Mio marito Paolo Borsellino

 

 

Racconti tratti da ”TI RACCONTERÒ TUTTE LE STORIE CHE POTRÒ” di AGNESE BORSELLINO con Salvo Palazzolo

 

Ho deciso di fare questo racconto una mattina, una di quelle mattine che avrebbero reso felice Paolo. Mentre sorgeva il sole, lui si accorgeva di un nuovo germoglio nelle piante sistemate con cura sul balcone della nostra casa di via Cilea. Sorrideva, rideva anche di gusto. Quante volte l’ho guardato strano, in quelle mattine. Gli chiedevo: “Paolo, a chi sorridi”? Mi diceva: “Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata”. E accarezzava i suoi germogli: “Sai, Agnese,” sussurrava,”sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco a emozionarmi”. Si emozionava per le piccole cose della vita, nonostante i momenti difficili che viveva. Poi diceva: “in ciascuno di noi alberga il fanciullino di pascoliana memoria”. E comincia un’altra giornata. Intanto, i ragazzi si svegliavano, uno dopo l’altro. Manfredi e Fiammetta erano dei veri dormiglioni, amavano rigirarsi sotto le coperte. Lucia, invece, era già vestita. Allora Paolo iniziava a battere le mani, e alzava le serrande delle stanze dei bambini. Era una festa che si ripeteva con il solito gioioso rituale. Paolo tirava via le coperte, magari apriva anche la finestra, primavera o inverno non faceva differenza, ma Fiammetta e Manfredi erano aggrappati al cuscino. È protestavano per quel trattamento. Mi sembra oggi. Sento l’odore del caffè, che Paolo adorava. Sento la sua voce allegra mentre racconta le solite barzellette. A un certo punto, la voce si fa seria, Paolo, chiede ai ragazzi delle cose di scuola. Poi squilla il campanello di casa, sono gli uomini della scorta. Paolo mette sul fuoco un’altra caffettiera. Quegli agenti sono come dei figli per lui, li tratta con il massimo delle attenzioni. Dopo il caffè, ci saluta tutti con un bacio, ed esce velocemente, perché ci tiene ad arrivare in ufficio alle 8 in punto.
Mentre Lucia, Manfredi e Fiammetta scorrazzano ancora per casa, sistemando le ultime cose da mettere dentro lo zaino. “Sbrigatevi, si e fatto tardi”, dico all’allegra brigata. E intanto un sole bellissimo entra dalle finestre del salone di casa nostra. Sono una mamma felice, che non smette di sperare e di lottare in silenzio. I nomi che con Paolo abbiamo dato ai nostri figli sono proprio il simbolo della speranza e di un passato nobile che resta immortale, proiettato nel futuro : Manfredi, l’ultimo re di Sicilia; Lucia è la creatura di Alessandro Manzoni; Fiammetta è uno dei personaggi amati dal Boccaccio. Sento che Paolo è ancora qui con me, vivo. Aveva visto giusto, mentre accarezzava i suoi germogli. Oggi sarà un’altra giornata bellissima. Con le battaglie di tante donne e tanti uomini che non si rassegnano.
 

A Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate chiacchierate da cui si possono trarre favori più o meno leciti; si deve avere la forza di rinunciare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità con il malaffare e la delinquenza in genere. Questo Paolo ha insegnato ai figli. La sua stessa vita è stata una continua rinuncia: una rinuncia ai divertimenti, alla vita mondana, ad amicizie risalenti ai tempi della scuola o dell’università con persone che egli stesso si era ritrovato a indagare e perseguire, anche per fatti molto gravi.


A differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido».


Accanto ho i miei tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Sono la reincarnazione del padre, non posso che andare orgogliosa di loro, soprattutto perché servono lo stato, quello stesso stato che non pare avere avuto solo la colpa di non avere protetto il loro genitore. Accanto ho gli amati nipotini, e poi mia nuora Valentina, i miei generi Fabio e Antonio, che sono come dei figli per me. Tutti loro continuano a rendere viva questa casa, che qualcuno avrebbe voluto far precipitare in un baratro di morte e rassegnazione. E invece no, questa famiglia continua a vivere, a lottare, a discutere, a gioire, a domandarsi il perché delle cose. Accanto ho anche tanti amici, di alcuni non conosco neanche il nome. Eppure, mi donano la vita: con le piastrine del loro sangue sopravvivo a questo male subdolo, Amore mio, eri rassegnato in quei giorni. Eri rassegnato a dover morire. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più. Voglio sapere la verità. La chiedo con tutte le forze che mi restano. Forse, nel passato, qualcuno ha anche tentato di distogliermi da questo importante impegno. Ma non c’è riuscito.


