GIOVANNI FALCONE – Articoli 5º Parte

Enzo Biagi ricorda Giovanni Falcone L’ultima immagine che è rimasta nei suoi occhi è quella di un lembo di Sicilia: il mare, l’erba verde di un pascolo, gli ulivi saraceni. Le lancette dell’orologio di Francesca Morvillo coniugata Falcone sono ferme alle 18:08. Parlai di Giovanni Falcone con Maria, la sorella, intelligente, pacata, alla quale Giovanni, timido, riservato, confidava: <>. E ripeteva: <>. Quando la mafia uccise Lima, il magistrato rivelò a un amico: <>. Davanti alla sua casa, a Palermo, c’era una magnolia; non so se la chiamano ancora <<l’albero Falcone>>. Aveva detto: <>. Ero a cena con Giovanni e Francesca a Palermo, una sera del 1987, in casa di un comune amico: a mezzanotte andarono a sposarsi. <>, dissero poi; solo quattro testimoni, così vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali e si erano ritrovati con la voglia di andare avanti insieme. <<Perché non fate un bambino?>>, chiesero una volta a Giovanni. <>, rispose. E Buscetta lo aveva avvertito: <>. E spiegò: <>. Buscetta e Falcone si incontrarono a Brasilia e il giudice ebbe subito l’impressione di trovarsi di fronte a una persona molto seria. Lo avvertì: <>. E Buscetta: <>. Si sa come è andata a finire: una bomba, località Capaci. Una buona parte di Palermo, l’ha odiato, mentre era in vita. Quando è morto la città è scesa in piazza. Una moltitudine di gente ha preteso di ereditarne il pensiero, i meriti e il carisma. No, non erano in molti ad amare veramente Giovanni Falcone. Se i gesti concreti hanno un senso, basta misurarli per comprendere quanto pochi siano stati i suoi veri amici. Forse la verità è che Palermo, ma non solo lei, aveva dato a Falcone una silenziosa delega in bianco: “Liberarci dalla mafia”. Un alibi per nascondere la paura, l’impotenza, l’assenza di qualunque volontà di opporsi al malaffare. Paura? Certo, la paura c’è. Ma dove finisce la paralisi da terrore, per lasciare il posto al calcolato immobilismo, all’acquiescenza, in nome di una vita più agevole, di una tranquilla convivenza con un modo apparentemente innocuo, ma spietato e violento nella sua essenza? Qual è il confine tra il disimpegno e la complicità? Tra l’inettitudine e la collusione? Chi ha osteggiato Giovanni Falcone, l’ha fatto sempre “in buona fede”? La storia del giudice si identifica con quella degli ultimi, terribili anni palermitani: i morti, quelli di mafia e quelli che con una brutta parola abbiamo imparato a chiamare “eccellenti”, le defezioni, le inadempienze, i sospetti, le colpe della politica e dei governi, le protezioni concesse a governanti infedeli, l’impunità garantita agli assassini, l’illegalità elevata a sistema. Anni di piombo, molto più di quanto lo siano stati quelli del terrorismo: un lungo filo rosso che affonda la sua origine nel buio di un infinito “pozzo nero” e marcia verso una direzione che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, appare senza traguardo. La vita e la morte di Giovanni Falcone rappresentano una sorta di guida da questo passato pesante come un macigno a un futuro ancora poco rassicurante. (Francesco La Licata  in STORIA DI GIOVANNI FALCONE) 


QUEL MAGISTRATO HA FATTO COSE DA PAZZI<<E’ vero, io stato tirato in ballo molto spesso. e, direi, con puntuale insistenza. Ma da chi? Certamente né dalla magistratura, né da alcun altro organo inquirente. Sfido chiunque a trovare la benché minima traccia di valore processuale nei miei confronti. Il mio nome è stato tirato in ballo da qualche foglio locale troppo zelante nel costruire, attorno ai Salvo, una letteratura facile da smistare a tutti gli altri giornali. Il discorso dei miei rapporti con la mafia è stantìo. In venticinque anni di carriera, non sono mai entrato in un processo di mafia, non ho mai avuto un avviso di reato. Se fossi un mafioso, tutto questo sarebbe possibile?>  (Da PAROLE D’ONORE di Attilio Bolzoni)


