STRAGE DI CAPACI – articoli 1º Parte

“Faccia da mostro, la sua complice e quelle tracce che portano a una donna nel commando che uccise Falcone” Il giornalista Lirio Abbate ha dedicato un libro-inchiesta al misterioso uomo con la faccia sfregiata che compare sullo sfondo dei delitti mafiosi degli anni ’80. E che secondo alcuni pentiti si muoveva accompagnato da una donna: una delle poche appartenenti a Gladio di sesso femminilI. Ha proiettato la sua ombra sui delitti più misteriosi compiuti nella Palermo delle stragi. Compariva e scompariva come un lampo, per poi svanire definitivamente e lasciare traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. Era un fantasma, un uomo taciturno con la faccia butterata, orribile, mostruosa, sempre presente quando c’era un omicidio delicato da compiere: quello eccellente del commissario Ninni Cassarà, quello inspiegabile di Claudio Domino, ammazzato a 11 anni senza un movente. E poi il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone: si allunga fino a lì l’ombra del killer col tesserino dei servizi in tasca, uno dei tanti uomini cerniera tra Cosa nostra e Stato. Di lui i pentiti hanno raccontato cose di questo tenore: “Io credo che il personaggio con il volto sfregiato sia molto pericoloso. È un cane, sto parlando di un uomo fuori dalle regole“. E ancora: “C’è un uomo molto brutto che ha contatti con la ’ndrangheta e con Cosa nostra, ha il viso sfigurato, è un ex poliziotto passato ai servizi segreti”. Per anni lo hanno chiamato semplicemente così: Faccia da mostroPoi nel 2007 arrivano un nome e un cognomeGiovanni Aiello, fino al 1977 poliziotto della squadra mobile di Palermo. Quella cicatrice sulla guancia se l’è fatta con una fucilata, in Sardegna a fine anni Sessanta. La sua foto viene mostrata i pentiti: “È lui”, dicono. Vincenzo Agostino, il padre dell’agente di polizia assassinato nel 1989 insieme alla giovane moglie, lo riconosce in un confronto all’americana: è lo stesso uomo che era venuto a cercare suo figlio, poco prima dell’omicidio. Poi, nel 2017, Aiello muore: da solo, in una spiaggia della Calabria, d’infarto. A Faccia da MostroLirio Abbate, ha dedicato il suo ultimo libro uscito per Rizzoli. Il vicedirettore dell’Espresso, esperto giornalista investigativo su fatti di mafia, si è messo sulle tracce di Aiello. Il fantasma col volto deturpato, che secondo alcuni collaboratori di giustizia si muoveva spesso in compagnia di una donna: si faceva chiamare “Antonella“. Chi l’ha incontrata la ricorda come una coi modi da “guerrigliera”.

