“I dubbi quando tirò in ballo i pentiti. La lettera inviata con la Boccassini? Tinebra si irritò molto“. Proseguono le deposizioni dei magistrati al processo sul depistaggio di via d’Amelio, che vede come imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
Ieri, davanti al Tribunale di Caltanissetta, è stato sentito Roberto Saieva, oggi Procuratore generale di Catania e all’epoca, dal gennaio 1994 all’ottobre dello stesso anno, applicato a Caltanissetta per le indagini sulla strage. In particolare fu autore, assieme alla collega Ilda Boccassini, di una lettera inviata alle Procura di Caltanissetta e trasmessa anche a quella di Palermo, in cui si mostravano delle perplessità sulla collaborazione del “falso pentito” Vincenzo Scarantino.
E proprio di questo il teste ha parlato, così come aveva fatto al Borsellino quater.
“Per la dottoressa Boccassini e per me era abbastanza palese l’inattendibilità di Vincenzo Scarantino mentre la posizione di Tinebra, Giordano e Petralia era diversa. Decidemmo quindi con la Boccassini di mettere tutto nero su bianco. La lettera risale al 12 ottobre 1994”.
Il magistrato, rispondendo alle domande del procuratore capo Amedeo Bertone, ha raccontato delle criticità che emersero durante gli interrogatori dopo la pausa estiva. “Scarantino come è noto coinvolge dei soggetti come presenti alla nota riunione in casa Calascibetta, in particolare i collaboratori Cancemi, La Barbera, Di Matteo e Ganci. Ma in sede di ricognizione fotografica, pur avendo affermato di aver già incontrato questi soggetti, non fu in grado di riconoscere né La Barbera né Di Matteo. E aveva anche fornito delle descrizioni sbagliate su Cancemi. E quindi si rassegnò come un dichiarante da valutare con estrema attenzione. Emerse in buona sostanza un giudizio quanto meno parziale di inattendibilità”.
“Tutte le dichiarazioni da lui rese – ha detto Saieva – furono contestate in modo fermo e deciso da Cancemi, La Barbera e da Di Matteo. Ciò determinò il convincimento che era necessario fare un passo avanti e sottoporre a confronto Scarantino con i tre accusati ma emersero delle incongruenze”.
Da qui la decisione di scrivere la lettera che, a detta del teste, fu inviata anche a Palermo per un motivo preciso: “C’era la paura che a Caltanissetta la lettera firmata da me e dalla Boccassini non venisse protocollata, una paura che nasceva dal contrasto, piuttosto aspro, che era nato con gli altri colleghi. Volevamo che rimanesse traccia sul fatto che avevamo espresso posizioni diverse. Il dottore Tinebra si era irritato perché secondo lui e altri si doveva fare di tutto per salvare la collaborazione di Scarantino superando gli elementi di criticità. Secondo loro c’era nelle dichiarazioni di Scarantino un nucleo centrale sul quale bisognava puntare”.
Al tempo, nel ricordo del teste che da lì a poco sarebbe stato trasferito su richiesta del Procuratore nazionale antimafia che lo voleva applicare su Palermo, stavano iniziando i processi.
Tempo dopo Saieva tornò ad occuparsi della strage di via d’Amelio, rappresentando l’accusa nel processo d’appello “Borsellino uno” dove, pur esprimendo “un giudizio di larga inattendibilità di Scarantino”, per quanto concerne la posizione di Profeta chiese comunque la condanna. “Utilizzai nella massima estensione possibile il principio di frazionabilità. Salvai soltanto il segmento relativo al furto dell’autovettura che, secondo le originali dichiarazioni, a Scarantino era stato richiesto dal cognato Profeta”.
