GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO

Di Paolo Borsellino

“FALCONE È VIVO!” Il 20 Giugno 1992 il Dott. Paolo Borsellino, al termine di una fiaccolata con una veglia di preghiera, organizzata per ricordare il suo amico Giovanni Falcone, teneva un discorso che è considerato il suo testamento morale, qualche giorno dopo avrebbe scandito le stesse parole a Casa Professa.  “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? PER AMORE! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali. Intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse : “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare solo poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza ad una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone. Ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che fini per invocare ed ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa Nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottime condizioni del suo lavoro. Per continuare a “DARE”. Per continuare ad “AMARE”. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. MENZOGNA! Qualche mese di lavoro in un ministero non può fare dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborarono con la giustizia per le indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova incredibilmente il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagalo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarne dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli, accentando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone È VIVO!” Paolo Borsellino” discorso alla Veglia per Falcone, Palermo 20 giugno 1992

  • La morte di Falcone mi ha lasciato in uno stato di grave situazione psicologica per il dolore provato, in quanto non si tratta soltanto di un collega o compagno di lavoro ma, probabilmente del più vecchio degli amici che è venuto meno.  Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia di continuarlo a fare.
  • Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.
  • In pochi giorni mi sento invecchiato di almeno 10 anni, non solo perché ho perso un grande amico, ma anche perché ho perso il mio scudo. Mi sento solo.
  • «Mio padre rimase invalido nel primo conflitto mondiale: in testa, trentatrè schegge d’osso che i medici, per non complicare le cose, evitarono di rimuovere. Da allora ebbe sempre difficoltà di deambulazione. Un mio zio, capitano d’aviazione, fu abbattuto».  Non si riferiva a Salvatore ma a Giuseppe, fratello del padre, caduto a ventiquattro anni nel corso di un duello aereo. Ma lo zio Salvatore era nel suo cuore e lo ricordo cosi: «Un altro zio, fratello di mia madre, falsificò i documenti anagrafici pur di arruolarsi come volontario: una granata lo colpi in pieno e l’uccise. Per questi nostri morti provavamo affetto e ammirazione, la loro vita era considerata un esempio. “Hanno servito la patria!” erano soliti ripetere i miei genitori». (da “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata

Paolo Borsellino non era riuscito a far parte del pool di magistrati che investigavano sull’omicidio di Giovanni Falcone , ma questo non gli impedì di continuare le indagini. Era determinato a consegnare gli assassini alla giustizia. <>, promise a Liliana Ferraro, l’ex capo dell’ufficio privato di Giovanni Falcone. A un mese dall’omicidio, il pomeriggio del 25 giugno, Paolo Borsellino organizzò un incontro con il colonnello Mori e il capitano dei carabinieri De Donno. Per ragioni di segretezza, non li ricevette nel suo ufficio, ma in caserma. Prima chiese loro se avessero delle piste sugli assassini di Falcone, ma la risposta fu negativa, e poi di riprendere sull’infiltrazione della mafia negli appalti pubblici relativi ai lavori in Sicilia, portate avanti su richiesta di Falcone. Paolo Borsellino domandò ai due ufficiali di operare in gran segreto e di conferire con lui. Formalmente, il procuratore non aveva il diritto di condurre indagini simili. Con sua massima frustrazione, il suo mandato copriva soltanto l’inchiesta sui clan di Trapani e Agrigento.(JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia)


Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo. Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare. Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992. L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai.(Attilio Bolzoni)


FIAMMETTA BORSELLINO SI RACCONTA: “LA MIA VITA ALL’ASINARA E QUELLA FRASE DI FALCONE…” Dal 5 al 30 agosto 1985 Falcone e Borsellino furono portati coattivamente assieme alle famiglie sull’isola-penitenziario dell’Asinara perché suo padre e Falcone dovevano preparare la requisitoria per il maxi-processo a Cosa Nostra. Come avete vissuto quel periodo?  “Sia mio padre che Giovanni Falcone hanno vissuto quel periodo attraversando stati d’animo diversi: eravamo lì perché loro dovevano istituire il maxi processo, il processo più grande realizzato in Italia sino ad allora e quindi c’era una mole di lavoro da fare che richiedeva un grandissimo impegno. I primi giorni in cui siamo arrivati all’Asinara attendevano ancora che arrivassero gli incartamenti e ricordo che si sentivano come dei leoni in gabbia, impotenti, sentivano di avere le mani legate senza poter far nulla, ma sono stati anche i giorni in cui si sono goduti una sorta di “vacanza obbligata”, forse almeno per qualche ora, da quello che era diventato il loro obiettivo primario. Quando arrivarono i faldoni invece si gettarono anima e corpo su quegli incartamenti e furono totalmente assorbiti da tutto ciò che comportarono. Per quanto riguarda noi familiari, sicuramente mia mamma, mio fratello Manfredi e mia sorella Lucia avranno avuto una percezione diversa rispetto a me che ero più piccola, ma ad ogni modo la percezione di pericolo si avvertiva. Il 6 agosto 1985 i corleonesi avevano ucciso a Palermo Ninni Cassarà, vicecapo della Squadra Mobile e capo della sezione investigativa. Più di un collaboratore prezioso per mio padre e per Falcone. Da quella tragedia in poi il loro lavoro all’Asinara proseguì con un altro ritmo”. Tratto da intervista a Fiammetta Borsellino  11 Maggio 2021 – Simone Savoia Angela Amoroso IL GIORNALE