Abbate, seguendo Faccia da mostro ti sei imbattuto anche in questa sua sodale: chi era? La procura di Catania l’ha individuata in Virginia Gargano. Oggi è ufficialmente una casalinga disoccupata, ma il suo passato è quello che giornalisticamente mi ha interessato di più.
Perché? Perché era una delle poche donne che faceva parte di Gladio, una delle più giovani. Una napoletana che ha sposato un altro appartenente a Stay Behind, nipote dell’ex capo della Polizia Vincenzo Parisi.
Chi ci faceva questa donna con Faccia da mostro? È il mistero che mi piacerebbe svelare. Ne parlano alcuni pentiti: Nino Lo Giudice, detto “il nano”, Maurizio Cortese, Consolato Villani.
Cosa dicono? Che negli anni ’80 si muoveva spesso con Faccia da mostro. Poi negli anni duemila ricompare a Reggio Calabria, quando Aiello incontra i capi della ‘ndrangheta con i quali parla di un traffico d’armi.
Su di lei ha indagato la procura Catania? Sì, era la stessa inchiesta per concorso esterno alla mafia che ha visto indagato Aiello. L’hanno intercettata tra il 2013 e il 2014.
Poi però Aiello muore d’infarto su una spiaggia calabrese, da solo. Era il 2017: per qualche investigatore è una morte che arriva al momento giusto. Tu che idea ti sei fatto? L’infarto può cogliere sempre tutti di sorpresa, purtroppo. Aiello viene colpito da infarto dopo essere stato individuato da Vincenzo Agostino come l’uomo che era andato a casa sua a cercare suo figlio. Da lì a poco sarebbe stato interrogato: non possiamo sapere come si sarebbe comportato davanti ai pm. Di sicuro è in quel momento che muore, e muore sicuramente d’infarto, come ha confermato l’autopsia. Subito dopo la famiglia ha deciso di cremarne il corpo.
La donna che accompagnava Faccia da mostro non è l’unica che è spuntata ultimamente sullo sfondo dei grandi delitti di mafia. No, ci sono dei testimoni che notano una donna nei pressi dei luoghi delle stragi del 1993, quelle di Milano, Firenze e Roma. Hanno fatto anche gli identikit, ma fino a oggi non si è mai arrivati a un nome.
C’è l’ombra di una donna anche sullo sfondo della strage di Capaci. Qualcosa di più dell’ombra. Ci sono i reperti trovati nei pressi del cratere della strage. Reperti che potrebbero appartenere agli attentatori. Ebbene su quei reperti ci sono tracce di dna, un dna che è femminile.
Una donna nel commando che uccise Falcone sarebbe la più grossa rivelazione degli ultimi trent’anni. Sappiamo che Cosa nostra non ha mai affidato le fasi esecutive di una strage o di un omicidio a una donna. O comunque nessuno ne ha mai parlato, quindi questa cosa lascia pensare che possano esserci stati soggetti esterni alla mafia tra gli esecutori delle stragi. Tra tutte queste ipotesi, però, c’è un dato inconfutabile: quel dna trovato tra i reperti di Capaci appartiene a una donna.
Secondo te la donna di Capaci è la stessa degli identikit delle stragi del 1993? Rispondere a questi interrogativi è parte integrante del mistero che come cronisti stiamo raccontando da anni. Vorremmo che qualcuno li risolvesse, prima o poi.
Ventinove anni dopo la strage di Capaci è ancora possibile ricostruire come andarono davvero le cose? È possibile a un certo punto arrivare alla verità?
Come per tutti gli altri delitti, io penso che più passa il tempo, più sarà difficile accertare come andarono le cose. Gli anni continuano a coprire le tracce, i fiancheggiatori ed eventuali personaggi esterni a Cosa nostra. Quando parlo di personaggi esterni mi riferisco a quelli che non hanno materialmente eseguito alle stragi, ma hanno contribuito a spingere Totò Riina sulla strada dell’attacco allo Stato a suon di bombe.
Più passa il tempo e meno possibilità avremo di scoprire chi sono?  Ci sono stati i depistaggi, le piste fasulle, le indagini che hanno imboccato direzioni sbagliate. Basta solo ricordare che solo adesso siamo arrivati alla condanna di Nino Madonia per l’omicido di Nino Agostino. Un duplice omicidio commesso nel 1989 e oggi dobbiamo ancora capire bene quale fosse il ruolo di Faccia da mostro in quella vicenda. Come in tante altre: di quel periodo c’è ancora moltissimo da scoprire. E sono passati più di trent’anni ormai.  di Giuseppe Pipitone | 22 MAGGIO 2021 IL FATTO QUOTIDIANO


Nella metà di maggio Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote Antonino Galliano si occuparono di controllare i movimenti delle due Fiat Croma e della Lancia Thema blindate che sostavano sotto casa di Falcone a Palermo per capire quando il giudice sarebbe tornato da Roma[9]. Nessuna verità definitiva fu invece acquisita “in sede processuale sull’identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita”.

