel 2008, la svoltaInizia a collaborare con la giustizia Gaspare Spatuzza, U’ tignusu, killer della cosca di Brancaccio. Le rivelazioni fatte ai giudici sono eclatanti: «Sono stato io a rubare la Fiat 126 esplosa in via D’Amelio, incaricato dai fratelli Graviano».

La versione di Spatuzza smentisce la testimonianza di Scarantino e degli altri pentiti su cui i giudici avevano fondato i primi tre processi.

La procura di Caltanissetta riapre le indagini sulla strage e nel 2009 Scarantino e Candura dichiarano ai pm di essere stati costretti a dichiarare il falso da Arnaldo La Barbera e il suo gruppo investigativo.

Ha così inizio il “Borsellino Quater”, quarto processo sulla strage del 19 luglio. «Mi massacrarono, mi fracassarono.

Un poliziotto mi fece sbattere la testa a terra mentre io piangevo» dichiara nell’udienza del 10 ottobre 2013 Salvatore Candura «Io continuavo a proclamarmi innocente, ma La Barbera mi diceva “sarò la tua ossessione, ti farò dare l’ergastolo: io ho le prove”». il 1 aprile 2014 testimonia al processo anche Scarantino: !

Mi hanno distrutto la vita, sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie. Ho sempre detto che della strage non so niente e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni».

Agenda Rossa, mistero senza risposta

Nel corso del dibattimento si parla quindi di “depistaggio di Stato”, e si cercano le responsabilità soprattutto nel gruppo investigativo di La Barbera che arrestò e gestì da subito gli interrogatori di Candura e Scarantino.

Non solo, nel novembre 2014 le dichiarazioni di un nuovo pentito permettono di fare maggiore chiarezza sulla strage. Fabio Tranchina, autista del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, ha dichiarato ai giudici che «fu Graviano ad azionare il telecomando che fece esplodere la bomba in via D’Amelio».

Le dichiarazioni contrastavano con le parole di Totò Riina di pochi mesi prima. Intercettato durante l’ora d’aria trascorsa con il mafioso Alberto Lorusso, il boss parlava «della bomba azionata da un interruttore nel citofono». I giudici del “Borsellino quater” considerano attendibili le deposizioni di Spatuzza e Tranchina, mentre nessun elemento conferma la versione del “citofono” di Riina.

LE DOMANDE SENZA RISPOSTA Rimangono però ancora degli interrogativi: chi ha avuto interesse a deviare le indagini dai veri sicari di Paolo Borsellino? Chi ha pilotato le dichiarazioni del pentito Scarantino, ostacolando le indagini?

La versione di Scarantino indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel mandamento dei Graviano nel quartiere di Brancaccio. E la differenza non è da poco: Guadagna e Brancaccio sono due mondi lontani per le loro “relazioni esterne”, per i rapporti dei rispettivi boss.

I fratelli Graviano sono stati a lungo sospettati di avere instaurato un legame con Marcello Dell’Utri, oggi in carcere a Rebibbia per scontare una pena di sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

E Gaspare Spatuzza lo dichiara davanti ai giudici: «Giuseppe Graviano mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Il boss aggiunse che ‘grazie alla serietà di queste persone, ci avevano messo il Paese nelle mani».

A 25 anni dal 19 luglio 1992 non sappiamo ancora molto. Chi è stato l’artificiere che ha imbottito di 90 chili di espolosivo la Fiat 126? Chi è la persona esterna a Cosa Nostra che, secondo le dichiarazioni di Spatuzza, era presente quando è arrivato l’esplosivo? Che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, con gli appunti sulle sue ultime indagini? Sono domande a cui nuove inchieste giudiziarie potrebbero dare risposta.

«Dobbiamo pretendere la verità utile a dare un nome e un cognome alle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti».

Ha detto Fiammetta Borsellino lo scorso 23 maggio, nel giorno del 25° anniversario della strage di Capaci, nel corso di una trasmissione su Rai1. Le “menti raffinatissime” esterne a Cosa Nostra ma che con lei spartivano affari, interessi, potere.

Mafia – Borsellino, ecco perché ci vergogniamo

È giusto ricordare quel che ha dichiarato la signora Agnese Borsellino ai magistrati nel settembre 2009. Il marito Paolo, giudice che nella vita aveva conosciuto mafiosi a migliaia, «ha visto la Mafia in faccia» non dopo un processo, né durante un interrogatorio di un boss. Ma dopo essere stato al Ministero degli Interni il 17 luglio 1992. Due giorni prima di morire. espresso.repubblica.it 19.7.2017


Strage di via D’Amelio   

La strage di via D’Amelio fu un attentato di stampo terroristico – mafioso avvenuto domenica 19 luglio 1992, all’altezza del numero civico 21 di via Mariano D’Amelio a Palermo, in Italia, in cui persero la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino CatalanoEmanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio[1]), Vincenzo Li MuliWalter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, che al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta.[2][3][4][5]

 

Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H (miscela di PETNtritolo e T4)[6][7] telecomandati a distanza, venne fatta esplodere in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato), presso le quali il giudice quella domenica si era recato in visita;[8][9] l’agente sopravvissuto Antonino Vullo descrisse così l’esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto […] ».[2]

Lo scenario descritto da personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati».[2][10] L’esplosione causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti.[11] Sul luogo della strage, pochi minuti dopo il fatto, giunse immediatamente il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.[12]

Gli agenti di scorta ebbero a dichiarare che la via D’Amelio era considerata una strada pericolosa in quanto molto stretta, tanto che, come rivelato in una intervista rilasciata alla Rai da Antonino Caponnetto, era stato chiesto alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, richiesta rimasta però senza seguito.