Anche Paolo doveva essere protetto, e non lo fu. Ecco perché scrivo. Ecco perché ho deciso di ripercorrere le tante vite che ho vissuto, prima e dopo Paolo Borsellino. Perché se altro sangue fosse versato, ne morirei. Ma già adesso mi indigno per le parole d’insulto pronunciate verso chi cerca senza sosta la verità. Mi indigno e mi arrabbio. Perché nessuno più, dentro i palazzi delle istituzioni, si indigna e si arrabbia? So di non essere sola in questo percorso che ho deciso di fare. Un percorso che è già un racconto, una preghiera, ma soprattutto una battaglia quotidiana contro le tante storture –politiche, economiche e sociali –che affliggono il nostro paese. È la mia battaglia, perché io non smetterò di indignarmi e di arrabbiarmi.


C’è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile. Via D’Amelio non solo ha distrutto l’immagine dell’Italia, ma ha distrutto la mia vita. Io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone. Perchè non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite bene o male una vita. Io ci soffro da vent’anni e in silenzio. Io e tutta la mia famiglia. Che parole vuole che ci siano? Piango anche se di lacrime ne ho versate tante. Mi vergogno di essere italiana, spero che queste notizie facciano il giro del mondo . E nella sua ultima intervista al Corriere della sera: Bisogna cambiare questa Italia di corrotti e corruttori, di ricattati e ricattatori, tutti che si tengono per mano come bambini in girotondo. Al centro schiacciano l’Italia. Si tengono fra loro stritolando un Paese. Ecco perché non ne posso più di sentire parlare di antimafia e di legalità in bocca a troppi che non potrebbero fiatare. La gogna ci vorrebbe, anche per chi riceve una comunicazione giudiziaria. Parlo della gogna del ridicolo, delle vignette, insomma un metterli a nudo invece di ritrovarceli protagonisti della vita pubblica.


“Chi lo conosce il nostro dolore? Chi conosce il dolore dei miei figli? Per anni, Lucia ha indossato gli abiti del padre, perché voleva sentire ancora il suo odore, il suo abbraccio.
Manfredi e Fiammetta hanno sofferto anche loro nel chiuso di una stanza. Ma nessuno ha sentito i nostri pianti, abbiamo cercato di vivere il dolore in silenzio e con dignità”.


Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi.  


E allora, tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Come non mai. Voglio ritrovarle tutte le parole di Paolo. Parole di amore, di verità, di rabbia, di indignazione. Voglio ritrovare anche le sue parole di paura, di amarezza, di tristezza, che poi erano accompagnate sempre da altre parole: di coraggio, di speranza, di gioia, di ironia, di forza. Lo so che non sarà facile ritrovare le parole del mio amato Paolo, ma ci voglio provare, ripercorrendo dentro di me tutte le vite che ho vissuto. Prima e dopo di lui. Perché le mie vite sono state scandite dalle parole di Paolo. Scandite, accarezzate, sostenute


Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare. Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo.


Era una festa che si ripeteva con il solito gioioso rituale. Paolo tirava via le coperte, magari apriva anche la finestra, primavera o inverno non faceva differenza, ma Fiammetta e Manfredi erano ancora aggrappati al cuscino. E protestavano per quel trattamento. Mi sembra oggi. Sento l’odore del caffè, che Paolo adorava. Sento la sua voce allegra mentre racconta le solite barzellette. A un certo punto, la voce si fa seria, Paolo chiede ai ragazzi delle cose di scuola. Poi squilla il campanello di casa, sono gli uomini della scorta. Paolo mette sul fuoco un’altra caffettiera. Quegli agenti sono come dei figli per lui, li tratta con il massimo delle attenzioni. Dopo il caffè, ci saluta tutti con un bacio, ed esce velocemente, perché ci tiene ad arrivare in ufficio alle 8 in punto. Mentre Lucia, Manfredi e Fiammetta scorrazzano ancora per casa sistemando le ultime cose da mettere dentro lo zaino. Sbrigatevi, si è fatto tardi, dico all’allegra brigata. E intanto un sole bellissimo entra dalle finestre del salone di casa nostra. Sono una mamma felice, che non smette di sperare e di lottare in silenzio. Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi.