L’attentato  il 23 maggio Domenico Ganci avvertì telefonicamente prima Ferrante e poi La Barbera che le Fiat Croma erano partite ed avevano imboccato l’autostrada in direzione dell’aeroporto di Punta Raisi per andare a prendere Falcone. Ferrante e Biondo (che erano appostati in auto nei pressi dell’aeroporto) videro uscire il corteo delle blindate dall’aeroporto e avvertirono a loro volta La Barbera che il giudice Falcone era effettivamente arrivato. 
 La Barbera allora si spostò con la sua auto in una strada parallela alla corsia dell’autostrada A29 e seguì il corteo blindato, restando in contatto telefonico per 3-4 minuti con Gioè, che era appostato con Brusca su una collinetta sopra Capaci, dalla quale si vedeva bene il tratto autostradale interessato.  Alla vista del corteo delle blindate, Gioè diede l’ok a Brusca, che però ebbe un attimo di esitazione, avendo notato le auto di scorta rallentare a vista d’occhio: Giuseppe Costanza, autista giudiziario che era nella vettura con Falcone e la moglie, gli stava ricordando che avrebbe dovuto restituirgli le chiavi dell’auto, allora Falcone le rimosse e cercò di dargliele, ma l’autista gli chiese di reinserirle per evitare il rischio di incidente. Dopo questo rallentamento, Brusca attivò il radiocomando che causò l’esplosione. La prima blindata del corteo, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi ad alcune decine di metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo[1. La seconda auto, la Croma bianca guidata da Falcone, si schiantò contro il muro di asfalto e detriti improvvisamente innalzatisi per via dello scoppio, proiettando violentemente il giudice e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.

Gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella terza auto (la Croma azzurra) erano feriti ma vivi: dopo qualche momento di shock, riuscirono ad aprire le portiere dell’auto ed una volta usciti si schierarono a protezione della Croma bianca, temendo che i sicari sarebbero giunti sul posto per dare il “colpo di grazia”. A giungere sul luogo furono invece vari abitanti delle zone limitrofe, intenzionati a prestare i primi soccorsi; tra questi vi fu anche il fotografo Antonio Vassallo, che però abbandono il luogo dopo che l’agente Corbo lo scambiò erroneamente per uno dei sicari. Venne subito estratto dall’auto Costanza, che si trovava sul sedile posteriore vivo in stato di incoscienza; anche il giudice Falcone e Francesca Morvillo erano ancora vivi e coscienti, ma versavano in gravi condizioni: grazie all’aiuto degli abitanti, si riuscì a tirare fuori la moglie del giudice dal finestrino. Per liberare Falcone dalle lamiere accartocciate fu invece necessario attendere l’arrivo dei Vigili del Fuoco. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo morirono in ospedale nella serata dello stesso giorno, per le gravi emorragie interne riportate, il primo alle 19.05 tra le braccia di Paolo Borsellino, la seconda poco dopo le 22 durante un’operazione chirurgica.

La strage di Capaci, festeggiata dai mafiosi nel carcere dell’Ucciardone, provocò una reazione di sdegno nell’opinione pubblica. Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l’attentato di Capaci fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti: infatti la strage avvenne nei giorni in cui il Parlamento era riunito in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e Andreotti era considerato uno dei candidati più accreditati per la carica, ma l’attentato orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro, che venne eletto il 25 maggio, ovvero due giorni dopo la strage.