Prime indagini e il processo “Borsellino uno”  Le prime indagini sulla strage di via d’Amelio vennero coordinate dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella (cui si aggiunsero negli anni successivi i sostituti Annamaria PalmaNino Di Matteo e Carmelo Petralia)[13][14]. Fu così che nel settembre 1992 il gruppo investigativo denominato “Falcone-Borsellino” e guidato dal questore Arnaldo La Barbera riuscì ad individuare ed arrestare i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino (due balordi della Guadagna con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale),[15] i quali si autoaccusarono del furto della Fiat 126 utilizzata nell’attentato: tale circostanza venne confermata dal detenuto Francesco Andriotta, il quale era stato compagno di cella di Scarantino nel carcere di Busto Arsizio ed aveva riferito agli inquirenti di avere ricevuto confidenze dallo stesso Scarantino sull’esecuzione della strage; in particolare Scarantino dichiarò di avere ricevuto l’incarico del furto della Fiat 126 dal cognato Salvatore Profeta (mafioso della Guadagna, morto nel 2019[16]) e di avere portato l’auto rubata nell’officina di Giuseppe Orofino, dove venne preparata l’autobomba; inoltre Scarantino accusò un gruppo di fuoco del “mandamento” di Santa Maria di Gesù-Guadagna (Pietro Aglieri, lo stesso Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia) di essere gli esecutori della strage di via d’Amelio e riferì di avere assistito per caso ad una riunione ristretta della “Commissione” nella villa del mafioso Giuseppe Calascibetta dove venne decisa l’uccisione di Borsellino.[8][17]

In un successivo interrogatorio, Scarantino dichiarò che alla riunione nella villa di Calascibetta erano presenti anche Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, entrambi diventati collaboratori di giustizia, i quali però negarono la circostanza e, durante i confronti dinanzi ai pubblici ministeri, accusarono Scarantino di dire falsità nelle sue dichiarazioni.[17][18] Tali dichiarazioni portarono al primo troncone del processo per la strage di via d’Amelio (denominato “Borsellino uno”), che iniziò nell’ottobre 1994 e vedeva imputati Scarantino, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto (tecnico telefonico e fratello del mafioso Gaetano, accusato dagli inquirenti di aver manomesso gli impianti telefonici del palazzo di via D’Amelio per intercettare le telefonate della madre del giudice Borsellino al fine di conoscere i movimenti del magistrato).[19]

Durante le udienze, gli avvocati difensori chiamarono a testimoniare un transessuale e due travestiti che affermavano di avere avuto una relazione con Scarantino, al fine di screditarne le dichiarazioni;[20] infine nel luglio 1995 Scarantino ritrattò le sue accuse nel corso di un’intervista telefonica trasmessa da Studio Aperto, dichiarando di avere accusato degli innocenti.[21] Tuttavia i giudici non ritennero veritiera tale ritrattazione e nel 1996 la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Renato Di Natale, condannò in primo grado Profeta, Orofino e Scotto all’ergastolo mentre Scarantino a diciotto anni di carcere.[22] Nel gennaio 1999 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanni Marletta, giudicò inattendibile Scarantino perché smentito dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante[23], assolvendo Pietro Scotto mentre la condanna di Orofino venne ridotta a nove anni, derubricandola in favoreggiamento; la condanna all’ergastolo per Profeta e quella a diciotto anni per Scarantino vennero invece confermate[24]. Nel dicembre 2000 tali condanne e l’assoluzione di Scotto vennero confermate dalla Corte di Cassazione.[22]

Borsellino bis  Nel gennaio 1996 vennero rinviati a giudizio Salvatore RiinaPietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano e Salvatore Biondino (accusati da Scarantino di aver partecipato alla riunione in cui venne decisa l’uccisione di Borsellino) ma anche Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Natale ed Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Salvatore Tomaselli, Giuseppe Romano e Salvatore Vitale (accusati sempre da Scarantino di essersi occupati della preparazione dell’autobomba e del trasferimento della stessa sul luogo dell’attentato), i quali figurarono imputati nel secondo filone del processo per la strage di via d’Amelio (denominato “Borsellino bis”), che iniziò il 14 maggio dello stesso anno.[25] Nel settembre 1998, durante un’udienza, Scarantino ritrattò pubblicamente tutte le sue accuse, sostenendo di avere subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa e di essere stato costretto a collaborare dal questore La Barbera.[26]

Tuttavia i giudici non credettero nuovamente a questa ennesima ritrattazione e nel 1999 la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Pietro Falcone, condannò in primo grado Salvatore RiinaPietro AglieriSalvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia all’ergastolo mentre Giuseppe Calascibetta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo e Salvatore Vitale vennero condannati a dieci anni di carcere per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage; stessa cosa per Antonino Gambino, Gaetano Murana e Salvatore Tomaselli, che però furono condannati a otto anni; l’unico assolto fu Giuseppe Romano.[27]

Durante il processo d’appello, venne acquisita anche la testimonianza del collaboratore di giustizia Calogero Pulci (ex mafioso di Sommatino e uomo di fiducia del boss Giuseppe “Piddu” Madonia), il quale dichiarò che Gaetano Murana gli avrebbe confidato in carcere di aver partecipato alle fasi esecutive della strage, confermando così le dichiarazioni di Scarantino;[18][28] inoltre nell’udienza del 23 maggio 2001 testimoniò anche il vicequestore Gioacchino Genchi (ex membro del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” del questore Arnaldo La Barbera), che avanzò l’ipotesi secondo cui il telecomando che provocò l’esplosione venne azionato dal castello Utveggio, sul monte Pellegrino, dove secondo le sue indagini si trovava una sede distaccata del SISDE, notizia che risultò falsa.[29][23] Infine nel marzo 2002 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, presieduta da Francesco Caruso, giudicò attendibile Pulci, condannando all’ergastolo per il reato di strage anche Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che in primo grado erano stati invece assolti da questa accusa; vennero anche confermati gli ergastoli inflitti a Salvatore RiinaPietro AglieriSalvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia e le condanne a dieci anni di carcere per Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, quelle a otto anni per Salvatore Tomaselli e Antonino Gambino, nonché l’assoluzione per Giuseppe Romano.[30] Nel luglio 2003 tali condanne e l’assoluzione di Romano vennero confermate dalla Corte di Cassazione.[31]