Gioia mia anche adesso che non ci sei continuo ad inventarmi qualcosa di diverso ogni giorno. Come se tu fossi qui, come se non ti avessero mai portato via da me…


Hanno anche cercato di intimidirmi. Un anno, il giorno prima dell’anniversario del 19 luglio, avevo deciso di andare a Villagrazia, lontano da tutte e da tutti.  Esco in giardino e sento una terribile puzza.  Non capisco cosa sia.  Vado verso il cancello e mi accorgo che fra le sbarre c’è una testa di animale che penzola. Allora chiamo subito i carabinieri. Mi sento accerchiata,  ancora una volta.  Controllata da qualcuno di cui non conosco il nome e il volto.  Ma decido che nessuno, tranne le forze dell’ordine e la magistratura, debba sapere di quella testa mozzata. Perché non voglio dare soddisfazione a chi mi vuole spaventare. E soprattutto, voglio fare capire che non ho paura. Me lo hai  insegnato tu. Lo faccio d’istinto,  anche se la paura è tornata a essere tanta. Perché non so chi ti ha ucciso. So invece che hanno cercato di cancellare tutto di te: le tue ultime intuizioni, i tuoi appunti, le tue scoperte, il tuo sorriso, le tue parole,  la tua indignazione, la tua rabbia.


Ho letto del depistaggio attorno alle indagini che sin da subito avrebbero dovuto fare luce sulla morte di Paolo e dei ragazzi della sua scorta, la cara Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Ho letto dell’inchiesta sulla trattativa fra lo stato e la mafia, che sarebbe avvenuta fra le bombe di quella terribile estate. E allora, tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Come non mai. Voglio ritrovarle tutte le parole di Paolo. Parole di amore, di verità, di rabbia, di indignazione. Voglio ritrovare anche le sue parole di paura, di amarezza, di tristezza, che poi erano accompagnate sempre da altre parole: di coraggio, di speranza, di gioia, di ironia, di forza. Lo so che non sarà facile ritrovare le parole del mio amato Paolo, ma ci voglio provare, ripercorrendo dentro di me tutte le vite che ho vissuto. Prima e dopo di lui. Perché le mie vite sono state scandite dalle parole di Paolo. Scandite, accarezzate, sostenute. Ho cominciato allora a guardare fra i suoi appunti, fra le carpette.


Ho pianto leggendo le confidenze di una mamma di Brindisi, Debora Caracciolo. “Faccio parte di un gruppo di mamme che cercano di divulgare notizie
riguardanti l’inquinamento ambientale legato a tante patologie che colpiscono i nostri bambini. Gli studi scientifici lo dimostrano chiaramente, c’è legame indiscutibile, eppure ci scontriamo con un muro di paure, a mio avviso non giustificabili. Molte mamm non vogliono esporsi in prima persona, e questo potrei pure comprenderlo, ma il trincerarsi dietro un consapevole arrendevolezza non riesco a condividerlo.” Vorrei correre a Brindisi per scendere  in piazza con queste donne coraggiose. Debora ha due figli, Andrea e Sara, mi scrive ancora: “Chi si trincera dietro motivazioni egoistiche non ha gli occhi preparati per notare un possibile cambiamento”. Davvero le sue parole mi sembrano le mie: “Io continuo, nonostante tutto, a credere che un mondo diverso possa esistere, che diventi migliore o peggiore sta a noi e alla determinazione che mettiamo in quello che facciamo. Paolo è uno degli esempi a cui mi ispiro e a cui mi aggrappo nei momenti di sconforto che ciclicamente ritornano a galla.

Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora. Ho bisogno delle parole di Paolo, perché mi sento persa senza di lui, soprattutto adesso che mi trovo ad affrontare un male incurabile. Quanto sto soffrendo. Sono tappezzata di bende, non posso più neanche fare dei piccoli passi in casa, e mi ritrovo su una sedia a rotelle. Le mie sofferenze sono atroci. Ma quelle parole che tante volte mi hanno confortato, mi hanno dato coraggio, alleviano la mia sofferenza.


I nomi che con Paolo abbiamo dato ai nostri figli sono proprio il simbolo della speranza e di un passato nobile che resta immortale, proiettato nel futuro: Manfredi, l’ultimo re di Sicilia; Lucia è la creatura di Alessandro Manzoni; Fiammetta è uno dei personaggi amati dal Boccaccio.


Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.


Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di Stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni .  La verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso. Perché loro sono degli irriducibili. Questi uomini si devono mettere solo alla berlina, si devono sbeffeggiare, come avrebbe fatto oggi Paolo Borsellino.


In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.


In quella piccola pretura di Mazara del Vallo, il giudice Paolo Borsellino faceva tante cose importanti. Una soprattutto: si immedesimava nella situazione di quella povera gente. Nei giorni che seguirono il terremoto del Belice, decise addirittura di aprire le porte della pretura agli sfollati. “Perchè la giustizia deve essere vicina soprattutto alla gente piú bisognosa,” mi spiegava. Cosí, nella cancelleria aveva fatto sistemare delle brandine per quelle notti fredde. Credo che l’esperienza di Mazara abbia segnato per sempre Paolo. Da allora, ha inteso aprire i palazzi di giustizia ai cittadini, in tutti sensi.  15 gennaio 1968 – Terremoto del Belice.