Prima indagine e processo “Capaci uno. Nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia, su indicazione del neo-pentito Giuseppe Marchese, cognato di Leoluca Bagarella, riuscì ad individuare e ad intercettare Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, i quali nelle loro telefonate facevano riferimento all’attentato di Capaci. Dopo essere stato arrestato, Gioè si suicidò nella sua cella, probabilmente perché aveva scoperto di essere stato intercettato mentre parlava dell’attentato di Capaci e di alcuni boss e quindi temeva una vendetta trasversale; invece Di Matteo e La Barbera decisero di collaborare con la giustizia e rivelarono per primi i nomi degli altri esecutori della strage. Per costringere Di Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni, Giovanni BruscaLeoluca BagarellaGiuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro decisero di rapire il figlioletto Giuseppe, che venne brutalmente strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia. Nonostante ciò, Di Matteo continuò la sua collaborazione con la giustizia. Nell’aprile 1995 iniziò il processo per la strage di Capaci[26], che aveva come imputati Salvatore RiinaPietro AglieriBernardo BruscaGiuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Graviano, Michelangelo La Barbera, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Bernardo ProvenzanoBenedetto SperaBenedetto Santapaola, Giuseppe Madonia, Mariano AgateGiuseppe LuccheseAntonino Giuffrè, Salvatore Buscemi, Francesco Madonia e Giuseppe Farinella (accusati di essere i componenti delle “Commissioni” provinciale e regionale di Cosa Nostra e quindi di avere avallato la realizzazione della strage) ma anche Leoluca Bagarella, Giovanni Battaglia, Salvatore BiondinoSalvatore Biondo, Raffaele e Domenico Ganci, Pietro Rampulla, Antonino Troia, Giuseppe Agrigento, Salvatore Sbeglia, Giusto Sciarrabba e i collaboratori di giustizia Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, Giovanni BruscaSalvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano e Calogero Ganci (accusati di avere partecipato a vario titolo nell’esecuzione della strage e nel reperimento di esplosivi e telecomando che servì per l’esplosione). Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò in primo grado all’ergastolo Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella, Raffaele e Domenico Ganci, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Graviano, Michelangelo La Barbera, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Pietro Rampulla, Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Antonino Troia, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia mentre vennero assolti Mariano Agate, Giuseppe Lucchese, Salvatore Sbeglia, Giusto Sciarrabba, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Francesco Madonia e Giuseppe Agrigento (che però venne condannato per detenzione di materiale esplosivo); i collaboratori Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano e Calogero Ganci vennero invece condannati a pene tra i quindici e i ventuno anni di carcere[9][27]. Nell’aprile 2000 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta confermò tutte le condanne e le assoluzioni di primo grado ma condannò all’ergastolo anche Salvatore Buscemi, Francesco Madonia, Antonino Giuffrè, Mariano Agate e Giuseppe Farinella. Nel maggio 2002 la Corte di Cassazione annullò con rinvio alla Corte d’assise d’appello di Catania le condanne di Pietro Aglieri, Salvatore Buscemi, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Francesco Madonia, Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi e Benedetto Spera. Nel luglio 2003 una parte del procedimento per la strage di Capaci e lo stralcio del processo “Borsellino ter” (che riguardava la strage di via D’Amelio) vennero riuniti in un unico processo perché avevano imputati in comune: nell’aprile 2006 la Corte d’assise d’appello di Catania condannò dodici persone in quanto ritenute mandanti di entrambe le stragi: Giuseppe e Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Stefano Ganci, Antonino GiuffrèPietro AglieriBenedetto SantapaolaMariano Agate mentre Giuseppe Lucchese venne assolto[31]; nel 2008 la prima sezione penale della Cassazione confermò la sentenza.

Nuove indagini e processo “Capaci bis  Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e dichiarò ai magistrati di Caltanissetta che circa un mese prima della strage di Capaci si recò a Porticello insieme ad altri mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille (Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello) per ricevere da un certo Cosimo alcuni residuati bellici recuperati in mare[33]; Spatuzza dichiarò anche che gli ordigni furono poi portati in un magazzino nella sua disponibilità dove provvidero ad estrarre l’esplosivo dalle bombe, che venne travasato in sacchi della spazzatura ed in seguito consegnato a Giuseppe Graviano per essere utilizzato nella strage di Capaci e negli altri attentati che seguirono. Dopo queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di Capaci: nell’aprile 2013 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta emise un’ordinanza di custodia cautelare per il pescatore Cosimo D’Amato (identificato dalle indagini nel Cosimo indicato da Spatuzza), Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello e Salvatore Madonia (accusato di essere stato un componente della “Commissione provinciale” di Cosa Nostra in qualità di reggente del “mandamento” di Resuttana e quindi di avere avallato la strage). Nel maggio 2014 ebbe inizio il secondo troncone del processo per la strage di Capaci, denominato “Capaci bis”, che aveva come imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello[35]; a novembre il giudice dell’udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato Giuseppe Barranca e Cristofaro Cannella all’ergastolo mentre Cosimo D’Amato e il collaboratore Gaspare Spatuzza vennero condannati rispettivamente a trent’anni e a dodici anni di carcere.