Giannicola Sinisi (Magistrato) racconta: I discorsi sulla morte si facevano sempre più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo la lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche parole: “io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”. No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un pò come aveva fatto prima di lasciare la Procura. Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. “Ed è un processo che non si è concluso con la solita litania, con la solita sequela di assoluzioni per insufficienza di prove, che adesso sarebbero tutte con formula piena, ma è un processo che si è concluso con ben dodici ergastoli e gli annullamenti in Cassazione sicuramente porteranno ad altri ergastoli.” Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’Istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone. (Da STORIA DI GIOVANNI FALCONE di Francesco La Licata)


L’INFANZIA DI GIOVANNI FALCONE fu uguale a quella dei bambini del suo ambiente, che allora si chiamava “ceto sociale”. Scuola, Azione cattolica, qualche divertimento: un film o una partita a ping-pong. Non frequentava spesso altri bambini: le relazioni della sua famiglia non erano estese e neppure i rapporti tra parenti. Così, ormai magistrato, Giovanni si confessò: “Mio padre? Era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Cosa mi insegnò? A lavorare sodo, a rispettare gli impegni, a preoccuparmi delle mie sorelle, vecchi valori forse…Era cattolico e tra noi c’era una stima reciproca. Ma era molto più anziano di me. Anche gli interessi culturali erano diversi”. Come si viveva in casa? “Mio padre ci stava molto. Per lui era punto d’orgoglio non aver mai bevuto al bar una tazzina di caffè. Di conseguenza niente mare, niente villeggiatura. Mia madre? Donna molto energica, autoritaria. Da lei pochissimi segni esteriori d’affetto. Entrambi furono genitori molto esigenti che da me pretesero il massimo. Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta. Comunque ero il prediletto.” Era piccolissimo, quando arrivò la guerra e la famiglia dovette sfollare. I primi bombardamenti indussero i Falcone a trasferirsi nella borgata marinara di Sferracavallo, in una villa con la terrazza. Ma le bombe arrivavano anche lì, per questo decisero di raggiungere le campagne di Corleone, paese dov’era nata la madre. Anni difficili, certamente determinanti, quanto l’educazione familiare, per la formazione di un carattere duro e tenace.(Francesco La Licata in Storia di Giovanni Falcone)

 

 

Quello che pensava Falcone dei collaboratori di giustizia. Per Giovanni Falcone la collaborazione con la giustizia era “la strada giusta per portare a soluzione problemi di grande interesse nella strategia complessiva della lotta alla criminalità organizzata”. Le polemiche, sterili, spesso immotivate giuridicamente, sulla scarcerazione di Giovanni Brusca rischiano di generare un clima certamente non favorevole per un dibattito approfondito e soprattutto serio sul tema centrale dei collaboratori di giustizia nella lotta alle nuove mafie. Secondo Falcone i collaboratori di giustizia erano – e sono, aggiungo io – uno strumento investigativo indispensabile non tanto nell’interesse del beneficiario quanto piuttosto nell’interesse superiore della collettività. Scrive nel suo intervento: “Le istruttorie tuttora in corso in diverse sedi giudiziarie stanno portando alla luce realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati”. Soltanto, infatti, quando lo Stato nel suo complesso dimostra di voler combattere concretamente le mafie e appare credibile anche agli occhi della stessa criminalità organizzata, ci potranno essere dissociazione e collaborazione degli imputati con la giustizia, che, ricordiamolo, in passato hanno infranto l’inespugnabile muro dell’omertà e del silenzio, tra i principali ostacoli per il raggiungimento di risultati apprezzabili nella lotta alle organizzazioni mafiose. Per Giovanni Falcone il fenomeno del pentitismo aveva ragioni precise e non erano affatto di scarsa rilevanza processuale. Non dobbiamo dimenticare che il pentito riferirà espressamente e in atti processuali quanto a sua conoscenza sul mondo del crimine organizzato di cui è parte. Le sue confessioni e chiamate in correità devono sostenere il vaglio del giudizio, come qualsiasi altro mezzo di prova. Basta riflettere su questi aspetti per comprendere l’importanza di questo strumento investigativo.