Io non cerco vendetta, voglio sapere perché è morto il mio Paolo. Non importa quanto ci vorrà, fosse anche un’eternità. Io, di certo, non vivrò abbastanza per conoscere la verità. Non importa. E’ importante, invece, che i cittadini italiani sappiano la verità. Tutti dovrebbero pretenderla a gran voce . verità. Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di Stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni ,  La verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso. Perché loro sono degli irriducibili. Questi uomini si devono mettere solo alla berlina, si devono sbeffeggiare, come avrebbe fatto oggi Paolo Borsellino .     Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo.


La tragedia della morte di mio marito? Ho sempre pensato, come tutti in famiglia, che una disgrazia o ti annienta o ti fa diventare più forte. Chi ha fede, un equilibrio interiore coltivato negli anni, non deve mai dire: il Signore mi ha castigato. Paolo era il primo a mettere in pratica questa convinzione. E noi, i suoi familiari, siamo forti dentro anche perché sappiamo di dover onorare la sua memoria, di doverci impegnare ancora di più rispetto a quando Paolo era in vita, per non rendere vani i suoi insegnamenti. Lo dico in tutta umiltà, senza ipocrisia: il dolore, lo strazio per la perdita di Paolo, non ci ha incattiviti. Porteremo con noi, per tutta la vita, il bagaglio etico e morale che mio marito ci ha lasciato. Cerchiamo ogni giorno, con le nostre piccole possibilità, di trasmettere agli altri questo patrimonio che abbiamo avuto in eredità.


Leggendo con i miei figli (qui in ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese, perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui. Oggi voglio rendere omaggio a tutte quelle persone che hanno creduto in mio marito e nel lavoro di mio marito.


Le parole di Paolo Borsellino servono anche alla nostra Italia, oggi più che mai. In questo periodo mi sembra di rivivere i giorni terribili che precedettero la terribile estate del 1992, l’estate delle stragi: la situazione del paese resta difficile e poi, soprattutto, i nostri magistrati sono vicini a scoprire qualcosa di importante. Quello che Paolo aveva capito dopo la morte del suo amico Giovanni: pezzi dello stato dialogavano con i vertici della mafia. Oggi, tante cose sono state già verificate, altri importanti riscontri –ne sono sicura –arriveranno presto. E così potremo capire più chiaramente il contesto in cui è maturata la strage che ha ucciso il mio Paolo, e le ragioni per cui quel 19 luglio 1992 in via d’Amelio è stata trafugata la sua agenda rossa. Per queste delicate indagini, davvero un momento di svolta dopo vent’anni, minacciano i magistrati, anche solo con delle stupide lettere anonime, che servono a trasmettere paura e angoscia, così da rendere più difficile il lavoro di inchiesta. Ecco perché i nostri magistrati vanno protetti, non soltanto con degli uomini armati. La vera protezione è un’altra, quella che può dare solo il sostegno delle istituzioni e della società civile.


Le parole del genero, l’avvocato Fabio Trizzino, marito della primogenita Lucia, parole su cui la stessa Agnese è tornata a riflettere dal momento che inizialmente, come lei stessa ha scritto, non le aveva comprese.
“Fabio dice: “Ho avuto il privilegio di non aver conosciuto il giudice Paolo”. La prima volta che me lo sussurrò, non capii. Mi spiegò: “Se l’avessi conosciuto, mi sarei ammalato assistendo a tutto quello che è accaduto dopo la sua morte. I depistaggi nelle indagini, l’omertà della stampa, lo sciacallaggio intorno alla figura di Paolo Borsellino, le trappole, le malignità. Agnese – mi ha chiesto Fabio – ma come hai fatto a resistere? Perfino Lucia mi ha detto: ‘Ero pronta alla morte di mio padre, ma non a quello che è accaduto dopo.

L’amore mi fa andare avanti. L’amore alimenta i miei sogni. L’amore deve dare forze ai giovani: non dovete mai demoralizzarvi davanti alle difficoltà, altrimenti è finita. Nulla è impossibile, perché tutto è in continuo divenire.


L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.


Lui amava le strade ed i palazzi che raccontavano la storia. Era un uomo che cercava la verità. Una volta mi disse: Dove non c’è verità non c’è giustizia . E poi aggiunse: La giustizia lenta è un’ingiustizia per la società. Ecco perché non posso concedermi molti spazi per me, tanta gente aspetta una mia decisione. Ed oggi è una giornata preziosa, unica.»