Indagine “Mandanti occulti”  Nel 1993 la Procura di Caltanissetta aprì un secondo filone d’indagine parallelo per accertare le responsabilità nelle stragi di Capaci e via d’Amelio di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all’organizzazione mafiosa (i cosiddetti “mandanti occulti” o “a volto coperto”): nel 1998 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sotto le sigle “Alfa” e “Beta” per concorso in strage, soprattutto in seguito alle dichiarazioni de relato del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi. tuttavia nel 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò l’inchiesta su “Alfa” e “Beta” al termine delle indagini preliminari poiché non si era potuta trovare la conferma delle chiamate de relato. Nello stesso anno, la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati anche gli imprenditori Antonino Buscemi, Pino Lipari, Giovanni Bini, Antonino Reale, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano (ex titolari di grandi imprese che si occupavano dell’illecita gestione dei grandi appalti per conto dell’organizzazione mafiosa) per concorso in strage, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino e Giovanni Brusca: le indagini infatti ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondire delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sul filone “mafia e appalti” insieme al ROS[40]; tuttavia nel 2003 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò le indagini sugli accusati perché “gli elementi raccolti non appaiono idonei a sostenere l’accusa” in giudizio. Infine nel 2013 la Procura di Caltanissetta archiviò definitivamente l’inchiesta sui “mandanti occulti” poiché le indagini non avevano trovato ulteriori risultati investigativi:  Ogni anno, il 23 maggio, si tiene a Palermo e Capaci una lunga serie di attività, in commemorazione della morte del magistrato Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. I resti dell’auto sono esposti a Roma, presso la scuola di formazione degli agenti di polizia penitenziaria. Nell’anno della strage è stata creata anche una fondazione intitolata a Giovanni e Francesca Falcone e guidata da Maria Falcone, sorella del magistrato, che si propone di combattere la criminalità organizzata e di promuovere attività di educazione della legalità. La Fondazione ha ottenuto dall’ONU nel 1996 il riconoscimento dello status consultivo in qualità di ONG presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Ogni due anni il comune di Triggiano, paese originario di Rocco Dicillo, agente della scorta del magistrato Falcone, ricorda la strage di Capaci organizzando un premio d’arte contemporanea la “Biennale Rocco Dicillo”, ispirata al tema della legalità. wikipedia


I SOPRAVVISSUTI RACCONTANO L’INFERNO IN AUTOSTRADA Angelo Corbo, interrogato all’udienza del 19 settembre 1995, ha raccontato: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti…» Al fine di fissare con maggiore forza i momenti immediatamente successivi e precedenti lo scoppio e anche allo scopo di dar conto della drammaticità di quei primi istanti è utile riportare direttamente le dichiarazioni rese dai tre agenti sopravvissuti in ordine a tali frangenti. Corbo Angelo, sentito all’udienza del 19 settembre 1995, ha dichiarato: «Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficolta’ ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dott. Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far sì che c’era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all’autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dott. Falcone e della dott.ssa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dott. Falcone e la dott.ssa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dott. Falcone che era bloccato. Dalla parte della dott.ssa Morvillo invece c’era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dott.ssa Morvillo e uscita dall’abitacolo della macchina. Invece il dott. Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l’altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c’era stato anche un cercare di spegnere questo principio d’incendio. Il dott. Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perche’ purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, pero’, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L’autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell’abitacolo della macchina».

«NON HO VISTO PIÙ NIENTE» Gaspare Cervello, deposizione del 19 settembre 1995, ha riferito: «Dopo il rettilineo, diciamo, all’inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un’esplosione che neanche il tempo di finire un’espressione tipica che non ho visto piu’ niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perche’ poi c’era il terriccio dell’asfalto che proprio copriva la macchina; c’era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l’unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni”, però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l’ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l’autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”, mentre la macchina davanti, non l’ho vista… Ho pensato che ce l’avevano fatta, ce l’avevano fatta, che erano andati via… ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perche’ noi via radio non potevamo dare piu’ niente perche’ la macchina nostra era anche distruttissima».