Borsellino ter  Nel 1998 iniziò il terzo troncone del processo (denominato “Borsellino ter”), scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante, Giovanni BruscaSalvatore CancemiCalogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo: gli imputati erano Giuseppe “Piddu” MadoniaBenedetto SantapaolaGiuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele GanciAntonino GiuffrèFilippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo ProvenzanoFrancesco MadoniaMariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino GeraciGiuseppe LuccheseBenedetto Spera e gli stessi collaboratori Brusca e Cancemi (accusati di essere i componenti delle “Commissioni” provinciale e regionale di Cosa Nostra e quindi di avere avallato la realizzazione della strage) ma anche Salvatore Biondo (classe 1955), l’omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante (accusati di avere provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l’esplosione e di avere segnalato telefonicamente gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta poco prima della strage).[32]

Nel 1999 la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Carmelo Zuccaro, condannò in primo grado all’ergastolo Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (classe 1955), Cristofaro Cannella, Domenico e Stefano Ganci mentre il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi venne condannato a ventisei anni di carcere, l’altro collaboratore Giovan Battista Ferrante a ventitré anni, Francesco Madonia a diciotto anni, Salvatore Biondo (classe 1956) a dodici anni mentre Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a sedici anni.[32][33] Nel febbraio 2002 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo, modificò la sentenza di primo grado: vennero condannati all’ergastolo Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristofaro Cannella, Salvatore Biondo (classe 1955) e Salvatore Biondo (classe 1956); Stefano Ganci venne condannato a vent’anni di carcere, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi a sedici anni per associazione mafiosa (ma assolti dal reato di strage) mentre venne confermata la pena per Agate, Buscemi, Spera e Lucchese; invece i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovan Battista Ferrante ricevettero pene tra i diciotto e i sedici anni.[34]

Nel gennaio 2003 la Corte di Cassazione annullò con rinvio alla Corte d’assise d’appello di Catania le assoluzioni dall’accusa di strage per Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Benedetto Santapaola e Antonino Giuffrè mentre venne annullata con rinvio anche la condanna per associazione mafiosa per Giuseppe Madonia e Giuseppe Lucchese; le altre condanne e assoluzioni vennero invece confermate.[35] Il 9 luglio 2003 lo stralcio del Borsellino ter e parte del procedimento per la strage di Capaci, entrambi rinviati dalla Cassazione alla Corte d’assise d’appello di Catania, vennero riuniti in un unico processo perché avevano imputati in comune:[36] vennero ascoltati in aula i nuovi collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè, Ciro Vara e Calogero Pulci (che resero dichiarazioni sulle riunioni delle “Commissioni” provinciale e regionale di Cosa Nostra in cui vennero decise le stragi)[37] e nell’aprile 2006 la Corte d’assise d’appello di Catania condannò all’ergastolo Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Benedetto Santapaola mentre, per la strage di Capaci, vennero condannati all’ergastolo anche Giuseppe Montalto, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Mariano Agate e Benedetto Spera; Antonino Giuffrè e Stefano Ganci vennero condannati rispettivamente a venti e ventisei anni di carcere; Giuseppe Lucchese venne invece assolto.[38] Nel settembre 2008 la Corte di Cassazione confermò questa sentenza.[39]

L’indagine sui mandanti occulti e sulla scomparsa dell’agenda rossa  Nel 1993 la Procura di Caltanissetta aprì un secondo filone d’indagine parallelo per accertare le responsabilità nelle stragi di Capaci e via d’Amelio di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all’organizzazione mafiosa (i cosiddetti “mandanti occulti” o “a volto coperto”): nel 1998 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sotto le sigle “Alfa” e “Beta” per concorso in strage, soprattutto in seguito alle dichiarazioni de relato del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi;[40] tuttavia nel 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò l’inchiesta su “Alfa” e “Beta” al termine delle indagini preliminari poiché non si era potuta trovare la conferma delle chiamate de relato.[41]

Nel 1994 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l’ex funzionario di Polizia e dirigente del SISDE Bruno Contrada (già sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa) per concorso in strage[42], sulla base della testimonianza dell’allora capitano dei carabinieri Umberto Sinico, il quale, pochi giorni dopo la strage, aveva rivelato ai magistrati di aver saputo da una «fonte segreta» che Contrada era stato fermato in via d’Amelio dalla prima volante accorsa dopo l’esplosione ma la relazione di servizio che lo attestava era stata distrutta su ordine dei loro superiori[43]; a ciò si aggiunsero nel 1997 le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Elmo (faccendiere implicato in vari traffici illeciti che affermava di aver militato nell’Organizzazione Gladio) il quale sosteneva di essere passato per caso nei pressi di via d’Amelio dopo l’attentato e di aver visto Contrada tra le fiamme allontanarsi con una borsa[44]: dopo vari tentennamenti, Sinico rivelò finalmente che la sua «fonte segreta» era il funzionario di polizia Roberto Di Legami, il quale negò la circostanza e, per questo motivo, nel 2002 venne rinviato a giudizio per falsa testimonianza, venendo poi assolto con formula piena tre anni dopo[45][46]. Nel gennaio 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò la posizione di Contrada perché le prove non erano sufficienti e poiché era stato dimostrato che l’ex funzionario, nelle ore della strage, si trovava in barca a largo di Palermo insieme ad amici[47].