Ma non si può vivere solo di ricordi, e il mio amore per Paolo è diventato amore per questo Paese, per i giovani. E’ un amore che si rinnova ogni giorno, come lui mi ha insegnato. Mi piaceva sentirglielo ripetere. E allora gli chiedevo come fosse la prima volta: Come si mantiene sempre fresco l’amore? Lui sorrideva e mi diceva: Ogni giorno con una novità, che non è solo un fiore o un regalo. Perchè tutto passa. Io ogni giorno devo farti innamorare di me. E tu devi fare la stessa cosa. Tutti e due dobbiamo inventarci sempre qualcosa di diverso . Era ormai diventato un delizioso rituale quel dialogo sull’amore.


Mi diceva: Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata . E accarezzava i nuovi germogli: Sai, Agnese, sussurrava, sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco ancora a emozionarmi . Si emozionava per le piccole cose della vita, nonostante i momenti difficili che viveva. Poi diceva: In ciascuno di noi alberga il fanciullino di pascoliana memoria . E cominciava un’altra giornata. Intanto, i ragazzi si svegliavano, uno dopo l’altro. Manfredi e Fiammetta erano dei veri dormiglioni, amavano rigirarsi sotto le coperte. Lucia, invece, era già vestita. Allora Paolo iniziava a battere le mani, e alzava le serrande delle stanze dei bambini.


Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più .


Mi rendevo perfettamente conto che il matrimonio con quell’uomo mi avrebbe portato a fare delle scelte, e soprattutto delle rinunce. Ma era come se avessi fatto un investimento, ecco, dicevo proprio così. Sto facendo un investimento. Come se avessi comprato una casa o un terreno. Pensando a quell’espressione, sorrido ancora. Ma rende davvero il mio stato d’animo: avevo ormai deciso di puntare su quel giovanotto, sapevo che mi avrebbe portato lontano. Così è stato. E tanti anni dopo, il mio abito da sposa, sistemato ad arte, l’ha indossato Fiammetta per il suo matrimonio. Io mi sono invece divertita a creare l’abito di Valentina, la moglie di Manfredi.


Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo.
Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: “Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle”. Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia. Il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.


Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». 


Nel fine settimana organizzavamo delle occasioni conviviali con qualche altra giovane coppia. Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: «L’altro giorno mio marito mi ha regalato delle rose bellissime». Oppure: Mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate. Qualcuna, con un tono ancora più accorato, mostrava il suo abito: Questo me lo ha regalato lui. Ovvero, ancora una volta, il marito. Io, invece, non potevo esibire niente. E neanche potevo aspettarmi qualche gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente. Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. Allora mi faceva finire di parlare, poi mi chiedeva: «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata». Faceva una pausa e mi diceva ancora: «Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità. Mentre lui continuava: «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò». Paolo adorava raccontare la lieta novella, i fatterelli umani. E i protagonisti erano i più diversi, anche mafiosi incalliti, che però nel racconto assumevano una luce davvero particolare e unica. Era un racconto sempre affascinante il suo. Aveva una storia sempre diversa da narrarti. Mi diceva: «La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore». Faceva una pausa e sussurrava: «Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco». Mi guardava, con il suo solito sorriso sornione, e con aria severa mi chiedeva: «Agnese, tu lo sai come si mantiene fresco l’amore?» Non provavo neanche a indovinare la risposta, perché mi piaceva troppo sentirlo parlare. «L’amore si mantiene fresco con una novità ogni giorno. Che non è il fiore, o un regalo qualsiasi. Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo reinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso». Questa è stata la mia vita con Paolo, una lieta novella. Nonostante le difficoltà immani che abbiamo dovuto affrontare per la scelta che aveva fatto. Ma io ho condiviso tutto con lui. E non gli ho chiesto mai niente. Perché la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole.


Nel Settembre 1969 era arrivata Lucia.”E’ nata la luce dei miei occhi” disse Paolo prendendola in braccio.Qualche settimana dopo ottenne il trasferimento alla Pretura di Monreale, fu un’ulteriore festa..
Mio marito non doveva più alzarsi all’alba per prendere il treno. Al lavoro andava con una piccola Fiat Cinquecento. E il pomeriggio aveva tanto tempo da dedicare alla bellissima Lucia. Adesso guardo questa casa,e lo sento camminare ancora,lo sento parlare.. Lo sento canticchiare una bellissima ninna nanna dolcissima alla sua bambina che tiene fra le braccia..

Non crederai cosa ho fatto oggi. Sono stata a Villagrazia. Si proprio a Villagrazia. Amore mio, lì è rimasto tutto come è sempre stato, come l’abbiamo costruito io e te. Nel nostro rifugio, nessuno ha potuto stravolgere niente. Mi sembrava quasi di sentire le tue risate, stamattina. Poi anche il ticchettio della tua macchina da scrivere sistemata nello studio di mio padre Angelo; stavi ore e ore a scrivere, ti ricordi? Un giorno ti venne anche un callo tu stesso ti prendevi in giro.  Continuo a cercarti per casa, ma non ci sei. Allora, apro una finestra. E aspetto. Aspetto di vederti spuntare da un momento all’altro, con la tua bicicletta, il pane nel cestino e il braccio destro in alto mentre fai il segno di vittoria con la mano.