I RACCONTI DI COSTANZA E CAPUZZA  Costanza Giuseppe, autista giudiziario, sentito alla stessa udienza, ha ricordato: «Io l’ultima cosa che ricordo del dottor Falcone e’, appunto, nel chiedergli quando dovevo venire a riprenderlo; mi ha detto: “Lunedi’ mattina”, io gli dissi: “Allora, arrivato a casa cortesemente mi da’ le mie chiavi in modo che io lunedi’ mattina posso prendere la macchina, ma probabilmente era soprappensiero perche’ una cosa del genere non riesco a giustificarla soprattutto da lui. Sfilo’ le chiavi che erano inserite al quadro dandomele dietro e io a quel punto lo richiamai dicendoci: “Cosa fa? Cosi’ ci andiamo a ammazzare”. Questo e’ l’ultimo ricordo che lui girandosi verso la moglie e incrociandosi lo sguardo e girandosi ancora verso di me fa: “Scusi, scusi”. Ecco, queste sono le ultime parole che io ricordo perche’ poi non c’e’ piu’ nulla. Potevamo andare a una media di 120, 120-130, non piu’ di tanto. Nel momento in cui sfilo’ le chiavi ci fu una diminuzione di velocità perche’ la marcia era rimasta inserita era la quarta». Capuzza Paolo, udienza del 9 ottobre 1995, ha asserito: «Io ero rivolto, diciamo, un po’ nella sedia della parte destra e guardavo un po’ sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un’esplosione ed un’ondata di caldo e’ arrivata, ed in quell’attimo mi sono girato nella parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato l’autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l’autovettura del magistrato. Mentre eravamo all’interno dell’autovettura, si sentivano, ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioè non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiche’ siamo usciti dall’autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perche’ appunto la mano non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall’autovettura e per guardarci intorno, perche’ ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c’erano delle fiamme ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c’era piu’ il vano motore e… ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, si’ Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto pero’ si e’ girato con la testa come… poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno». Queste dunque le prime immagini della strage tratte dal racconto dei sopravvissuti. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA12 maggio 2021


UNA STRAGE PER FERMARE GIOVANNI FALCONE, IL GIUDICE CHE FA PAURA ALLA MAFIA  Il 23 maggio 1992 i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registravano gli effetti dello spostamento d’aria provocato dall’esplosione verificatasi nel tratto autostradale Palermo Punta Raisi. La registrazione venne effettuata dai macchinari alle ore 17.56.48 italiane. La certezza di tale dato consentiva di risalire con esattezza all’ora della deflagrazione, che può fissarsi alle 17.56.32 Il 23 maggio 1992 i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registravano, attraverso un aumento di ampiezza relativo ad un segnale ad alta frequenza, gli effetti dello spostamento d’aria provocato dall’avvenuto brillamento di sostanze costituenti verosimilmente materiale esplosivo, verificatosi nel tratto autostradale Palermo Punta Raisi. Secondo quanto riferito dal teste Smeriglio Giuseppe, primo ricercatore all’Istituto Nazione di Geofisica ed all’epoca responsabile della sezioni Dati Sismici, premesso che non v’erano dubbi che si trattasse di un’esplosione posto che di essa si era riscontrata la forma tipica, nettamente diversa dal segnale rilasciato dalle onde sismiche, la registrazione venne effettuata dai macchinari alle ore 15.56 secondo l’orario di Greenwich, corrispondenti alle 17.56.48 italiane. La certezza di tale dato consentiva di risalire con esattezza all’ora della deflagrazione, che può fissarsi alle 17. 56. 32, essendo stato necessario detrarre dall’arrivo del segnale sedici secondi, cioè il tempo impiegato dall’onda, che si propaga alla velocità di 4 km al secondo, per percorrere la distanza dal punto di scoppio all’osservatorio, coprendo un tragitto di circa 65 km. L’ esplosione investiva l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con l’autista Costanza Giuseppe. A causa della deflagrazione si arrestava la marcia anche della terza auto del corteo, occupata dagli agenti Corbo Angelo, Capuzza Paolo e Cervello Gaspare, e di conseguenza anche di altra che la seguiva, una Lancia Thema targata Palermo 931166, nonchè di altre due autovetture che transitavano nella corsia opposta, una Opel Corsa targata Pa A53642 e una Fiat Uno targata Pa 718283. I momenti immediatamente successivi allo scoppio vedevano il Corbo e gli altri colleghi che viaggiavano insieme a lui, impegnati, malgrado le ferite riportate, nell’opera di soccorso dei due magistrati e dell’autista, i quali, con l’ausilio dei primi soccorritori, venivano estratti dall’autovettura, ad eccezione del dottor Falcone, per il quale era necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco essendo il magistrato rimasto incastrato fra le lamiere dell’autovettura. I primi soccorritori avevano modo di constatare che tutti gli occupanti della Croma erano in vita, avendo verificato che la dott. ssa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, mentre invece il dott. Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i magistrati sarebbero poi deceduti in serata, per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione, mentre per il Costanza la prognosi riservata veniva sciolta favorevolmente dopo trenta giorni. Nell’immediatezza del fatto nessuna traccia si rinveniva dell’auto che era in testa al corteo, che si pensava in un primo momento fosse addirittura riuscita a sfuggire alla deflagrazione e quindi corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo nel corso della serata la Fiat Croma veniva ritrovata completamente distrutta, in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre occupanti privi di vita. I tre agenti erano morti sul colpo, e più in particolare, secondo quanto rilevato dall’esame autoptico effettuato dai dottori Procaccianti, Albano e Maggiordomo la sera dell’attentato alle ore 23.45 presso l’Istituto di Medicina Legale di Palermo, il Montinaro e il Di Cillo per effetto dello squassamento della scatola cranica, mentre lo Schifani era deceduto per le gravissime lesioni cranio encefaliche riportate.