Sempre nel 2002, la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati anche gli imprenditori Antonino Buscemi, Pino Lipari, Giovanni Bini, Antonino Reale, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano (ex titolari di grandi imprese edili collegate alla Calcestruzzi S.p.A. del Gruppo Ferruzzi-Gardini che si occupavano dell’illecita gestione dei grandi appalti per conto dell’organizzazione mafiosa) per concorso in strage, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino e Giovanni Brusca:[48][49] le indagini infatti ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondire delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sul filone “mafia e appalti” insieme al ROS;[49][50] tuttavia nel 2003 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò le indagini sugli accusati perché “gli elementi raccolti non appaiono idonei a sostenere l’accusa” in giudizio.[49]

Nel febbraio 2006 la Procura di Caltanissetta aprì un’indagine sulla scomparsa dell’agenda rossa del giudice Borsellino, in seguito alla segnalazione di una fotografia scattata da un giornalista subito dopo l’attentato in cui si vedeva l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli che si allontanava da via d’Amelio con la borsa del giudice Borsellino, che venne ritrovata nell’auto distrutta dall’esplosione dopo alcune ore. Interrogato dai magistrati, Arcangioli (diventato colonnello) sostenne di avere consegnato la borsa ai giudici Vittorio Teresi e Giuseppe Ayala (i quali erano sopraggiunti sul luogo della strage), ma essi negarono la circostanza: per queste ragioni, il colonnello Arcangioli venne inizialmente indagato per false dichiarazioni[51] ma nel febbraio 2008 il giudice per le indagini preliminari lo incriminò anche per il furto dell’agenda rossa e la Procura di Caltanissetta ne chiese il rinvio a giudizio:[52] tuttavia il giudice dell’udienza preliminare rigettò la richiesta, sostenendo che non vi erano le prove per un’incriminazione di Arcangioli poiché la borsa in questione rimase per quattro mesi presso la squadra mobile di Palermo senza essere aperta e quindi l’agenda potrebbe essere stata sottratta in un momento successivo ma avanzò anche l’ipotesi che, al momento dell’attentato, Borsellino avesse l’agenda rossa in mano e non nella borsa (come testimoniato dall’agente sopravvissuto Antonino Vullo)[2] e quindi questa andò distrutta nell’esplosione. Per questi motivi, la Procura di Caltanissetta fece ricorso in Cassazione, che però non lo accolse, sostenendo la tesi del giudice dell’udienza preliminare.[18]

Nel 2009, sulla base delle nuove rivelazioni dei collaboratori di giustizia Vito Lo Forte e Francesco Marullo, la Direzione Nazionale Antimafia guidata da Pietro Grasso identificò “faccia da mostro” (fantomatico killer con il volto deturpato al soldo di mafia e servizi segreti deviati) in Giovanni Aiello[53][54], un ex poliziotto che aveva prestato servizio in Sicilia e poi era stato congedato perché sfigurato ad una guancia da una fucilata[55]: sempre nello stesso anno, la Procura di Caltanissetta iscrisse Aiello nel registro degli indagati per concorso nelle stragi di Capaci e via d’Amelio (ma anche per il fallito attentato all’Addaura) poiché appunto i due collaboranti avevano parlato di un suo presunto ruolo nei tre attentati[56]; l’indagine venne però archiviata nel 2012 dal giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta perché non si trovarono conferme al racconto di Lo Forte e Marullo, pur sostenendo che «molteplici altre circostanze inducono a identificare il soggetto di cui hanno parlato i collaboratori Lo Forte e Marullo nella persona dell’odierno indagato».[57][53]

Nel 2010 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l’ex funzionario del SISDE Lorenzo Narracci (braccio destro di Bruno Contrada) per concorso in strage, in quanto il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza l’avrebbe riconosciuto fotograficamente come l’uomo misterioso presente nel garage dove venne preparata l’autobomba[18][58]; Narracci si difese affermando che nelle ore della strage si trovava ad una gita in barca a largo di Palermo insieme al collega Contrada ed altri amici[47] e nel 2016 le accuse vennero archiviate poiché il riconoscimento effettuato da Spatuzza non era certo[59][18].

Il processo “Borsellino quater” e sulla “trattativa Stato-mafia”  Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e si autoaccusò del furto della Fiat 126 utilizzata nell’attentato, smentendo la versione data dai collaboratori di giustizia Scarantino e Candura: in particolare Spatuzza dichiarò di avere compiuto il furto dell’auto la notte dell’8 luglio 1992 (undici giorni prima dell’attentato) insieme al suo sodale Vittorio Tutino, su incarico di Cristofaro Cannella e Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio); Spatuzza riferì anche che portò l’auto rubata nell’officina di tale Maurizio Costa (dove vennero riparati i freni e la frizione danneggiati) e poi il 18 luglio (il giorno prima della strage) in un altro garage vicino a via d’Amelio, dove Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia provvidero a preparare l’innesco e l’esplosivo all’interno dell’auto.[18][60] In seguito a queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Sergio Lari, affiancato dai procuratori aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone e dai pm Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio[61]: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta dichiararono ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li sottoposero a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso, mentre l’ex collaboratore Calogero Pulci sostenne di avere agito di sua iniziativa perché, a suo dire, voleva aiutare gli inquirenti.[18]