Aggiunge Giovanni Falcone:

“Il pentito ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. È da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia”. “Per quanto mi riguarda, aggiunge il magistrato palermitano più famoso al mondo, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia”. In queste frasi c’è il Giovanni Falcone favorevole alla concessione dei benefici penitenziari a chi collabora con la giustizia, mentre, emerge chiaramente la sua contrarietà alla concessione di tali benefici per chi invece non collabora con lo Stato. In materia credo vi sia anche un altro aspetto che meriti approfondimento: i rapporti tra collaboratori di giustizia e professionalità di polizia e di magistratura. La formazione continua è più che mai necessaria in tema di lotta alla criminalità organizzata. Non sono i collaboratori di giustizia a fuorviare le indagini, ma chi indaga a non essere in grado di individuare l’eventuale imbroglio. La dichiarazione del “pentito” è solo uno dei tanti mezzi investigativi a disposizione del magistrato inquirente. L’esito positivo di un’indagine giudiziaria dipende dall’uso sapiente dei mezzi più appropriati, per cui le ammissioni e le chiamate in correità devono costituire orientativamente conferma di risultati probatori acquisiti da altra persona o spunto per eventuali successive indagini. Per Falcone ostacolare il fenomeno del pentitismo era allora un errore di portata storica. A maggior ragione ritengo lo sia anche oggi. È necessario che si discuta approfonditamente e serenamente sulle eventuali norme più idonee ad assicurare che le propalazioni dei “pentiti” siano assunte nel rigoroso rispetto della legalità democratica e del diritto di difesa. Si accerti pure col maggiore scrupolo possibile quali possono essere i benefici più opportuni a favore dei “pentiti”, non in contrasto col principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. “Mi sembrerebbe tuttavia assurdo che, in virtù di malintesi principi garantistici, si dovesse rinunziare allo strumento del pentitismo che, sia pure tra luci e ombre, ha consentito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile”. Di fronte a fenomeni delinquenziali tuttora in atto, non è certo l’inasprimento delle pene – illusorio, e quasi mai seguito dalla pratica giudiziaria – che consentirà la soluzione dei problemi, ma solo una saggia politica criminale che sappia armonizzare il rispetto dei principi costituzionali in tema di pena e di uguaglianza con quello, irrinunciabile, della difesa sociale. Attenzione a scardinare la legge sui collaboratori di giustizia che si è rivelata uno strumento fondamentale nella lotta alle mafie. Giovanni Falcone conosceva l’efficacia delle collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa Nostra. La sua legge ha funzionato in passato e funziona ancora oggi. Pur comprendendo l’immensa sofferenza di chi ha visto i propri familiari uccisi barbaramente, la legislazione sui collaboratori di giustizia resta, in questo preciso momento storico, ancora uno strumento investigativo irrinunciabile. Le frasi in corsivo sono estratte dall’intervento di Giovanni Falcone in Atti del Convegno di studio “La legislazione premiale” in ricordo di Pietro Nuvolone svoltosi a Courmayeur, 18-20 aprile 1986. Collana n. 15 – Convegni di studio “Enrico de Nicola” – Problemi attuali di diritto e procedura penale – Giuffrè editore – Milano 1987 – pp. 336 e ss  di Vincenzo Musacchio – HUFFINGTONPOST 8.6.2021