GLI ATTENTATORI SI COSTRUIRONO UN RICEVITORE ANCORA PIÙ RUDIMENTALEVerso la fine di aprile 1992, Pietro Rampulla l’Artificiere si recò a incontrare Brusca in una casa nei pressi della cittadina di Altofonte. La casa apparteneva a Baldassarre Di Maggio, un picciotto del clan di Brusca. Rampulla aveva acquistato due telecomandi in un negozio di giocattoli. Oltre ai congegni, che aveva nascosto sotto delle balle di fieno nel caso fosse stato fermato dalla polizia, Rampulla recò anche in dono a Brusca una giumenta. Rampulla portò in casa due scatole di polistirolo e le appoggiò sul tavolo. Le aprì per mostrarne il contenuto a Brusca e agli altri complici intervenuti. I congegni, dipinti con una vernice metallica color grigio scuro, presentavano alla parte superiore due levette, che si muovevano lungo dei solchi a forma di croce e un’antenna estraibile. Uno dei due telecomandi non funzionava bene e venne scartato. Nell’altro fu tolta la leva sinistra e con il nastro adesivo fu bloccata quella di destra, in modo che potesse muoversi in un’unica direzione. Serviva solo per inviare un impulso al ricevitore, e i mafiosi volevano eliminare il rischio di qualsiasi errore. Gli attentatori si costruirono un ricevitore ancora più rudimentale. Una sottile scatoletta di compensato conteneva un piccolo motore a batteria fissato a una sottile lamina in rame lunga cinque centimetri, presa da una pila da 1.5V. Quando l’impulso dal telecomando raggiungeva l’antenna del ricevitore, il motore faceva girare la lamina di 180 gradi e colpiva la capocchia di un chiodo di ferro, su cui era stato avvolto un filo di rame. Dalla scatola fuoriuscivano due fili: uno nero, che serviva da antenna, e uno rosso e bianco collegato al detonatore. I mafiosi collaudarono il telecomando e il ricevitore dentro casa. Collegarono il ricevitore flash a cubo di vecchio tipo -comprati in un negozio di fotografia- per simulare l’esplosione. Lo spostamento della leva sul telecomando li faceva scoppiare. I congegni funzionavano perfettamente. Gli attentatori uscirono all’esterno. Uno di essi si sistemò con il telecomando sotto la veranda, mentre il ricevitore venne collocato vicino a un abbeveratoio a una cinquantina di metri. Ancora una volta, i congegni Funzionarono. Brusca era soddisfatto: ora si poteva partire con i preparativi. (I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia di JOHN FOLLAIN)