Nel 2009, in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che riguardavano l’inchiesta sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia“, le Procure di Caltanissetta e Palermo ascoltarono le testimonianze di Liliana Ferraro (ex vice direttore degli affari penali presso il Ministero della Giustizia) e dell’ex ministro Claudio Martelli, i quali confermarono di essere stati avvicinati dall’allora colonnello dei carabinieri Mario Mori che chiedeva “copertura politica” per i suoi contatti con Vito Ciancimino al fine di fermare le stragi; in particolare la Ferraro dichiarò che ne parlò con il giudice Borsellino, che si dimostrò già informato dei contatti tra Ciancimino e i carabinieri.[62] Infatti l’inchiesta fece emergere che il 25 giugno 1992 (circa un mese prima di essere ucciso) Borsellino s’incontrò con il colonnello Mori e con l’allora capitano Giuseppe De Donno: secondo quanto dichiarato da Mori e De Donno ai magistrati, durante quell’incontro Borsellino si limitò a parlare con loro sulle indagini dell’inchiesta “mafia e appalti”.[62] Nello stesso periodo, Agnese Piraino Leto (vedova di Borsellino) dichiarò ai magistrati che, qualche giorno prima di essere ucciso, il marito le confidò che il generale dei carabinieri Antonio Subranni (diretto superiore del colonnello Mori) era vicino ad ambienti mafiosi e che c’era un contatto tra mafia e parti deviate dello Stato.[18] I magistrati di Palermo e Caltanissetta acquisirono anche le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca nel processo “Borsellino ter”,[32] in cui affermavano che Salvatore Riina fece sospendere la preparazione dell’attentato contro l’onorevole Calogero Mannino ed insistette particolarmente per accelerare l’uccisione di Borsellino ed eseguirla con modalità eclatanti[18]; in particolare, Riina avrebbe detto a Brusca che la trattativa si era improvvisamente interrotta e c’era «un muro da superare» e, secondo il magistrato Nino Di Matteo (che condusse le indagini sulla “Trattativa”), la strage di via d’Amelio fu eseguita per «proteggere la trattativa dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l’esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l’esito auspicato»[62].

Nell’aprile 2011 anche Fabio Tranchina (ex uomo di fiducia di Giuseppe Graviano) iniziò a collaborare con la giustizia, confermando le dichiarazioni di Spatuzza: infatti Tranchina riferì che una settimana prima della strage aveva compiuto due appostamenti in via d’Amelio insieme a Graviano, il quale gli chiese anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze ma poi gli disse che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d’Amelio per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.[18][63] Per queste ragioni, il 27 ottobre dello stesso anno la Corte d’assise d’appello di Catania dispose la sospensione della pena per Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Vincenzo Scarantino, che erano stati condannati nei processi “Borsellino uno” e “Borsellino bis”.[64]

Il 2 marzo 2012 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta Alessandra Giunta emise un’ordinanza di custodia cautelare per Vittorio Tutino, Calogero Pulci (accusato di calunnia), Salvatore Madonia (accusato di essere stato un componente della “Commissione provinciale” di Cosa Nostra in qualità di reggente del mandamento di Resuttana e quindi di avere avallato la strage) e Salvatore Vitale (accusato da Spatuzza di avere messo a disposizione il suo maneggio per la consegna delle targhe rubate da apporre sull’autobomba per evitarne l’identificazione e di avere controllato le visite del giudice Borsellino alla madre poiché abitava nello stesso palazzo in via d’Amelio):[18][61] tuttavia il procedimento a carico di Vitale venne sospeso per via delle sue gravi condizioni di salute, che lo portarono alla morte qualche tempo dopo;[65] infine, nel novembre dello stesso anno, la Procura di Caltanissetta chiuse le indagini sulla strage.[66]

Il 13 marzo 2013 il giudice dell’udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato i collaboratori Spatuzza e Tranchina rispettivamente a quindici e dieci anni di carcere per il loro ruolo avuto nella strage, mentre l’ex collaboratore Salvatore Candura venne condannato a dodici anni per calunnia aggravata;[67] qualche giorno dopo si aprì il quarto processo per la strage di via d’Amelio (denominato “Borsellino quater”), che vedeva imputati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci.[68]

Nell’aprile 2017 la Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Antonio Balsamo, condannò in primo grado Tutino e Madonia all’ergastolo per il reato di strage mentre gli ex collaboratori Andriotta e Pulci vennero condannati a dieci anni di carcere per calunnia; il reato di Scarantino venne invece prescritto grazie alla concessione delle attenuanti per essere stato indotto a rendere false dichiarazioni[69]. Il 15 novembre 2019 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, presieduta dal giudice Andreina Occhipinti, confermò le condanne di primo grado e la prescrizione per Scarantino[70][71]. Il 5 ottobre 2021 la Cassazione confermò integralmente tale sentenza.[72]

Per quanto riguarda il processo sulla Trattativa Stato-mafia, il 4 novembre 2015 il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella ha assolto Calogero Mannino (giudicato con il rito abbreviato) dall’accusa a lui contestata per “non aver commesso il fatto[73]; la sentenza di assoluzione è stata confermata in appello il 22 luglio 2019[74] e anche dalla Cassazione l’11 dicembre 2020[75]. Per gli imputati giudicati con il rito ordinario, Il 20 aprile 2018 la Corte d’Assise di Palermo, presieduta dal dott. Alfredo Montalto, pronunciò la sentenza di primo grado, con la quale vennero condannati a dodici anni di carcere Mario MoriAntonio SubranniMarcello Dell’UtriAntonino Cinà, ad otto anni Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino (per lui il reato venne prescritto), a ventotto anni Leoluca Bagarella; vennero inoltre prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, e venne assolto Nicola Mancino[76]. Il 23 settembre 2021 la Corte d’assise d’appello di Palermo ribaltò la sentenza di primo grado e assolse Mori, Subranni e De Donno perché “il fatto non costituisce reato” e l’ex senatore Dell’Utri “per non aver commesso il fatto”, mentre confermò la prescrizione per Brusca e la condanna a dodici anni del capomafia Antonino Cinà e ridusse a ventisette anni la pena al boss Bagarella.[77]