” Il traffico dello svincolo per l’autostrada va ingrossandosi sempre di più , mentre corro in direzione opposta-racconta Lucia-. C’è già tanta gente di fronte all’ospedale , scopro che mio padre è arrivato tra i primi al pronto soccorso . Ha chiesto dov’è Falcone , è scomparso dietro una porta a vetri . No , non so quanto tempo sia passato dal suo arrivo . All’improvviso lo vedo: ho impresso nella memoria il suo sguardo smarrito , sconvolto, è invecchiato in pochi minuti . Mi viene incontro , mi abbraccia: “È morto così, tra le mie braccia”. Comincio a piangere senza freni , sento la sua voce che vuole essere ferma , altera: “Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo”. Dopo qualche secondo non ce la fa più neanche lui . Ora è tra le mie braccia , inizia a singhiozzare . Sento le sue lacrime bagnarmi il collo , lo stringo per paura che si lasci andare . “Papà, ma adesso come farai a continuare?” Chiedo. “Non lo so, non lo so”. Piange ancora , scuote la testa . Alle nostre spalle arriva Alfredo Morvillo , il fratello di Francesca. Lui e papà si conoscono da una vita . Capisce che anche per la sorella non c’è stato niente da fare . “No, pure Francesca no…”, Singhiozza ancora. È grande la sofferenza per la perdita di Giovanni e Francesca , gli volevamo tutti bene , in casa Borsellino . Ma il mio pianto , quel 23 maggio , non sembri egoistico , nasconde anche una consapevolezza: adesso la morte di mio padre diventa più vicina , anche per lui le ore sono ormai contate .  ”  Estratto da “Paolo Borsellino”, Umberto Lucentini)

 


“Nel luglio del ’78 una mattina nella mia stanza dell’ufficio istruzione. Sapevo che Rocco Chinnici, nel frattempo divenuto consigliere istruttore, mi aveva affidato il processo Spatola, e la voce in giro s’era sparsa velocemente. Da più parti mi si fece notare che questa decisione avrebbe creato notevoli problemi di sicurezza. Non provai né paura né ansia, bensì un comprensibile stupore per una problematica per me inedita. Ma quella mattina rimasi sbalordito: una delegazione composta da noti avvocati, il fior fiore dei collegi di difesa palermitani, chiese di essere ricevuta. Non ebbi difficoltà a concedere l’incontro. Fu brevissimo: venivano a dirmi che mi consideravano persona per bene, che si fidavano della mia equità, della mia freddezza di giudizio. Mi sentii imbarazzato. Fra l’altro da parte dei miei colleghi non ho mai goduto di grandi simpatie, poiché non avevo il problema di apprendere i rudimenti del mestiere. Molti, con sufficienza, mi consideravano il braccio destro di Chinnici, quasi fossi un acritico e impersonale esecutore dei suoi indirizzi. Perciò quando Chinnici mi assegnò un compito così gravoso si convinsero definitivamente che fossi una persona che subiva i suoi ordini. Quando si resero conto che ero capace di valutare in piena autonomia fecero di tutto per metterci l’uno contro l’altro. Un bel giorno, quando la misura fu colma, fui io stesso a parlarne a Chinnici. La storia si concluse lì.”  Giovanni Falcone in Falcone vive di Galluzzo, La Licata, Lodato