Non ho il titolo nè la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex ministro, presidente della Camera e vice presidente del Csm, che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali. Non sorprende che l’attenzione dei media si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l’attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea . Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo: chi era e quale ruolo rivestiva l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del ’92 incontrò mio marito? Perchè Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?. Mancino, se proprio voleva, doveva telefonare a Loris D’Ambrosio a casa, incontrarlo al bar, ma non chiamarlo al Quirinale mettendo nel mezzo quel galantuomo di Napolitano. È gravissimo il comportamento di Mancino. Non mi fido di lui. Perché ricordo cosa mi disse mio marito: ‘Al Viminale ho respirato aria di morte’. E Mancino non ricorda di averlo visto nei suoi uffici nel luglio ’92 .


Oggi tante cose mi ricordano quei giorni. La più curiosa, come sempre, me l‘ha proposta Fiammetta, un vulcano di idee: ha recuperato e fatto restaurare l’insegna della farmacia Borsellino e l’ha sistemata all’ingresso di casa sua. Mi sembra quasi di rivedere Paolo ragazzino in quello scorcio di centro storico dove anche Fiammetta é voluta andare a vivere. Corre veloce, e nessuno riesce a fermarlo.


 

Paolo decide di portare la Vespa da Palermo a Villagrazia. Appena arrivato lo vedo un po’ affaticato e gli chiedo: “Come è andata”?. E lui, serissimo, dice: “Tutto bene solo uno sciddicuni”, ovvero, solo una caduta. Io preoccupatissima. Lui inizia a ridere, e la sua risata è travolgente. Paolo non conosce cadute, si rialza sempre.


Paolo diceva, rivolgendosi ai giovani, non arrendetevi mai, abbiate sempre il coraggio di lottare . Siamo arrivati al 2012. Sono passati 20 anni da quel tragico 19 luglio. Mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato a rispettare le istituzioni. Lui credeva nelle istituzioni. Credeva nello Stato.  Mi rivolgo a voi come ai soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato, un’eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo potere per impedire la morte del padre.


Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare .

Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. Forse ci fu cosa? . Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: Allora, vero colpo di fulmine fu. Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.


Poi, la verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. Lo dovrebbe fare tutta la società civile. Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via D’Amelio, perché era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi. Quell’uomo sappia che io non gli darò tregua. Nessun italiano deve dargli tregua. Ecco perché è importante che la gente partecipi alla vita civile e non si giri dall’altra parte. Perchè le domande di ognuno sono fondamentali per trovare la verità.


Qualche mese fa, in ospedale, è venuto un frate per darmi l’olio dell’estrema unzione.   Ma io continuo a vivere, e vivo per l’amore di tante persone. E amore cerco di donare anch’io. Con le parole mie e tutte le parole di Paolo che ricorderò. Ogni giorno, poi, Manfredi e mio nipote Luigi mi portano un bel po’ di fogli, sono tutti i messaggi arrivati al gruppo che è stato creato per sostenermi.


Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo e lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: “Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle”. Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano:”Mio padre, il senatore”; “Mio padre, il principe”; “Mio padre, il professore di università”.
Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: “Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno”. E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. “Perché l’hai fatto?” gli chiesi. “Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università”. Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.»
 

Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido.


Ricordo un bellissimo presepe di cartapesta, che mi fu regalato da un presidente della repubblica. Ricordo un enorme mazzo di rose, non ne avevo mai viste tante in vita mia tutte insieme, le contai, erano cinquanta. Ricordo tanti oggettini d’oro, che anche un po’ mi imbarazzavano, ma li accettavo perché ritenevo che fossero tutti doni offerti a Paolo Borsellino. In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sui progetti che aveva, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano tante domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano quelle cose mi sembrava come se tutti mi stessero osservando, anche se facevano altre cose: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Era una strana sensazione quella che provavo mentre continuavano a chiedermi di Paolo. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo. Volevano capire se mio marito mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. Evidentemente, erano preoccupati. Me ne sono resa conto quando ho appreso, attraverso le notizie lette sui giornali, cosa avevano scoperto i magistrati di Caltanissetta e Palermo.


Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito,. Al punto da non voler essere baciato né da me né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio, mi disse: <> . Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. << Per me è finita. Agnese non facciamo programmi. Viviamo alla giornata>>. Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.