Processo sul presunto depistaggio delle indagini  Nel luglio 2018 la Procura di Caltanissetta chiese il rinvio a giudizio per il funzionario di polizia Mario Bo e per gli ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l’accusa di calunnia in concorso; i tre infatti avevano fatto parte del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato dal questore Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002) che si occupò delle prime indagini sulla strage di via d’Amelio e avevano gestito la controversa collaborazione con la giustizia di Vincenzo Scarantino: secondo le indagini della Procura di Caltanissetta e le prove emerse durante il processo di primo grado denominato “Borsellino quater”, i tre poliziotti avrebbero indotto Scarantino a rendere false dichiarazioni sottoponendolo a minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche[78][79][80]. Il processo iniziò il 5 novembre dello stesso anno dinanzi al Tribunale di Caltanissetta[81].

Processo nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d’Amelio  Nel gennaio 2016 il gup di Caltanissetta emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denarocapomandamento di Castelvetrano latitante dal 1993, con l’accusa di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio[82]. L’imputazione si basava sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia già acquisite nei vari processi sulle stragi che si sono celebrati negli anni precedenti: infatti, secondo i collaboratori Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci e Giovanni Brusca, nel settembre 1991 Messina Denaro partecipò ad una riunione a Castelvetrano in cui Salvatore Riina comunicò la decisione di dare il via alla strategia stragista, inviando appunto a Roma il boss castelvetranese insieme ad altri mafiosi per uccidere Giovanni Falcone, salvo poi richiamarli in Sicilia per eseguire l’attentato diversamente[83]; inoltre, sempre secondo Sinacori, Geraci e Brusca, lo stesso Messina Denaro avrebbe progettato l’omicidio di Paolo Borsellino mentre questi era Procuratore capo a Marsala poiché il giudice era stato tra i primi inquirenti, insieme al commissario Calogero Germanà, ad indagare sulle attività della “famiglia” Messina Denaro, all’epoca pressoché sconosciuta agli organi investigativi, ed infatti aveva emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa nei confronti del “patriarca” Francesco Messina Denaro, padre di Matteo[84][82][85].

Per questi motivi, l’anno successivo il gup di Caltanissetta Marcello Testaquadra dispose il rinvio a giudizio per Messina Denaro con l’accusa di strage; il processo si aprì il 13 marzo dello stesso anno[86][87][88].

Il 20 ottobre 2020 la Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Roberta Serio, condannò all’ergastolo Messina Denaro in contumacia per il reato di strage[85].