Giovanni Falcone sapeva come sarebbe finita. <>. La stagione del Corvo, con accuse insensate da cui deve difendersi persino davanti al Csm, e lo strappo di Orlando con la polemica per le presunte <> serbate dai magistrati palermitani sui delitti eccellenti sono altrettanti passi che lo avvicinano all’uscita dalla scena siciliana. Dopo l’Addaura, lo nominano procuratore aggiunto. Ma basta scorrere gli appunti consegnati all’amica giornalista Liana Milella per comprendere il travaglio di quell’ultimo anno, di quell’ultimo incarico sotto <>, Piero Giammanco. Emarginazione, sospetti, <>, dice alla moglie Francesca. <<E’ colpa di Giammanco se mio fratello abbandonò Palermo. E Giovanni glielo disse pure, al momento dei saluti. Lui, imperturbabile, gli diede una pacca sulla spalla e lo baciò due volte sulle guance, come Giuda>>, ha raccontato la sorella Maria.Ancora una volta, invidie, rancori professionali, calcoli politici: la miscela contro Falcone è sempre la stessa. Lui reagisce con un rilancio: <>. E accetta la direzione degli Affari penali che gli offre Claudio Martelli, solo pochi anni prima nella trincea opposta alla sua con la campagna sulla <> e il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Forse è un azzardo reciproco, forse semplice realpolitik, ma funziona. Falcone prende servizio in via Arenula a marzo 1991, a undici mesi dall’avvio di Mani pulite a Milano, in un clima già pesante per la Prima Repubblica. Il delfino di Craxi sa di avere sulle spalle una somma segreta, il conto Protezione. L’eroe antimafia di Palermo è, probabilmente, l’unico che può traghettarlo fuori del craxismo, nel mondo nuovo si profila. Ma sarebbe ingiusto ridurre tutto al calcolo. <>, gli dà atto Maria. Giovanni Falcone immagina di poter avviare da Roma quel progetto che a Palermo gli è impedito: la Superprocura può diventare realtà nella capitale. E da subito cambia qualcosa d’importante, introducendo quel principio di rotazione in Cassazione che sfilerà la sentenza definitiva del maxiprocesso a Corrado Carnevale. Totò Riina e i suoi corleonesi hanno antenne lunghe nei palazzi, presagiscono la stangata che sta per piovere da Roma, capiscono come dietro quel verdetto micidiale che li seppellisce per sempre in galera ci sia la mano di Falcone, <>, si sfoga lui. (Da UN SIMBOLO DI SPETANZA di Goffredo Buccini)


Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice di Pietro Grasso   Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell’azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell’espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

 


Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità.  Ilda Boccassini.