Se mi dicono perché l’hanno fatto, se confessano, se collaborano con la giustizia, perché si arrivi ad una verità vera, io li perdono. Devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perché l’hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire, di fronte al coraggio io mi inchino, da buona cristiana dire perdono, ma a chi? Io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perché sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito


Sento che Paolo è ancora qui con me, vivo. Aveva visto giusto mentre accarezzava i suoi germogli. Oggi sarà un’altra giornata bellissima. Con le battaglie di tante donne e tanti uomini che non si rassegnano. Oggi aspetto soprattutto i miei nipotini: Agnese, Vittoria, Merope, Paolo, Fiammetta e Felicita. E un altro nipotino o nipotina, ancora non sappiamo, è nel grembo di Fiammetta. Le loro vocine allegre riempiranno questa casa. E mi sembrerà di sentire la voce di Paolo che accoglie a braccia aperte i suoi nipoti e a ognuno racconta una storia bellissima. Nessuno di loro ha conosciuto questo nonno così speciale. Ecco un altro motivo per cui ho deciso di scrivere, perché i miei bambini possano portare sempre nel cuore la gioia e la forza di nonno Paolo. Tutti i bambini del mondo dovrebbero crescere con la gioia e con la forza nel cuore. La gioia e la forza di una storia a cui si sono appassionati. Se non ce l’hanno ancora, proverò io a raccontargliela.


Sono convinta che fin dai primi anni ottanta Paolo avesse capito chi erano i suoi veri nemici. Non i mafiosi assassini, ma quegli insospettabili che i magistrati del pool avevano individuato in certi ambienti altolocati di Palermo. Sono convinta che anche oggi i magistrati di Palermo e Caltanissetta sanno, sanno chi vorrebbe ostacolare per sempre il loro lavoro. Non è solo la mafia, è anche qualcuno dentro lo stato. Ecco allora bisogna cercare senza sosta la verità sulle stragi, non mi stancherò mai di ripeterlo. Lo ripeterò finché mi resterà un filo di voce. E anche quando non ci sarò più, questa mia richiesta di verità dovrà risuonare sempre viva. Sono sicura che tanti giovani la ribadiranno al mio posto, con tutto il fiato che hanno in gola. Perché questa è una battaglia difficile, difficilissima. Tanti, troppi rappresentanti delle istituzioni fanno finta di non sentire   Rifiutare sempre i compromessi..


Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e  soldi. 


Spesso o quasi sempre alla stessa ora, mio marito usciva da solo per comprare le sigarette o il giornale, come se volesse mandare un messaggio ai suoi carnefici, perché lo uccidessero quando lui era da solo e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Lui diceva sempre: il mio scudo è Giovanni Falcone quando non avrò più questo scudo, avverrà la mia fine. Io ritengo che mio marito sia stato abbandonato al suo destino di morte.


Tanta rabbia ma anche una forte determinazione: Ho fiducia nel tempo. Non voglio vendetta, voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro. Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perchè gli italiani come me vogliono sapere perchè è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà.


Tante vite ho vissuto. Prima e dopo Paolo Borsellino, mio marito, il padre dei miei figli. Me l’hanno portato via una domenica di luglio di vent’anni fa, ma è come se fosse ieri. Lo sento ancora avvicinarsi: mi sorride, mi fa una carezza, mi dà un bacio, poi esce accompagnato dagli agenti di scorta. E non c’è più, inghiottito da una nuvola di fumo che vorrebbe ingoiare tutta la città. Subito dopo il suo assassinio mi invitavano spesso a incontri e ricevimenti organizzati in tanti luoghi importanti delle istituzioni: al Quirinale, al Senato, alla Banca d’Italia, e in altri palazzi romani. Anche al Vaticano mi invitavano. Io me ne stavo seduta in un angolo. Silenziosa, annichilita. Come fossi una bella statuina. Fra me e me dicevo: Mi cercano perché sono la moglie di Paolo Borsellino, mi stanno vicini per la memoria di mio marito, un magistrato che ha sacrificato la sua vita per lo stato . Mi facevano anche tanti doni preziosi quegli uomini del potere.


Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università». Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?» gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.


Un gruppo che si trova in un posto dal nome strano, almeno così appare ai miei occhi. Mi hanno spiegato che si chiama Facebook, dicono che in italiano voglia dire faccialibro , è buffo e straordinario per una signora della mia età, che ha scoperto solo da qualche tempo l’esistenza di una cosa altrettanto strana che si chiama Internet. Ma a me sono sempre piaciute le cose nuove, soprattutto quelle che fanno i ragazzi. Perché, in fondo, non ho mai smesso di sentirmi giovane. E faccio bene, perché faccialibro e Internet mi hanno permesso di conoscere davvero tantissime persone, di tutte le età e senza questa magia sarebbe stato impossibile per una persona come me, che ormai non esce più di casa, se non per brevissime passeggiate. Mi scrivono da tutta Italia, per raccontarmi di un paese che resiste ogni giorno nel nome di Paolo Borsellino e di tutti gli altri martiri della mafia. Resiste al malaffare dei politici corrotti, alle mafie e ai loro insospettabili complici. Resiste con coraggio e indignazione, come avrebbe fatto Paolo. Resiste con gioia e ironia. Per me è come essere


