La “collaborazione” di FRANCESCO ANDRIOTTA

 

FRANCESCO ANDRIOTTA Il testimone “imbeccato” a dovere


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Settembre 1993 La “collaborazione” di FRANCESCO ANDRIOTTA
(intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apre la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che inizia a giugno 1994), ma permette altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998.
Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella ‘collaborazione’, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino.
Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino.
Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:
– chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;
– proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;
– Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché ‘uomo d’onore’, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;
– col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul ‘pizzino’, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;
nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio.
Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni).
Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione.
Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio.
Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio.
In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello).
L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto).
Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo.
Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza).
L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio.
Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo.
Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato.
A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato.
In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva:
– di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”).
Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;
– che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso.
Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;
– che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;
– che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.

In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:
– riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);
– su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;
– nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.
Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna.
Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta).
Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva.
I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino.
In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà).
Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto.
In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera.
Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato).
In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire.
Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio.

Così sinteticamente riportate le mendaci dichiarazioni che l’imputato rendeva in ordine alle inesistenti confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, occorre esaminare anche le conclusioni raggiunte da talune delle sentenze dei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, in ordine alla sua attendibilità. In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea.
A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: queste circostanze deponevano per l’assoluta mancanza, nella genesi della collaborazione di Andriotta, di valutazioni di personale tornaconto, che potessero far dubitare della genuinità delle sue dichiarazioni. Non risultavano, poi, elementi da cui inferire che Andriotta nutrisse nei confronti degli imputati (con i quali non aveva, in precedenza, alcun genere di rapporti), sentimenti d’astio, risentimento o vendetta, tali da far ipotizzare che potesse esser mosso da ragioni di malanimo o da intenti calunniosi. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi.
Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992.
Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:
– dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);
– potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;
– era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.
In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio.
Vale la pena di riportare, qui di seguito, un breve stralcio della sentenza di primo grado emessa nel processo c.d. Borsellino bis, appunto, nella parte della motivazione a ciò dedicata:
“Dal contesto delle dichiarazioni dibattimentali di Andriotta e, soprattutto, dall’analisi delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni appare tuttavia evidente che le dichiarazioni di Andriotta prima del pentimento di Scarantino Vincenzo sono state limitate alle confidenze di Scarantino riguardanti singoli momenti esecutivi della strage, quali il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, la custodia dell’autovettura prima della sua utilizzazione, il ruolo di Profeta Salvatore, (…), il caricamento dell’esplosivo presso la carrozzeria Orofino, il trasporto dell’autovettura sul luogo della strage e l’esecuzione di una intercettazione telefonica sul telefono della madre del dott. Borsellino ad opera di un parente di un uomo d’onore a nome Scotto, (…). Infatti risulta chiaro dalle dichiarazioni rese in dibattimento dall’Andriotta che lo stesso ha parlato della famosa riunione preparatoria della strage solamente dopo che i mezzi di informazione avevano diffuso la notizia del pentimento di Scarantino Vincenzo. (…) Orbene, per quanto attiene alla prima fase delle dichiarazioni di Andriotta è agevole osservare che hanno trovato ampio riscontro (…) tutte le indicazioni fornite da Andriotta circa la concreta possibilità che lo stesso aveva di dialogare con Scarantino (…). Assolutamente incontestabile appare, poi, lo scambio di favori e cortesie tra lo Scarantino e l’Andriotta e, in particolare, il fatto che lo Scarantino si sia avvalso della collaborazione dell’Andriotta per le comunicazioni con l’esterno del carcere (…). Alla luce di tali fatti appare ampiamente riscontrato il fatto che Scarantino Vincenzo abbia progressivamente intensificato i suoi rapporti con il compagno di detenzione, (…) ed appare credibile che possa anche avergli fatto qualche confessione, verosimilmente limitata, frammentaria e forse confusa (…). Certamente il distacco temporale tra le prime dichiarazioni di Andriotta e l’inizio della collaborazione con la giustizia di Scarantino e la divergenza di molti dettagli dagli stessi riferiti induce ad escludere un iniziale accordo tra i due (…) le dichiarazioni di Andriotta non possono certo considerarsi come prove autonome rispetto alle corrispondenti dichiarazioni di Scarantino Vincenzo, per la semplice ragione che lo stesso non ha fatto altro che riferire confidenze ricevute dal compagno di detenzione. Tali dichiarazioni (…) hanno solamente il valore di confermare, proprio per il fatto di essere state raccolte ampiamente prima dell’avvio della collaborazione di Scarantino Vincenzo, soltanto l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nella prima fase della sua collaborazione con la giustizia e di rendere per contro assolutamente inattendibile la successiva totale ritrattazione di Scarantino”.
In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado).
A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva
in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.
La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto:
“Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al
pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”.
Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino.

(pagg 1531 – 1563)