I colloqui investigativi con Scarantino. Nel corso dell’esame anche con il Procuratore generale di Catania è stato affrontato il tema dei colloqui investigativi di Scarantino quando questi già aveva avviato la collaborazione con la giustizia. Due di quei colloqui, infatti, portano la sua “autorizzazione”. “Questo dato lo ho appreso dopo la lettura della relazione regionale antimafia sulla strage di via d’Amelio. Una circostanza che mi è stata confermata poche settimane fa quando sono stato sentito dalla Procura di Messina. Io ricordo che Scarantino, dopo aver reso dichiarazioni, subito aveva manifestato ondeggiamenti e ripensamenti oltre al problema della necessità di un trasferimento in altra sede di suoi familiari da Palermo. Quindi c’era la necessità di un ‘supporto psicologico’ presso il carcere di Pianosa”.
Quindi Saieva ha anche riferito di aver appreso solo alla lettura della sentenza del Borsellino quater delle interlocuzioni negli anni delle stragi, tra l’ufficio di Caltanissetta ed i servizi segreti, e di non aver mai letto le note inviate dal Sisde nel 1992.
La fiducia in La Barbera Prima dell’audizione di Saieva l’udienza è stata dedicata anche alla conclusione del controesame del sostituto procuratore generale di Catania, Francesco Paolo Giordano, all’epoca anche lui a Caltanissetta appartenente al gruppo di magistrati che indagava sulle stragi. Come nell’ultima udienza ha ribadito di non aver mai avuto “l’impressione che qualcuno suggerisse le risposte a Vincenzo Scarantino. C’era semmai la questione di dirgli di stare attento alla sua memoria, che dicesse quello che ricordava. Ma che fosse imbeccato a dire cose false a me non risultava e se io avessi avuto il minimo sentore certamente sarei intervenuto”.
“Personalmente avevo grande fiducia nei confronti di Arnaldo La Barbera e dei suoi uomini perché in quel momento era considerato uno dei migliori investigatori in Italia – ha ricordato – Sentendolo parlare capii che aveva grande preparazione sulla criminalità organizzata. Sapeva il fatto suo. Quindi non avevo nemmeno un sospetto sul fatto che La Barbera potesse aver fatto qualcosa men che corretta”.
“Scarantino – ha continuato Giordano rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici – era un personaggio sempre in bilico dal punto di vista mnemonico e di equilibrio. La valutazione che io mi sentii di fare all’epoca è che poteva esserci plausibile un suo ruolo esecutivo nel reperimento dell’autovettura in quanto parente di Profeta, personaggio di spicco della criminalità. La seconda cosa è che personalmente riponevo fiducia sul fatto che se Scarantino fosse stato inattendibile la migliore garanzia sarebbe stata la giurisprudenza. I giudici avrebbero dovuto accertare se queste dichiarazioni erano attendibili o no e ci rimettevamo alla loro valutazione. L’ultima parola sarebbe stata la loro”. Giordano ha poi aggiunto: “All’epoca i colloqui investigativi erano stati introdotti da un decreto legge quindi le prassi applicative erano ancora nuove. Non si era consolidata una giurisprudenza o una prassi consolidata. I colloqui a Vincenzo Scarantino erano mirati all’approfondimento delle notizie che poteva dare”.
La mancata assunzione a verbale di Borsellino
Il teste è tornato a parlare della mancata assunzione a verbale di Borsellino affermando di aver saputo proprio da Tinebra che l’ufficio prevedeva di sentirlo nella “settimana che decorreva dal 20 luglio”. “C’era un contatto telefonico tra Paolo Borsellino e il procuratore Giovanni Tinebra – ha detto in aula – Seppi che avevano deciso di vedersi nella settimana che decorreva dal 20 luglio. C’era chi aveva ascoltato la frase di Borsellino, che avrebbe esclamato ‘adesso la palla passa a voi'”. “Nei giorni successivi alla strage – ha continuato Giordano rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Repici – non ricordo se ci occupammo dell’agenda rossa. All’epoca non ebbi contezza di questa agenda. Quando si insediò Fausto Cardella, si occupò della borsa. Fin quando il maresciallo Carmelo Canale non parlò dell’importanza dell’agenda rossa, non avevo né contezza, né dubbi o sospetti di manipolazione. Dammo l’incarico di ricercare gli elementi dai quali si ricavava la presenza di questa agenda rossa. La Dia disse bello chiaro che l’agenda emergeva dalle parole di Canale e dal ricordo certo della famiglia Borsellino. Poi successivamente, credo nel 2005-2006, viene fuori la fotografia (quella in cui si ritrae l’allora capitano Arcangioli con in mano la borsa di Borsellino, ndr). Fino a un certo punto si brancolava nel buio: non sapevamo se esisteva, e se esisteva dov’era finita”.