Un pomeriggio, mia cugina Matilde – che poi diventerà anche la mia futura cognata – mi disse, mentre eravamo a passeggio: Passiamo un attimo dallo studio di mio padre, devo chiedergli una cosa . Suo padre era il notaio Furitano. Va bene, le risposi. Non potevo certo immaginare chi avrei incontrato e cosa sarebbe successo nelle settimane seguenti. Paolo era lì, era amico del notaio e di un giovane che lavorava nel suo studio. Me lo presentarono. Era un bel ragazzo, a ventott’anni era già magistrato, il concorso l’aveva vinto sei anni prima. Ma era terribilmente timido, probabilmente gli facevo questo effetto perché ero pur sempre la figlia di un suo superiore. Così spiccicò ben poche parole quel pomeriggio. L’incontro fu abbastanza fugace. E presto mia cugina e io tornammo alla nostra passeggiata per le strade del centro città. Naturalmente, appena messo un piede fuori dallo studio di suo padre, Matilde cominciò a tempestarmi di domande. Non avevo dubbi che l’avrebbe fatto. Allora, non mi dici niente? Ti piace questo ragazzo? A dire il vero, quel pomeriggio ero anch’io di poche parole. E mia cugina tornava a insistere: Hai perso la voce? Non mi dici niente di Paolo? . Come dovevo commentare? In cuor mio si agitava un piccolo terremoto, anche se l’avevo appena visto quel giovanotto. C’era qualcosa che mi incuriosiva in lui. E parecchio. Ma non potevo ancora sapere, anche perché conoscevo davvero poco del ragazzo che avevo appena incontrato. Che tenerezza ricordare quei momenti. Che persona a modo era Paolo. Sorrido di cuore pensando a quei giorni. Matilde non demordeva. Organizzò con alcuni amici una gita a Ustica. E naturalmente invitò me e Paolo. Ma anche quella volta lui non fu molto espansivo, anzi non si faceva proprio avanti. E io non capivo le sue reali intenzioni. Però mi parlò del suo lavoro di pretore a Mazara del Vallo, di quanto era complesso. Mi raccontò anche dei tanti personaggi strani che aveva incontrato nella sua carriera di giudice. Magari criminali incalliti, ladri arrestati chissà quante volte con la refurtiva nel sacco, rapinatori spregiudicati, truffatori di ogni risma: Paolo era capace di trovare in ognuno di loro un tratto di umanità. E me lo descriveva come se fosse la cosa più naturale di questa terra. Io, invece, lo guardavo con curiosità, quasi scetticismo. Non nascondo che inizialmente quei racconti mi scandalizzavano un po’: forse quel giorno la figlia del magistrato integerrimo non capì proprio la grandezza delle parole di quel giovane così sensibile. Ma erano parole che avevano forza, e rimasero dentro di me. Paolo mi stava già conquistando con le sue storie belle. Mi attraeva proprio quel ragazzo. Però, poi, quando ritornammo al porto di Palermo ci salutammo senza darci alcun appuntamento. Paolo tornava a essere il ragazzo timido che avevo conosciuto allo studio del notaio Furitano. E non potevo certo essere io a chiedergli un appuntamento. Ci salutammo con un sorriso. E ognuno tornò alle sue giornate di sempre. Io tornai a essere la figlia di papà, la signorina dei pizzi e merletti, che suonava il pianoforte e adorava le prime al Teatro Massimo. Paolo tornò al suo treno che partiva all’alba, verso Mazara del Vallo. E per qualche tempo nessuno ebbe più notizie dell’altro. Nessuna notizia. Chiesi allora a Matilde, magari attraverso il padre mi avrebbe potuto portare qualche nuova. Ma niente. Paolo era immerso nel suo lavoro di pretore, come fosse una missione da compiere senza alcuna distrazione.


Voglio rendere omaggio a coloro che dimostrano ogni giorno di amare mio marito per ciò che ha fatto per la Sicilia e per l’intero Paese. Paolo non ha fatto un solo passo indietro di fronte al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui. E’ andato avanti, nel nome del lavoro che amava. Pur tra mille difficoltà è andato avanti, a testa alta. Io e i miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai, piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita.   Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta. Voi giovani costituite il futuro della nostra società. Per un domani migliore. Sono convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia». 

 

i ricordi di AGNESE BORSELLINO