Note

  1. ^STORIA DI EMANUELA MORTA IN DIVISA A VENTIQUATTRO ANNI, su repubblica.it. URL consultato il 12 dicembre 2018 (archiviato il 22 febbraio 2014).
  2. ^Salta a:a b c d L’Espresso, Arianna Giunti, Via D’Amelio, ancora troppi misteri Archiviato il 4 dicembre 2013 in Internet Archive., 18 luglio 2013
  3. ^DI STRAGE IN STRAGE, su repubblica.it. URL consultato il 12 dicembre 2018 (archiviato il 22 febbraio 2014).
  4. ^paolo-borsellino-attentato, su it. URL consultato il 12 dicembre 2018 (archiviato il 6 marzo 2019).
  5. ^La strage di Via D’Amelio dagli archivi ANSA, su it, 19 luglio 2018. URL consultato il 12 dicembre 2018 (archiviato il 6 marzo 2019).
  6. ^Sentenza Corte di Cassazione – Sezione I Penale (pag. 3) (PDF), su it. URL consultato il 24 marzo 2014 (archiviato il 24 marzo 2014).
  7. ^Strage del rapido 904, il consulente del pm: “L’esplosivo è lo stesso di via D’Amelio” Archiviato il 16 dicembre 2014 in Internet Archive. Rainews.it
  8. ^Salta a:a b Giovanni Bianconi, Il pentito e le stragi. La nuova verità che agita l’antimafia, in Corriere della Sera, 22 aprile 2009. URL consultato il 17 marzo 2010 (archiviato il 27 gennaio 2011).
  9. ^Di Giovacchino
  10. ^Primo rapporto della squadra mobile di Palermo sulla strage di via d’Amelio(PDF). URL consultato l’11 settembre 2014 (archiviato dall’url originale il 14 ottobre 2014).
  11. ^gli abitanti: cortei e Tv ma non ci pagano i danniArchiviato il 3 dicembre 2013 in Internet Archive. Corriere della Sera, 19 luglio 1993.
  12. ^SIAMO STATI SFRATTATI DALLA MAFIA, su repubblica.it. URL consultato il 30 gennaio 2014(archiviato il 19 febbraio 2014).
  13. ^STRAGE BORSELLINO MAFIOSO IN MANETTE – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  14. ^Depistaggio via D’Amelio, Nino Di Matteo: “Non fu solo strage di mafia. L’agenda rossa di Borsellino non è sparita per mano dei boss. Ci siamo scontrati con reticenze istituzionali bestiali”, su Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2020. URL consultato il 15 maggio 2021.
  15. ^UNA PISTOLA A 13 ANNI E UN BOSS PER COGNATO, su repubblica.it. URL consultato il 30 gennaio 2014(archiviato il 19 febbraio 2014).
  16. ^Morto boss mafioso Salvatore Profeta, su it. URL consultato il 19 settembre 2018(archiviato il 19 settembre 2018).
  17. ^Salta a:ab FUI IO A PROCURARE L’AUTOBOMBA, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014 (archiviato il 21 febbraio 2014).
  18. ^Salta a:ab c d e f g h i j k Audizione del procuratore Sergio Lari dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia – XVI LEGISLATURA (PDF). URL consultato il 30 gennaio 2014 (archiviato dall’url originale il 29 ottobre 2013).
  19. ^‘ ERA LUI A SPIARE BORSELLINO…, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  20. ^‘ SCARANTINO È OMOSESSUALE, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  21. ^‘ HO DETTO BUGIE’ IL PENTITO RITRATTA MA È UN GIALLO, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  22. ^Salta a:ab Borsellino condanne confermate, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014 (archiviato il 21 febbraio 2014).
  23. ^Salta a:ab La Procura di Caltanissetta ascolta il vicequestore Genchi – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 6 novembre 2020.
  24. ^Borsellino, due assolti, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  25. ^RIINA E ALTRI 17 A GIUDIZIO PER VIA D’AMELIO, su repubblica.it. URL consultato il 3 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  26. ^Scarantino ritratta: “Su Borsellino ho mentito”, su it. URL consultato il 4 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  27. ^Borsellino bis, sette ergastoli Credibile il pentito Scarantino, su repubblica.it. URL consultato il 4 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  28. ^Sbugiardato un altro pentito, su repubblica.it. URL consultato il 4 novembre 2014(archiviato il 4 novembre 2014).
  29. ^Continua ad adombrarla la frase “In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi”, attribuita ad un imputato del processo per la trattativa Stato-mafia da due agenti di scorta presenti alla trasmissione della seduta del 31 maggio 2013, secondo Trattativa, le “confessioni” di Riina agli agenti del Gom: “Il mio arresto? Colpa di Provenzano e Ciancimino”, Fatto quotidiano, 30 giugno 2016Archiviato il 1º luglio 2016 in Internet Archive..
  30. ^Borsellino bis, ergastoli confermati maxi risarcimento da 300 mila euro, su repubblica.it. URL consultato il 6 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  31. ^il mafioso non accetta il carcere, su repubblica.it. URL consultato il 6 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  32. ^Salta a:ab c Sentenza della Cassazione per il processo “Borsellino ter” (PDF). URL consultato il 10 febbraio 2014 (archiviato il 22 febbraio 2014).
  33. ^la Repubblica/cronaca: Omicidio Borsellino pioggia di ergastoli, su repubblica.it. URL consultato il 13 maggio 2021.
  34. ^Borsellino ter, undici ergastoli, su repubblica.it. URL consultato il 10 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  35. ^Via D’Amelio, strage della cupola, su repubblica.it. URL consultato l’11 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  36. ^Processo unico per le stragi, su repubblica.it. URL consultato l’11 febbraio 2014(archiviato il 5 aprile 2018).
  37. ^Sentenza d’appello del processo stralcio per le stragi di Capaci e via d’Amelio(PDF).
  38. ^la sentenza, su repubblica.it. URL consultato l’11 febbraio 2014(archiviato il 5 aprile 2018).
  39. ^Strage del ’92 carcere a vita per i mandanti, su repubblica.it. URL consultato l’11 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  40. ^Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia – XVI LEGISLATURA(PDF). URL consultato l’11 settembre 2014 (archiviato dall’url originale il 21 marzo 2014).
  41. ^Francesco Viviano, Stragi di Capaci e via D’Amelio archiviazione per Berlusconi, in la Repubblica, 4 maggio 2002. URL consultato l’8 ottobre 2011(archiviato il 30 aprile 2011).
  42. ^PER LA STRAGE DI VIA D’AMELIO CONTRADA DAVANTI AL GIUDICE – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  43. ^Stragi, il mistero Contrada – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  44. ^‘HO VISTO CONTRADA SUL LUOGO DELLA STRAGE’ – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  45. ^‘Contrada era in via D’Amelio’ vicequestore a giudizio per falso – la Repubblica.it, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  46. ^Di Legami, il superpoliziotto di Palermo che ha indagato sul cyberspionaggio, su la Repubblica, 11 gennaio 2017. URL consultato il 16 maggio 2021.
  47. ^Salta a:ab Perché Narracci è ancora in servizio? I dubbi di Briguglio sull’uomo dei misteri, su Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2010. URL consultato il 15 maggio 2021.