Lo stile dell’uomo e del magistrato di Giovanni Paparcuri Più del metodo mi piacerebbe parlare dello stile, lo stile di uomo che faceva un mestiere difficile: il magistrato. E in questo stile bisogna aggiungerci il carattere, il modo di rapportarsi con la gente e principalmente con i mafiosi, con alcuni suoi colleghi forse ha peccato di ingenuità, cioè si è fidato di qualcuno di cui non doveva. Il metodo Falcone, comunque, era rappresentato anche dagli sguardi, da gesti e da quello che non diceva. Era coerente in tutto e per tutto, un vero uomo d’onore e come tale si comportava.
Tuttavia seguire la traccia del denaro era nato col Consigliere Chinnici, poi il dr. Falcone lo perfezionò e raggiunse importanti risultati, in primis sul processo Spatola, e sempre grazie a questo metodo scoprì attraverso un assegno la vicenda del falso sequestro Sindona.
Oramai è stato detto tutto sul metodo che usava il dr. Falcone, ma il suo metodo non serviva esclusivamente a scoprire intrallazzi, ma serviva pure per altro. Intanto si fidava del suo intuito e in poche battute si accorgeva se colui il quale aveva di fronte diceva la verità.
Quando conduceva un interrogatorio, come mi raccontava il maresciallo dei carabinieri, che era addetto alla verbalizzazione, non andava subito sull’argomento da trattare, ma con calma li invitava a raccontare la loro vita, fino a quando non arrivavano al punto di interesse, e qui li “fregava”, infatti spesso e volentieri da semplici testi li imputava per falsa testimonianza o per favoreggiamento.
Comunque valutava  sempre chi aveva di fronte, non scordando mai, anche se era un mafioso, che si trattava pur sempre di un essere umano. Basta leggere un passo di una sua intervista, se non ricordo male del 1985: “Comprendo il dramma umano di chi mi sta di fronte. Questo lavoro non può essere svolto se si è privi di umanità”. Era molto metodico, quasi maniacale, il pool antimafia si avvaleva per le indagini bancarie e patrimoniali di una squadra di sottufficiali della Guardia di Finanza diretti dal capitano Ignazio Gibilaro, struttura voluta proprio dal giudice e i loro uffici erano ubicati accanto al bunkerino, oggi Museo Falcone Borsellino. Ebbene, nonostante questo gruppo era deputato a fare ciò, il dr. Falcone spesso e volentieri controllava personalmente la documentazione bancaria e in particolar modo gli assegni, sequestrati a seguito di mandati di cattura o indagini, l’operazione più significativa e che, tra l’altro, mi riguarda personalmente fu quella denominata “Charlie”, la racconto perché mette in risalto una sfaccettatura forse poco conosciuta di un metodo che solo il dr. Falcone sapeva usare, perché non credo che altri avrebbero fatto la stessa cosa.
Dunque, una mattina il dr. Falcone mi chiamò con un tono un po’ diverso, e già dal tono capii che c’era qualcosa che non andava. Entrato nella sua stanza vidi una montagna di assegni e documentazione bancaria sulla sua scrivania, sequestrati, appunto, in seguito all’operazione Charlie, io pensai che voleva essere aiutato per la solita spunta, o che magari voleva che confrontassi alcune firme attraverso verbali di interrogatorio o di sommarie informazione, quindi mi misi di fronte a lui, invece mi disse di girare e di mettermi proprio al suo fianco, nelle sue mani teneva un assegno, che subito dopo mi mostrò, chiedendomi di chi era quella firma. La firma era di mio padre. In quel momento se mi avessero tagliato le vene non sarebbe uscita una goccia di sangue, e già pensavo: “Giovanni qua è finita la tua storia”. Comunque gli dissi che quella firma era di mio padre e l’assegno fu emesso come anticipo per la compravendita di un appartamento, il sogno di ogni famiglia. Dopodiché mi domandò se c’era il compromesso, “certo dr. Falcone”. Non aggiunse altro e quell’assegno lo rimise assieme agli altri, ma io impietrito non sapevo che fare, mi aspettavo altro, fino a quando non mi disse: “ancora qua è? vada a lavorare”, mentre stavo per uscire mi fece tornare indietro e con tono ancora più severo mi disse: Signor Paparcuri (non più papa) se lei è qui un motivo c’è, vada a lavorare”. Io tornai a lavorare e quell’assegno con la relativa documentazione l’ho microfilmato e inserito in banca dati: ho fatto semplicemente il mio dovere.
Per l’uomo-giudice non occorreva altro, si è fidato della mia parola e del suo istinto, il metodo Falcone era anche questo, ma guai a prenderlo in giro. Il suo metodo era anche quello di trasmettere a noi collaboratori il senso dello Stato; per noi era un punto di riferimento.
Un altro aspetto del suo metodo è rappresentato anche da altro, cioè alcune volte dal mio ufficio notavo che il dr. Falcone accompagnava alla porta alcune persone che lo venivano a trovare, e dall’espressione del suo volto e da alcuni comportamenti capivo se lo aveva fatto per educazione oppure perché lo aveva mandato letteralmente a quel paese, dove stava la differenza? Se la presenza era gradita accompagnava con lo sguardo e con un sorriso quella determinata persona fino a quando non scendeva le scale, viceversa se non era gradita, aveva il viso tirato e appena il visitatore varcata la soglia della porta blindata, la chiudeva immediatamente. Ecco, con parole mie ho cercato nel mio piccolo di raccontare il metodo Falcone, all’inizio ho specificato che era fatto anche da sguardi, ma quelli non li posso descrivere con semplici e freddi caratteri, occorrerebbero dei colori, ma non ci riesco, forse perché preferisco tenerli per me. Rimane comunque il fatto che seguire la traccia del denaro è un ottimo metodo per contrastare il malaffare, ma quello del dr. Falcone, sommandolo ad altri comportamenti, era uno stile, era lo stile del dr. Falcone, prima uomo e poi magistrato.