Il teste ha quindi affermato di non aver mai saputo della pubblica denuncia di Antonino Caponnetto, tra il 25 ed il 26 luglio, proprio sulla scomparsa dell’agenda rossa: “Personalmente non ho mai appreso questo. All’epoca la quantità di lavoro era pazzesca. Non voglio trincerarmi dietro questo fatto ma io in quel momento ero molto frastornato, il 15 luglio avevo avuto un lutto, con la scomparsa di mia madre, quindi può essere che il ricordo non è chiaro”.
La conferenza stampa del 19 luglio 1994. Sempre rispondendo alle domande dell’avvocato Repici il teste ha anche riferito sulla conferenza stampa che si tenne il 19 luglio 1994 a Roma dopo i provvedimenti di custodia cautelare che si svilupparono a seguito della collaborazione di Scarantino.
In particolare Repici ha fatto riferimento ad un passaggio in cui la dottoressa Boccassini, che intervenne con Tinebra, ringraziò ufficialmente l’allora vice direttore del Dap, Francesco Di Maggio per la collaborazione rispetto la gestione di Scarantino in quel periodo.
“Il mio è un ricordo vago – ha detto Giordano – Non so di preciso quale fu la collaborazione di Di Maggio. Ricordo che lui era vice direttore del Dap e ricordo che con Tinebra e la Boccassini i rapporti erano ottimi. Ricordo anche che una volta era venuto a Caltanissetta ma posso presumere per interloquire sulla localizzazione della struttura detentiva protetta”.
La Barbera Questore e quel ruolo nelle indagini Tornando a parlare di Arnaldo La Barbera ha anche ricordato che questi “certamente interloquiva più frequentemente con Tinebra. Poi, quando arrivò la dottoressa Boccassini, sicuramente ebbe un’interlocuzione costante e continua anche con lei. Quando divenne Questore di Palermo ricordo che parlai con Tinebra e feci presente che, essendo Questore, non aveva più il ruolo di ufficiale di polizia giudiziaria e pertanto chiedevo come potesse occuparsi di queste indagini. La risposta di Tinebra? Che c’era una continuità perché aveva la memoria storica. E poi lui aveva anche altri collaboratori, e questo ruolo lo manteneva riversando i suoi ricordi. Ma non ricordo se firmava gli atti”.
Chiamati a deporre Palma e Petralia. L’udienza è stata rinviata al 13 dicembre. Ad essere sentiti dovrebbero essere i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, ovvero i due pm indagati a Messina proprio per concorso in calunnia aggravata.
Nel processo nisseno sono stati depositati tutti gli atti riguardanti le intercettazioni telefoniche registrate presso la casa di San Bartolomeo a Mare, dove Scarantino si trovava durante il programma di protezione. Tra queste vi sono anche delle conversazioni tra gli stessi magistrati ed il “falso pentito” i cui contenuti sono emersi nei giorni scorsi.
Anche su questi elementi dovrebbero vertere le domande delle parti ma allo stato non è dato sapere se risponderanno alle domande o si avvarranno della facoltà di non rispondere. Antimafia Duemila 10 Dicembre 2019 di Aaron Pettinari