  48. ^Brusca: “Riina voleva sfruttare la Ferruzzi. C’era anche l’aggancio con un magistrato”Archiviato il 6 ottobre 2014 in Internet Archive. Corriere della Sera, 11 febbraio 1999
  49. ^Salta a:ab c Marco Travaglio, Suicidio Gardini e fondi riciclati le nuove verità dei pm antimafia, in la Repubblica, 16 ottobre 2003. URL consultato l’11 settembre 2014 (archiviato l’11 settembre 2014).
  50. ^TRA I MEDIATORI C’ ERANO PANZAVOLTA E SALAMONE, su Archivio – la Repubblica.it. URL consultato il 29 maggio 2021.
  51. ^Agenda Borsellino c’ è un indagato, su repubblica.it. URL consultato il 16 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  52. ^Un militare rubò l’agenda di Borsellino, su repubblica.it. URL consultato il 16 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  53. ^Salta a:ab Stragi: per i pm ha un nome “Faccia da mostro”, cerniera tra Stato e mafia, su Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2013. URL consultato il 24 giugno 2021.
  54. ^Blog | Esclusivo/2 Stragi mafiose: L’atto di impulso investigativo della Dna su “faccia di mostro” scompare nella Procura di Palermo, su Il Sole 24 ore, 16 novembre 2016. URL consultato il 25 luglio 2021.
  55. ^Ecco chi è la donna del mistero nelle stragi siciliane: per la prima volta svelata la sua identità, su L’Espresso, 3 maggio 2021. URL consultato il 24 giugno 2021.
  56. ^Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a ‘faccia da mostro’, su la Repubblica, 9 luglio 2014. URL consultato il 24 giugno 2021.
  57. ^Relazione di minoranza sulla morte di Attilio Manca, Doc. XXIII, n. 45-bis – Atti Parlamentari(PDF), su camera.it, COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE – XVII Legislatura.
  58. ^Spatuzza sembra riconoscere lo 007 vicino all’auto dell’attentato a Borsellino – Corriere della Sera, su corriere.it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  59. ^di Giuseppe Pipitone, Paolo Borsellino, i misteri sulla strage di via d’Amelio 25 anni dopo: dal depistaggio senza colpevoli all’Agenda rossa – Page 6 of 8 – Il Fatto Quotidiano, su it. URL consultato il 15 maggio 2021.
  60. ^Interrogatorio del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza(PDF), su altervista.org. URL consultato il 22 febbraio 2014 (archiviato il 19 ottobre 2014).
  61. ^Salta a:ab Via d’Amelio, quattro arresti per la strageI pm: “Borsellino tradito da un carabiniere”, su la Repubblica, 8 marzo 2012. URL consultato il 16 ottobre 2021.
  62. ^Salta a:ab c Audizione del procuratore Francesco Messineo dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia – XVI LEGISLATURA (PDF). URL consultato il 19 marzo 2014 (archiviato dall’url originale il 7 aprile 2014).
  63. ^Tranchina decide di collaborare ‘Portai Graviano in via D’Amelio, su repubblica.it. URL consultato il 12 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  64. ^E tornano in libertà gli ergastolani condannati nel vecchio processo, su repubblica.it. URL consultato il 12 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  65. ^Morto il boss ergastolano che abitava in via D’Amelio, su repubblica.it. URL consultato il 13 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  66. ^Chiusa l’indagine in 7 verso il processo, su repubblica.it. URL consultato il 13 febbraio 2014(archiviato il 21 febbraio 2014).
  67. ^Via D’Amelio, prime tre condanne quindici anni al pentito Spatuzza, su repubblica.it. URL consultato il 13 febbraio 2014(archiviato il 19 febbraio 2014).
  68. ^Nuovo processo via D’Amelio chiesta testimonianza Napolitano, su repubblica.it. URL consultato il 13 febbraio 2014(archiviato il 19 febbraio 2014).
  69. ^Mafia, Borsellino quater: la prescrizione salva Scarantino, su la Repubblica, 20 aprile 2017. URL consultato il 6 novembre 2020.
  70. ^ Borsellino quater, confermate in appello tutte le condanne, su rainews. URL consultato il 6 novembre 2020.
  71. ^Borsellino quater, la prescrizione salva Scarantino. Condannati gli altri falsi pentiti, su la Repubblica, 15 novembre 2019. URL consultato il 6 novembre 2020.
  72. ^Borsellino quater, definitive le condanne per la strage di via D’Amelio e il depistaggio delle indagini. Il pg: “Pagina vergognosa e tragica”, su Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2021. URL consultato il 6 ottobre 2021.
  73. ^Mannino, un’odissea giudiziaria di oltre 20 anni, su Giornale di Sicilia. URL consultato il 14 ottobre 2021.
  74. ^Salvo PalazzoloTrattativa Stato-mafia, Mannino di nuovo assolto. In appello confermata la sentenza del gup, in la Repubblica, 22 luglio 2019. URL consultato il 22 luglio 2019.
  75. ^Trattativa Stato mafia, confermata in Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, su Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2020. URL consultato il 14 ottobre 2021.
  76. ^Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri condannati a 12 anni. Di Matteo: “Ex senatore cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e Berlusconi”, su Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2018. URL consultato il 14 ottobre 2021.
  77. ^Trattativa Stato-mafia: assolti carabinieri e Dell’Utri
  78. ^I giudici: «Via D’Amelio il più grande depistaggio della storia» Il video, su Corriere della Sera, 7 gennaio 2018. URL consultato il 6 novembre 2020.
  79. ^Paolo Borsellino, i misteri sulla strage di via d’Amelio 25 anni dopo: dal depistaggio senza colpevoli all’Agenda rossa, su Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017. URL consultato il 6 novembre 2020.
  80. ^Strage via D’Amelio, richiesta di rinvio a giudizio per Bo – TGR Friuli Venezia Giulia, su TGR. URL consultato il 6 novembre 2020.
  81. ^Via D’Amelio, 3 poliziotti a processo per depistaggio, su Adnkronos. URL consultato il 6 novembre 2020.
  82. ^Salta a:ab Stragi di Capaci e via d’Amelio, il mandante era Matteo Messina Denaro, su Panorama, 22 gennaio 2016. URL consultato il 13 settembre 2021.
  83. ^Mafia, pm racconta: «Cosa Nostra voleva uccidere Falcone a Roma», su lasicilia.it. URL consultato il 13 settembre 2021.
  84. ^Borsellino e i Messina Denaro, lo ‘schiaffo’ al giudice, su Agi. URL consultato il 15 settembre 2021.
  85. ^Salta a:ab Ergastolo al latitante Messina Denaro: “Fu tra i mandanti delle stragi del ’92”, su it, 21 ottobre 2020. URL consultato il 13 settembre 2021.
  86. ^Stragi di Capaci e via D’Amelio, Messina Denaro rinviato a giudizio, su Giornale di Sicilia. URL consultato il 13 settembre 2021.
  87. ^Mafia: stragi, parte processo a Messina Denaro. Deporra’ Spatuzza, su Agi. URL consultato il 13 settembre 2021.
  88. ^Stragi ’92: Messina Denaro a giudizio – Cronaca, su it, 23 gennaio 2017. URL consultato il 13 settembre 2021.

WIKIPEDIA