La mossa vincente di seguire il denaro. La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell’ 800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in  cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all’etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell’isola. E’ stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all’epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all’Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l’uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta – io – i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all’impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell’ omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all’intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti  soggetti legati a Cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l’assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l’acquista. Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni . Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro . Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all’estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell’incipit dell’ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all’estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.  (Di  Leonardo Guarnotta – Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni ’80 componente del pool antimafia dell’ufficio istruzione)


In quel mese di maggio del 1992 a Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. E’ un bersaglio facile. Falcone passeggia per le strade della capitale senza poliziotti dietro, incontra amici, niente blindate, mitragliette, scorte. Poi, i mafiosi incaricati di ammazzarlo ricevono l’ordine di tornare in Sicilia. Giovanni Falcone deve morire ma non deve succedere a Roma, in un agguato con armi corte -pistole e fucili- dentro un delitto mafioso tradizionale. Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Nella dinamica che cambia si rintraccerà la matrice della strage, che non è solo mafiosa. Qualcuno indica ai boss il <> per farlo fuori. E’ una di quelle <> di cui Giovanni Falcone ha parlato per anni sui delitti politici di Palermo. Adesso tocca a  lui. (Da UOMINI SOLI di Attilio Bolzoni)


Alla fine del 1984 il pool è al massimo dell’impegno e dei risultati.  Falcone si muove lento ma inesorabile, passo dopo passo. Come un bulldozer rimuove ogni ostacolo ed evita le bordate dei suoi avversari che, secondo la peggior tradizione palermitana, non potendolo uccidere col piombo, ci tentano con le maldicenze. Cosa dicono, stavolta, le solite voci di corridoio? Cantano una vecchia e collaudata filastrocca: “Falcone arresta solo i deboli, i potenti non li tocca”. In verità ha già inviato comunicazioni giudiziarie a Nino e Ignazio Salvo, ipotizzando il reato di associazione per delinquere. E ha cominciato a ronzare pericolosamente attorno a Vito Ciancimino, il “padrone di Palermo”. Bella forza, insinua il tam-tam. Perché non passa alle manette?
Giovanni incassa e non fiata. Sa che la fretta e l’approssimazione giocherebbero contro di lui, che il nemico in agguato aspetta un suo errore, anche minimo, per delegittimarlo. Confida ai pochi amici: “Io faccio il giudice e per firmare un provvedimento devo avere la certezza di non essere smentito. Se arresti uno di questi signori e dopo un pò sei costretto a metterlo fuori, hai chiuso”. Le maldicenze montano, lui continua a subire senza reagire.
Ottobre era stato il mese del “raccolto”. In Canada Falcone cominciò a ottenere le prove che gli avrebbero consentito di incastrare l’ex sindaco Vito Ciancimino: i riscontri bancari di operazioni per milioni di dollari. Contemporaneamente Buscetta sottoscrisse un verbale con cui ammetteva di essere stato in contatto diretto coi Salvo, durante la sua latitanza del 1980. Diede anche una particolareggiata descrizione della casa dove aveva trascorso le feste di Natale: la villa che gli esattori possedevano a Casteldaccia e che gli avevano “messo a disposizione”.
Due volte Palermo finì in prima pagina. La prima, il 3 novembre, quando il commissario Ciccio Accordino si presentò al quinto piano di via Sciuti per dire all’ex “padrone di Palermo”: Signor Ciancimino lei è in arresto, l’accusa è di associazione mafiosa ed esportazione di capitali all’estero”. Quindi passò qualche giorno e Falcone replicò. Fu la volta degli intoccabili Nino e Ignazio Salvo: in manette, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso. 
Era il 12 novembre: la città guardava sbigottita, nessuno avrebbe mai creduto di poter assistere a tanto. Solo qualche anno prima, per interrogare gli esattori, tanto potenti da riuscire a imporre alle elezioni i “loro” deputati, i magistrati dovevano chiedere un appuntamento telefonico.Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata